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Il ritorno della fisiognomica. Affleck e (imperturbabilmente) gli altri
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Leggo dentro i tuoi occhi da quante volte vivi dal taglio della bocca se sei disposto all'odio o all'indulgenza nel tratto del tuo naso se sei orgoglioso fiero oppure vile.

 

Così Franco Battiato in Fisiognomica, laddove per fisiognomica intendiamo, detto un po’ grossolanamente, uno studio dei caratteri condotto attraverso l’analisi dei tratti somatici. L’Oscar a Casey Affleck quale miglior attore protagonista ha riportato in auge questa disciplina latamente filosofica cui anche Lombroso prestò attenzione, nel tentativo di dedurre, dalle espressioni e dalle caratteristiche del volto, una particolare capacità delinquenziale dell’uomo. Disciplina demodé, superata da nuove interazioni analitiche, eppure non priva di un suo fascino primigenio e selvaggio. Nel cinema, e nelle sue peculiarità cinetiche, di indefesso movimento (anche un’espressione, sul grande schermo, deve comunicare attraverso un movimento, essendo difficile far passare un’emozione mediante l’imperturbabilità) quello che definiremmo come il caso Affleck ha portato allo smantellamento del luogo comune testé esposto. La fissità del volto, il rigor quasi mortuario dell’espressione, l’assenza di battiti di ciglia in funzione espressionistica, possono e sanno, quando incanalati lungo una capacità di racconto e di scrittura, farsi veicolo e volano di sentimenti e turbinii emozionali. E, a ben guardare, Affleck non è stato il solo.

 

Recitazione catatonica: questo balza agli occhi nell’osservare le lente, immodificabili peregrinazioni intellettuali e fisiche del Lee di Manchester by the sea. Un tipo di interpretazione tutta in sottrazione, che può lasciare sgomenti ove non si colga l’evidente e necessario lavorio di programmazione preliminare. Accantonando le facili e un po’ sterili polemiche circa la giustezza della attribuzione del massimo premio hollywoodiano ad un personaggio così monoliticamente unidimensionale, bisogna ravvisare in Affleck (e, ovviamente, nel suo personaggio), l’indubbio pregio di ispirare riflessioni, le più varie (fin dove il senso, il sentimento della responsabilità può agire in funzione di prosciugamento dell’empatia? Quale valore poter e dover dare ad una elaborazione del lutto che si autoalimenta di fissità ed inazione, salvo liberarsi in improvvise fiammate di aggressività che sono, con tutta evidenza, la risposta dell’io ferito alla non evadibilità di mille e più domande?). Notazione personale: la iterazione del volto dell’attore in fermo immagine mi ha lasciato sostanzialmente indifferente (tralasciando alcune probabili pecche del film e della sua sceneggiatura, tra ralenty in funzione icastica e solito uso furbetto della musica classica – anche basta con Albinoni, direi - ). Ciò non toglie che, di fronte al responso dei selezionatori da Oscar, occorra in parte sospendere il giudizio ovvero volgerlo alla onesta ed obiettiva valutazione degli elementi di novità di cui si diceva: un attore che, nei fatti, non recita affascina il pubblico, lo conduce lungo il non sempre agevole sentiero della empatia e simpatia emozionale, lo coinvolge, fino anche a commuoverlo. Da oggi in poi, passate l’esagerazione sotto forma di boutade, tutti al mattino, guardandoci allo specchio, con occhi gonfi di un sonno che non si rassegna alla luce, potremmo sentirci un po’ Affleck. Imperturbabilmente pronti alla giornata ed alle sue battaglie.

 

 

C’era un signore che Sergio Leone scoprì e lanciò. Un signore americano dagli occhi chiari, un giovane di aspetto prestante ed espressione un po’ così. Anzi, secondo la vulgata resa famosa dal passaparola di anni ed anni, con due sole espressioni: con il cappello e senza. Quel signore è diventato, nella maturità, uno tra i registi/attori americani di maggior coerenza, capace, senza alcun volo pindarico di lineamenti e/o ammiccamenti, nell’impresa di appassionare e commuovere, ancora e sempre con una certa secchezza (che è poi anche onestà di fondo) di messa in scena. Ora, se nei western leoniani (e leonini per grandezza di tematiche squadernate) un colpo di pistola assestato al momento giusto, un polveroso duello nel caldo sole del vecchio West potevano decisamente sostituire senza danno alcuno la varietà delle espressioni (di tanto in tanto come ibernate in primi piani di sospensione in cui, ebbene sì, spiccava e restava impresso soltanto lo sguardo di ghiaccio di Clint nostro), nelle successive prove del maturo attore il dramma del plot si faceva più variegato ed avrebbe, dunque, avuto bisogno di una rispolverata al caleidoscopio dei tic e delle giravolte facciali. Niente di tutto questo: film quali Mystic River¸ Gran Torino, Million Dollar Baby, hanno scene madri magnificamente trattenute, recitate da attori che lasciano in disparte ogni esagitazione ed evocano piuttosto la forza esplosiva e vulcanica di un sentimento che cova sotto una cenere di anni e disperazione (lo stesso, solitamente icastico ed aggressivo Sean Penn riesce a trattenersi, molto a stento ma ce la fa, mentre Eastwood ha ancora quegli occhi di ghiaccio, quell’espressione un po’ così appena resa più rotonda dagli anni ma sempre, invariabilmente, aliena da ogni esagerata evoluzione). Film enormi, di fredda ed inevitabile comunicatività. Capolavori senza tempo, forse proprio per questa capacità, che ha molto di soprannaturale, di toccare le corde giuste senza mai scadere nell’urlo, nella esposizione aggressiva della pregiatissima mercanzia filmica.

 

 

Un caso è da ritenersi anche Winding Refn ed il suo angelico/diabolico ispiratore Ryan Gosling. In Drive c’è follia metropolitana ed urbana, ci sono fiumi di sangue che scorrono senza alcun timore di generare incredulità, ci sono morti ammazzati ed improvvisi rinculi verso una apparente pax soleggiata di qualche altrove delle lande americane. Eppure Gosling pare un nipotino di Clint: due espressioni, con stecchino e senza. Quando uccide, a mani nude e non, lo fa senza un’apparente partecipazione alle sue azioni: il volto è quello, carino e levigato, freddo ed impassibile. La morte pare in quegli occhi una mera variabile, un piccolo incidente di percorso, un modesto ostacolo da scavallare per continuare nella normalità di una vita senza picchi. Anche l’amore, purtroppo: scordatevi la prossemica dei fidanzatini di Peynet o parole alla Prevert. Il sentimento in Refn/Gosling è qualcosa che accade come una velina di notiziario: un piccolo scarto dell’emozione di cui prendere atto con la consueta onestà intellettuale sublimata nella assenza di espressione (ovvero nell’unica espressione possibile: quella, appunto, della sgomenta, e sgomentata, presa d’atto delle cose).

 

 

E poi si finisce sempre con il parlare di Sorrentino & Servillo. Inevitabile, quando si consideri che l’autore e l’attore hanno creato una nuova tipologia di soggetti/personaggi: quelli che potremmo definire rappresentativi della psicopatologia della noia, della invariabilità dell’espressione di fronte alla vita (ciò che accade pare sempre un punto più in là del cosciente, o almeno della cosciente partecipazione). Eccezion fatta per il Toni Pisapia de L’uomo in più (furente, caotico, dall’apparato fisiognomico in costante ed ansiosa evoluzione, eppure anche capace di improvvisi ed imprevisti squarci di fissità dello sguardo – pensiamo al Mi sono svegliato tardi che è atto di resa, nonché attonita presa di coscienza della necessità di fermare vita ed occhio di fronte al ritmo di una realtà che si è fatta insostenibile-), tutti gli altri personaggi della coppia sono diversamente fermi. Il divino Giulio Andreotti, mefistofelicamente inattaccabile in quell’angolo di visuale capace di abbracciare tutto: stragi e misteri, politica e bassezze umane, furbizia e consapevolezza che tutti siamo esseri in via di scadenza. Il fu Jep Gambardella, che ondeggia sardonico tra un sorriso sarcastico ed una malinconia lancinante che lo blocca lungo la strada di un inesprimibile ed inestricabile assoluto (meglio: volontà, sogno di) e che, comunque, ha la classica espressione di chi ha già saputo tutto, ha fatto tutto, e non gli resta che l’inflessibilità dello sguardo. Soprattutto il misterioso (ma non per se stesso, o forse sì) Titta Di Girolamo. Anche qui un campionario di espressioni ridotto all’osso, al minimo sindacale dell’empatia. Di fronte alle altrui angherie, di fronte agli altrui sguardi innamorati che non si è più in grado di riconoscere ed assimilare, di fronte persino alla esplosione dell’amore all’interno di una corazza di finta invulnerabilità. La telecamera di Sorrentino registra forse soltanto un impercettibile movimento di quei muscoli facciali così contriti e tristi. Accade nel prefinale, poco prima che il cemento arrivi ad inghiottire quel che resta di un uomo già finito: gli angoli della bocca che si piegano lateralmente, ad esprimere schifo, paura e rassegnazione; in ogni caso ad aprire il vaso di Pandora dei brevi e scarsi ricordi felici, quelli affrontati con l’espressione degli ultimi: l’espressione di una degnazione che è distacco sofferente e partecipe tentativo di indifferenza. Espressione che, sì, non agita, non scuote, sembra non far male allo spettatore. Eppure, ed è vero, emoziona e commuove.

 

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