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Anna e Sophia. Dialogo sulla bellezza
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Il cinema è un bellissimo gioco di ruolo. Ed un settario affastellarsi di ruoli. Le maschere, i prototipi: il bello e maledetto, il bello e tormentato, il supereroe, il cattivo, il buono, l’intellettuale morso dalle domande ed assediato dalle risposte che non arrivano. Forse, ed ingiustamente, un po’ più limitato lo spettro caratteriale, fisico e psicologico del microcosmo delle attrici, laddove la selezione e la differenziazione paga spesso dazio agli atout fisici: le bellone, le bruttine (stagionate o non), le romantiche filiformi, le tornite virago. Categoria in realtà liquida, quella della bellezza. Al di là del detto semplicistico, secondo cui bello è ciò che piace (e nella variante grossolanamente intellettuale per la quale la bellezza è negli occhi di chi guarda), a volte fa il suo ingresso teatralmente pomposo il mostro a più teste del fascino. Che si nutre di parole, scarti della volontà, dedizione, passione, integrità morale (chi mai potrà revocare in dubbio la bellezza latamente intesa - e intensa - di una Anna Magnani, donna non da copertina, figlia delle borgate, eroina capace di innamorare con trasporto e di trascinare lungo il crinale della coerenza dolente?). E, a controbilanciare, gli esempi dell’imbruttimento indotto dalle superiori ragioni del copione (Charlize Theron, monster fisico e nell’animo, ovvero la sciatta Sophia Loren della giornata particolare di Scola, bella di quella bellezza che ancora alberga nella capacità di immaginare, nella rincorsa ad una vita diversa, nell’abbandono alla parentesi di romanticismo poco mediato). Ecco, Sophia: prodotto da esportazione, l’Italia e le curve dolomitiche del fascino muliebre, ma soprattutto i lapilli vesuviani della eruzione passionale. Dici Loren e pensi alla bellezza. E se Sophia si incontrasse con una rappresentante della categoria antipodica, la bruttina simpatica e un po’ acidula, il totem della sceneggiatura ordinata e compita, incapace di elevarsi al frullato di ruoli, stretta nella oggettività dello sguardo che resta in superficie?

 

SOPHIA LOREN. Ciao, Anna.

ANNA MAZZAMAURO. Ciao, bella. Mi reciti un sonetto del Petrarca?

S.L. Eh, il Canzoniere è roba ardua. Io sono una figlia del popolo, come sai. Ho amato la poesia solo in seguito, quando il successo imponeva i ruoli, suggeriva di lustrare l’immagine complessiva. Carletto mio ne aveva un’edizione di qualche secolo fa. Lo leggevamo insieme, a letto, invece della televisione, con uno sguardo alla musica della pagina, l’altro all’Oscar sulla mensola. Ma perché mi chiedi questo?

A.M. Perché tu sei la bellezza. Benigni legge Dante, ma resta un contadino dell’aretino, pur intellettualmente evoluto. Sophia che legge Francesco P. è la quintessenza dell’idealità, la vittoria della bellezza proteiforme, la strizzatina d’occhio alla spiritualità, il volteggiare lieve di una bomba sexy alla ricerca dell’etere.

S.L. Ma che, mi prendi in giro?

A.M. Come potrei? Io ti ho sempre invidiata, pur con la bonaria noncuranza della mia romanità salace. Ho combattuto una vita per avvicinarmi ai pensieri degli uomini. E non che mi siano mancati: li ho stroncati con i lazzi, li ho avvolti nel sudario della (presunta) intelligenza, li ho cucinati in salsa di aforisma. E tuttavia ho sempre desiderato che mi guardassero come hanno sempre guardato te: senza retropensieri, ma con uno di intensa fissità. Quando gli uomini ti guardano così, è tutto chiaro, tutto può essere molto semplice. Sta solo a te la scelta: non c’è guerra di posizione, battaglia con le tue “simili”, tutto si riduce ad un sì o un no. Sudore risparmiato per occasioni migliori, vita che si fa vellutata, pensieri ed inganni della mente ridotti all’osso.

S.L. E’ tutto cinema, Anna mia. Anche la vita.

A.M. Non so, dici? Anche io ho la chioma fulva come la tua. Pensi non ci siano differenze?

S.L. Il cinema inganna e rimanda di te un’immagine che ti perseguiterà a lungo anche nella vita. Cosa ne sanno gli altri di quello che penso, della mia interiorità, delle curiosità e delle malinconie, se tutto ciò che fanno loro vedere è un seno appena rivelato dalla inquadratuta falsamente anonima? Gli occhi che si aprono al sorriso? La fisicità tout court?

A.M. Questo è vero, ma vale solo per te. Di me il cinema ha rimandato agli altri una immagine di simpatia ed agile intelligenza. Ma il pubblico non poteva sapere nulla della bellezza nascosta nelle mie facce e nelle mie interiezioni. Perché quella bellezza, io lo so ed ormai l’ho accettato serenamente, non è mai esistita.

S.L. Secondo te è perché io mi sono innamorata di Carletto Ponti?

A.M. Dimmi tutto.

S.L. Una sfida. Il recuperare a me stessa la chimera della normalità. Applicare senza indugi la teoria degli opposti che si attraggono, il dimenticare i sogni fatui e futili del ciak. La bellezza malinconica del mio partner d’elezione Marcello, gli sguardi unidirezionali di cui dicevi prima: troppo facile cedere ad essi, vivere su un perenne tappeto rosso, sventolare il proprio compagno da copertina, accucciarsi lungo le rotative di un giornale di gossip. Carletto era il fascino pensoso della medietà anonima. Il sogno di noi attori, direi.

A.M. Sophia, nun me cojonà! Carletto non era un impiegato del Catasto.

S.L. Infatti. Molti impiegati del Catasto erano più belli e più alti.

A.M. Vabbè. Me so’ fatta cojonà.

S.L. Sai cosa penso, Anna?

A.M. Dimme.

S.L. (Ue’, basta col romanesco. Sennò ti intontisco con una santabarbara di vocaboli flegrei). Dicevo: penso che tu, al cinema, hai incarnato la vera passione ed ossessione d’amore.

A.M. ………

S.L. L’amore incondizionato, la passione devastante del Rag. Ugo Fantozzi per la sfuggente signorina Silvani! Un sentimento che ha attraversato decenni di cinema, chilometri di celluloide, ogni volta frustrato e sempre rinascente impettito come Araba Fenice. Se noti bene, tutti i miei partners al cinema non hanno mai avuto una tale costanza, soprattutto non sono stati i protagonisti di una così intensa e lunga saga del sentimento irredimibile.

A.M. Ma quella è satira ed ironia. Un amore parodico.

S.L. L’amore al cinema non è mai parodia. E’ contenitore di emozioni, anche quando contaminato dalla comicità slapstick. E’ ciò che gli spettatori vogliono: identificarsi in quella scatola di sogni facili e duri a morire. Fantozzi era un prototipo: dell’amore respinto e della costanza. Avercene, di uomini così!

A.M. E questo, secondo te, mi fa bella?

S.L. Ti fa donna. Delle più fortunate.

A.M. A Sophi’! Mi sa che sei una bella persona.

S.L. Non solo una bella donna?

A.M. Non solo. Nonostante Carletto.

S.L. Mo’ che c’entra Carletto?

A.M. E niente, va. Carletto è il tuo Fantozzi, no?

 

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