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Sicilia Queer FilmFest VII - Day 8 e 9 - Premiazioni e Palmarès
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Day 8

Si inizia presto. Alle 16 è la volta del secondo turno della Queer Short, cioè a dire i cortometraggi in concorso.

Min Homosyster: il racconto, sulla carta umile e tenero, di una ragazzina che parte alla volta di una gita con la sorella e la ragazza di quest’ultima. La piattezza disarmante della regia, senza idee né strategia, demolisce un progetto già esile nelle intenzioni, che forse aspira alla tenerezza e alla semplicità come se fossero le uniche possibili alternative. Un film che vorrebbe apparire roseo e invece è grigio.

Voto: *

 

locandina

My Gay Sister (2017): locandina

 

Nocturnal: prosegue la faticosa visione con il più brutto corto in concorso, un documentario anonimo e paratelevisivo che vorrebbe informare dell’opra del fotografo Joe Ziolowski ma che non risponde nemmeno alla basica necessità espositiva. Mentre il fotografo racconta del dramma dell’AIDS, che in passato gli portò via tantissimi cari, ritorniamo in un estenuante loop in b/n alla figura di un visitatore che osserva l’allestimento: all’ottava volta che questa immagine si ripropone, più che la riflessione viene destata l’irritazione.

Voto: *

 

1992: pur scegliendo la strada della fiction per l’ordinario percorso di scoperta e autoconsapevolezza del protagonista, Anthony Doncque, regista di 1992, non è in grado di decidere quanto essere vero e quanto essere finto. Forse l’intenzione di coinvolgimento sensoriale non c’era; ma allora perché quell’attenzione dettagliata nei confronti della scena di sesso, che poi alla fine è pudica in modo sfiancante? Non volendo apparire più che discreto, il film immerso nell’incoerenza finisce per essere mediocre, e poco possono la bravura del giovane attore protagonista, la scelta finale di concedere al padre rabbioso il ruolo di genitore imprevedibilmente sensibile e la deriva metacinematografica.

Voto: **

 

locandina

1992 (2016): locandina

 

If I Met A Magician: da Israele giunge uno dei corti migliori, terzo posto in un possibile podio dopo Gonzales e Crotty. La tensione omoerotica nel film di Goren viene analizzata nella condizione socio-politica del paese israeliano, così da crearsi un terribile incrocio fra sentimenti di frustrazione e paranoia. L’omosessualità, forma di possibile esplosione vitale per il protagonista, non può niente contro un conflitto che induce alienazione e non risparmia nessuno; ma la sirena del Giorno della Memoria (il sospeso finale) sembra un attimo ripresa, un rituale che è un faro di luce sull’infelicità e sulla fissità di un reale grottesco.

Voto: ***

 

scena

If I Met a Magician (2015): scena

 

Soy Alex: non si sfrutta bene la possibilità del transmediale Cinema-Social Network, in Soy Alex, e a fronte di tale occasione sprecata il film non può che definirsi irrisolto e anche sciatto, al confine col buonista e concettualmente (tematicamente) declamatorio.

Voto: *1/2

 

locandina

I'm Alex (2017): locandina

 

Partners: nella generale monotonia della seconda puntata dei Queer Short, un corto mediocre come Partners appare comunque come una boccata d’aria fresca. Logorroico, compulsivo e spiritoso, è il breve ritratto di una coppia di lesbiche che sembra quasi voler mostrarsi a se stessa (e a noi) come nevrotica e disfunzionale (sindrome di Woody Allen); però c’è puzza di indie furbetto. Ottimo montaggio.

Voto: **1/2

 

locandina

Partners (2015): locandina

 

Not K.O.: caspita, se l’incipit di Not K.O. promette bene! Immagini in digitale con voce fuori campo, e cenni sparsi di un rapporto amoroso, un’evanescente brevissima sequenza commovente. Ma è troppo bello per essere vero, e si torna subito al convenzionale, con sporadici picchi visivi (brevi carrellate, la luce del motore) ed evoluzioni caratteriali melodrammatiche che richiamano emozioni come insoddisfazione e superbia. Forse troppo serioso, pur non peccando di sincerità, Not K.O. è quasi troppo ingenuo.

Voto: **

 

locandina

Not K.O. (2016): locandina

 

Danny Wylde: un lampo di 3 minuti, fulminante ma insignificante, su una porno-star che sintetizza (a parole, gesti e situazioni) la degradazione del proprio corpo. Troppo breve e troppo allusivo, troppo poco shockante, inutile.

Voto: *1/2

 

scena

Danny Wylde (2015): scena

 

Alle 18,30 ci si lancia a capofitto verso la sala Wenders per partecipare alla proiezione di Ulrike’s Brain, di Bruce LaBruce, in presenza di Susanne Sachsse, tra i giurati di quest’anno. Il breve film di LaBruce supera il suo gemello (in età) The Misandrists perché prosegue con soluzioni almeno narrativamente innovative quello che è il cinema del regista canadese, declinando l’ossessione per l’anarchia rivoluzionaria in quella che sembra più che altro un’installazione da museo. Proseguendo con gli ibridi, questa volta anche fra le Arti, LaBruce immagina una sorta di doppio Frankenstein 2.0 in salsa neo-nazista per scandagliare da un lato le possibilità del digitale (portato anche qui alle estreme conseguenze, con una fotografia folgorante e folle, quanto di più simile alle parti “colorate” di Pierrot Lunaire), dall’altro la fisicità di un gesto filmico che il ripulito The Misandrists sembrava aver sacrificato per un’operazione anche troppo narrativa. Folle e fantasmagorico, Urlike’s Brain è un film deforme, sporco, degradato, al limite con l’improvvisazione (attoriale e registica), ma provocatorio alla maniera che desidereremmo più spesso al Cinema. Spassosa la Sachsse come sempre.

Voto: ***

 

locandina

Ulrike's Brain (2017): locandina

 

Dopodiché, è stata la volta di Sarah Winchester, opera fantome di Bertrand Bonello. Al momento qualsiasi cosa tocchi Bonello diventa oro: dopo Nocturama, Sarah Winchester è un altro film che vive di fantasmi. I suoi personaggi sono fantasmi, e l’entità “fantasma” è anche quella che sta al confine fra l’essere e il non essere, tra il vero e il falso, tra il naturalistico e il ricostruito. In uno scollamento dal proprio corpo, la ballerina di Sarah Winchester trasforma, col suo non-ballo, le quinte dell’Opèra Garnier nei luoghi raccontati dalla storia: e Reda Kateb è il Bonello traghettatore del Cinema verso un porto in cui non ci saranno più film di fantasmi, ma film-fantasmi.

Voto: ****

 

scena

Sarah Winchester, opéra fantôme (2016): scena

 

Per quanto riguarda Le concours di Claire Simon, capolavoro di wisemaniana sensibilità, rimando alla recensione scritta in quel di Venezia settembre scorso (qui).

Voto: ****

 

locandina

Le concours (2016): locandina

 

Ed eccoci giunti alla visione più inaspettata della giornata. Le Parc, in concorso, di Demian Manivel.

Le Parc è un film teorico. Come davanti a un gioco da tavola, il film ci dà all’inizio le sue istruzioni: cinepresa fissa, campi lunghi, figure intere in scena, movimenti ben precisi che determinano le coordinate spaziali del campo stesso, un’evoluzione climatica che rimanda al passare del tempo, l’acerbo flirt fra i due protagonisti come evento motore dell’azione. Le coordinate della “realtà filmica”, che simula la realtà vera, sono tutte disposte. I due ragazzi passano il pomeriggio insieme al parco. Poi lui se ne va, e lei rimane sola. Dopo uno scambio di sms, il film si trasforma in una silenziosa e notturna psicosi onirica, in cui tutte le coordinate descritte e dimostrate nella prima parte vengono a poco a poco smontate: il fuoricampo smette di essere una certezza, gli spazi si liquefanno immergendo le figure nel buio, il tempo smette di essere identificabile e misurabile, e le azioni dei personaggi perdono di senso. Eppure, in questa realtà trasfigurata, tutto sembra essere più spontaneo..

Le Parc, però, non è esente da difetti. Apparte il suono, poco articolato (anche se amatorialmente efficace), parliamo delle luci: quelle notturne sono assolutamente improbabili, e né l’atmosfera onirica né la luna piena possono essere una giustificazione. Probabilmente era l’unico modo per raccontare la storia in un luogo del tutto buio, ma in una tale scarnificazione della percezione filmica, quello della luce finisce per essere un problema grave.

Pregno di rimandi, e in grado di tenere incollato lo spettatore allo schermo con niente, Le Parc è un film scheletrico che si mette in discussione con una semplicità così esagerata da rasentare la sfacciataggine.

È un film teorico, bisogna stare a questo “gioco”. Dunque, per palati smaliziati.

Voto: ***1/2

 

locandina

The Park (2016): locandina

 

Day 9

È una frase minacciosa e inquietante quella che dà il titolo al film greco di Kourkouta e Giannari, cioè Spectres Are Haunting Europe, uno sguardo uggioso ed estremo sul confine greco-macedone all’inizio del 2016, quando vennero chiuse le frontiere e fu proibito agli emigranti del Medio Oriente di attraversare la Macedonia per raggiungere la Germania. Il film è un flusso di immagini sincopato e segmentato in svariati piani-sequenza, fondamentalmente fissi, che paiono prendere in prestito sia i ritmi visivi di Theo Anghelopoulos (ma qui siamo di fronte a un documentario e non a fiction) sia la poetica dello “sguardo in camera” dei doc di Loznitsa. In particolare il film è da confrontare opportunamente con Austerlitz, dello stesso regista bielorusso, e anche con Ta’ang di Wang Bing, per analogie di soggetto.

Ma da Anghelopoulos deriva anche l’idea delle due registe di trasporre al cinema una forte identità collettiva, che per il maestro greco era in qualche modo impersonata dal popolo greco stesso possibilmente in epoche passate, e che invece per Kourkouta e Giannari è quella dei popoli migranti, che riportano in Europa un concetto che abbiamo dimenticato: la politica. È dunque l’esodo il tratto in comune che il popolo dei migranti, per Kourkouta e Giannari, condivide con le radici di un popolo europeo, viziato nel presente dal benessere e dall’appiattimento occidentale.

L’intenzione della coppia di registe è quella di eseguire dei racconti per immagini in successione. In ogni immagine, come in Angelopoulos, si raccontano tante storie contemporaneamente, e lo spettatore decide su cosa posare lo sguardo. Importante a tal proposito è che il film venga visto al grande schermo, la qual cosa concede enorme spazio proprio alla scelta dello spettatore. E se non sono campi lunghi, sono campi medi ad altezza infante. Tutto un approccio estetico che è una vera rieducazione della percezione dello spettatore, in un’esperienza immersiva sempre più pregnante non appena la presunta fissità invincibile della videocamera comincia a venire spinta e smossa dalla folla, smascherata dagli sguardi in camera e sporcata dal fango che i profughi pestano con le loro scarpe rotte (troppo grandi o troppo piccole). Magniloquente e profondo, Spectres Are Haunting Europe è un eccezionale caso di film morale contemporaneo.

Voto: ***1/2

 

scena

Spectres Are Haunting Europe (2016): scena

 

Dopo Baby Back Costa Rica, che tra dialoghi deliranti ma divertenti e una parodia di Baywatch cerca di esplodere in un nonsense di 7 minuti che si fatica a chiamare pure esperienza cinematografica (voto: **), si giunge a Vivir Y Otras Ficcionas di Jo Sol, un titolo che è già tutto un programma. Infatti l’intento del film è programmatico, e in quanto programmatico comporta una delle scissioni più errate e pericolose al Cinema, quella fra forma e contenuto.

Il titolo richiama al fatto che gli attori protagonisti interpretano loro stessi, in una recita che riproduce in sintesi tutto ciò che loro realmente vivono. Si potrebbe forse parlare di post-documentarismo, a più piani di realtà. Eppure, come si diceva, il didascalismo programmatico del film depotenzia un argomento interessante quale quello del diritto all’assistenza sessuale per gli handicappati che non possono indursi godimento neanche da soli.

Si tratta di una indagine che mette sul tavolo un problema e non ambisce giustamente a risolverlo. Ma come il protagonista dice a chi lo critica che “non può capire perché non ha mai vissuto la situazione”, così noi non capiamo forse perché non entriamo mai dentro al film, scacciati fuori da un’estetica facilona e priva di progetto registico. Musica diegetica ed extra-diegetica da latte alle ginocchia, finale canterino che ambisce a commuovere, uso snodato di primi piani, regia mossa ma sempre molto concisa e semplicistica: qui manca l’esperienza cinematografica, indi il Cinema tout court.

Voto : **

 

locandina

Living and Other Fictions (2016): locandina

 

A questo punto si è entrati in Sala De Seta per partecipare alla premiazione dei film in concorso ad opera delle tre Giurie.

La Giuria Internazionale detenuta da Joao Pedro Rodrigues, in presenza di altri due dei quattro giurati (Susanne Sachsse e Arnold Pasquier, in assenza di Jean-Sèbastien Chauvin e Silvia Calderoni) ha premiato nelle Nuove Visioni Bruder der Nacht di Patric Chiha, «per la forza della messinscena e l’accuratezza del taglio proposto, che ha offerto un misto perfetto di finzione e realtà portando lo spettatore alla ricerca della verità».

Nella categoria Queer Short è stato premiato If I Met a Magician di Shaked Goren «per il suo modo di sviluppare una critica politica raffinata e ricca di allusioni delicate grazie al sapiente utilizzo del fuori-campo e del suono». Menzione speciale per lo spiritoso Division Movement to Vungtau di Benjamin Crotty.

 

La Giuria dei 100 Autori ha premiato 1992 di Anthony Doncque per la sua sperimentazione (sic!) fra realtà e finzione.

 

La Giuria del Coordinamento Palermo Pride ha premiato Secret Santa Sex Party di Lum e Verow, con menzione speciale per Les Iles di Yann Gonzales.

 

Il pubblico ha premiato Los objectos amorosos di Adrian Silvestre e Szep Alak di Hajni Kis.

 

Io personalmente avrei premiato Jours de France con menzione speciale per The Beach House, e come corto avrei premiato Les Iles con menzione speciale a Division Movement to Vungtau. E se ci fosse stata un premio per la migliore regia, avrei azzardato Damien Manivel per Le parc.

 

Subito dopo i ringraziamenti e i saluti, l’ultima parte dell’esilarante trailer del festival di Franco Maresco sui fratelli La Vecchia e l’attesissimo Antiporno. Trattasi di tripudio delirante di colori accessi e vividi, che immergono letteralmente lo spettatore nel labirinto emotivo-estetico - sulla carta anche un po’ lynchano - della protagonista Kyoko, che si ritrova a rielaborare i traumi della scoperta precoce della sessualità e dell’educazione genitoriale assurdamente casta e buonista. Intrappolata in un incrocio ripetuto di realtà differenti, da un lato la sua psiche, dall’altro il film per cui recita, Kyoko cerca lungo tutto il film di autodistruggere quella parte di sé che ancora la rende donna e di trasformarsi definitivamente in una puttana, forse per svendere definitivamente il proprio corpo all’altare di un’Arte parassita che sfrutta il rigetto di lei nei confronti del sesso e ne fa grottesca materia speculativa. Ossessionata alla fine dall’immagine di sé in un mondo di icone e riferimenti plastificati, semplici e iconici (subliminali), Kyoko dovrà accettare il suo posto sulla tavolozza di Sion Sono, facendosi piovere addosso in una burtoniana Ice Dance il colore e i pigmenti, per asciugarsi e fissarsi definitivamente sulla parassitaria superficie della pellicola. Un film vampiro che arriva tardi nella filmografia di Sono per risultare innovativo, ma che offre un viaggio spassoso in ossessioni e parossismi.

Il Cinema di Sion Sono continua ad essere Cinema del subliminale.

Voto: ***1/2

 

locandina

AntiPorno (2016): locandina

 

Si chiude col porno, perché il porno è politica. Queen Kong è un cortometraggio hardcore che racconta di uomo, troppo ubriaco per portare a termine una sveltina nel bosco con un’altra invitata alla festa da cui lui si è per un po’ defilato, e che finisce nelle mani di un mostro un po’ borowczykiano che praticamente lo costringe a un rapporto sessuale completo fino all’alba del giorno dopo. Il mostro è Valentina Nappi, e credo che questo la dica lunga su quanto si vede, e quanto è esplicito nel film.

La programmaticità dell’opera è avvalorata dalla linguaccia finale della donna verso gli spettatori: attraverso la provocazione di un porno girato con i mezzi di un cortometraggio cinematografico di alto livello, Queen Kong mira a destabilizzare uno spettatore che non sa mai cosa aspettarsi. E certamente per il medio consumatore di video pornografici non è tutto rose e fiori, perché il film riesce a richiamare nello spettatore da una parte il desiderio voyeur e dall’altra il rigetto nei confronti della mostruosità.

Voto: **

 

locandina

Queen Kong (2016): locandina

 

E' finito anche quest'anno il Sicilia Queer. E' stata un'esperienza fantastica, ogni anno sempre più gustosa e appetitosa per i non pochi palati cinefili che si aggirano raminghi per una città siciliana che invero offre sempre di più, alla ricerca di prede cinematografiche. Un festival da difendere, che è cresciuto e crescerà ancora, grazie agli sforzi e ai sacrifici di chi ci crede davvero. E a tutte queste persone va il mio ringraziamento.

 

Per vedere le altre giornate

Day 1 - Recensione di Little Men

Day 2 e 3 

Day 4 e 5 

Day 6 e 7

 

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