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LA SCIMMIA NUDA BALLA: prima fenomenologia di Francesco Gabbani.
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Francesco Gabbani cita Desmond Morris e vince meritatamente il 67° Festival di Sanremo. Come ha fatto a vincere? E perché meritatamente? Ecco una piccola fenomenologia del cantautore carrarese: Gabbani è simpatico, divertente, disponibile, spassoso, genuino, naïf, alla mano; è un musicista competente (è polistrumentista), un ottimo performer dalle movenze suadenti, fluide, buffe e coinvolgenti; baffo guascone e sorriso piacione, ha una bellissima voce ruvida e scabrosa, in netto contrasto con le voci bianche e pulite tipiche dei concorrenti da talent per un pubblico domestico – Gabbani è piuttosto da garage, da sottoscala, da osteria, da taverna fumosa e da strimpellata sulla spiaggia. Inoltre, e per l’appunto, Gabbani non viene da nessun talent show; canta, suona e scrive fin da ragazzino tant’è che a diciotto anni i Planet Funk producono il primo album della sua band, i Trikobalto, tra rock alterativo, indie pop ed elettronica, e tra il 2006 e il 2010 arrivano alcuni singoli e un EP di ottima fattura, tra cui la potente cover di Sarà perché ti amo (2009) e Preghiera maledetta (2009), forse il pezzo più conosciuto della band. Band che ha l’onore di aprire i concerti degli Oasis a Milano e degli Stereophonics a Parigi.

Dopo il 2010 Gabbani intraprende la carriera solista, ma a parte alcuni singoli che ne rappresentano bene l’universo musicale, Estate e L’amore fa male (2011), il primo album vede la luce solo qualche anno dopo. Greitist Iz (2014) rifugge dalle suggestioni musicali dei Trikobalto, si fa più pop e in alcuni brani più melodico e main-stream. Al netto di alcune infelici intrusioni teen punk – come il ritornello infantile di Clandestino e I dischi non si suonano [di cui le strofe sono il pezzo forte di  entrambe le canzoni] – tutti i brani hanno quel mood contagioso e fresco che, aiutati dalla performance verace di Gabbani sono emblematici della sua verve musicale, del suo stile energico e della sua vena positiva e ottimista. Brani indie pop e dalle sonorità folk su cui svettano Un sole, Isabel, Tarantola e Sto dicendo ciao. Meno radicale di Capossela, Mannarino e Vas De Sfroos, più pop ma sempre efficace, originale e personale.

Nel frattempo piovono cover come Svalutation di Celentano (2012), Vengo anch’io di Jannacci (2013) e la già citata hit dei Ricchi & Poveri – e dal vivo, animale da palco quale deve essere, canta anche Nada in versione reggaeggiante (Ma che freddo fa, 2016) e il sempreverde Battisti (Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi, 2016); musica il brano Toy Boy di Raffaella Carrà (Replay, 2013) e infine arriva il successo rocambolesco di Sanremo 2016 dove con Amen vince la sezione Nuove Proposte, il Premio della Critica Mia Martini e il Premio Emanuele Luzzati. L’album che ne segue, Eternamente ora (2016) si butta totalmente sull’elettronica con quel tocco di maturità e sicurezza in più che lo portano a sfornare un elettropop adulto e consapevole; un pop indipendente, autoriale e musicalmente personale, con un mood coinvolgente ed evocativo. Alcune sonorità mi ricordano anche il pop punk dei Prozac+ (Acido Acida, 1998) e il rock alternativo dei primi Mistonocivo (Mistonocivo, 1996; Virus, 2000), ma meno cupo e più positivo – le mie sono comunque sensazioni, risvegli di suoni ed emozioni passati, non necessariamente un accostamento di generi e stili.

Brani come Per una vita, In equilibrio, Prevedibili, La strada e Amen godono di una seduzione elettronica ammaliante, tra il nostalgico e il vivifico, il cui capolavoro è Il vento si alzerà, con un sound liquido e malinconico che mi ha ricordato felicemente Fumodenso degli Otto Ohm, storie di adolescenza estiva datate 2003. Conferma della straordinaria poliedricità di Gabbani come autore e musicista, capace di plasmare suoni e architetture sì originali, ma di chiara, riconoscibile e felice appartenenza artistica.

E poi arriva Sanremo 2017. Anticipato dalla colonna sonora di Poveri, ma ricchi (Fausto Brizzi, 2016), dalla collaborazione con Francesco Renga (L’amore sa, 2016) e soprattutto da quella con Adriano Celentano, per il quale ha scritto, almeno secondo me, la canzone più bella dell’album Le migliori (2016), ovvero Il bambino col fucile – tra l’altro una delle migliori in assoluto del molleggiato [immagino e spero che Gabbani ormai appartenga al Clan] – Sanremo arriva come un tornado: il colpo di fulmine con la sua esibizione, la cover Susanna sempre di Celentano, Occidentali’s Karma, il gorilla, il tormentone, il balletto, il Premio TimMusic e il primo posto assoluto in classifica generale.

Occidentali’s Karma è proprio come il suo autore: ironica, divertente, solare, travolgente, spassosa, naïf, inoltre è ben congeniata e ben modulata, con un testo che, attraverso l’accumulo culto-pop, non si limita a fotografare superficialmente la situazione socio-comunicativa del presente, anzi, proprio la leggerezza del testo e l’ironia di fondo ridicolizzano col sorriso gli internauti oltranzisti, i tuttologi del web, i santoni hipster e la webgeneration. Attacca con Shakespeare, cita Eraclito, Marx e Desmond Morris per poi accozzare tra loro cultura orientale – karma, nirvana, mantra, namasté [opposto al più rustico “alé” nostrano] – e cultura occidentale, capitalista e ipermoderna – selfie, web, sex appeal, Chanel, coca [opposta al più orientaleggiante “oppio”] in un turbinio giocoso in cui la forza dirompente della musica si sposa perfettamente all’importanza estetica di un testo colto e per nulla di facile lettura, se non la prima – e non va dimenticato l’apporto del paroliere amico Fabio Ilacqua, cresciuto musicalmente con Guccini, De André, Fossati, Conte, Bertoli e che non smette ancora di leggere Pasolini.

Una canzone che rispecchia il corpus più stralunato di Gabbani, per il quale si è scomodato pure il nome di Battiato – per i giochi di parole, le rime e gli accostamenti tra colto e popolare – nonostante il grosso della sua produzione goda di una intesa vivacità di genere, con una ruvida e giocosa anima rock, così rustica e piaciona per la quale scomoderei il nome di Fred Buscaglione; un’anima rock solida dall’arrangiamento elettronico che ricorda l’ultimo Jovanotti, o il Celentano degli anni ’80; per non dimenticare le tematiche e la loro articolazione testuale che può richiamare anche l’idea autoriale di Jannacci e il fraseggio di Rino Gaetano – la combinazione delle parole e delle immagini, la vivida espressione del congegno sintattico.

Come sono arrivato a Gabbani? Grazie a Celentano. Sono celentaniano fin da ragazzino e non sapevo che Gabbani avesse vinto le Nuove Proposte nel 2016. L’ho conosciuto indagando su chi fosse l’autore di quella canzone che non smettevo di ascoltare – Il bambino col fucile – e ho scoperto così il Gabbani uomo: simpatico, ammiccante, gradevole, ruspante e gigione. Solo in un secondo momento, dopo aver saputo della sua partecipazione a Sanremo 2017, ho deciso di aspettare con curiosità la sua esibizione. Non ho nemmeno guardato la serata di martedì, sono saltato subito a mercoledì per curiosità, ma si è poi trasformato tutto in entusiasmo e ho smesso di guardare il Festival solo dopo la chiusura del Dopo Festival di domenica notte – sapevo che avrebbe vinto lui e lo ripetevo ad ogni ora sui social, ben prima del verdetto della giuria.

Ho recuperato in un pomeriggio i suoi lavori precedenti da cui ho tratto queste prime impressioni, ma già so che con il tempo le sue canzoni mi piaceranno sempre di più, anche se a dirla tutta l’elettropop non è il mio genere di base, per me che vengo da Joe Cocker, Rolling Stones, Marley, Zucchero e ovviamente Celentano, Jannacci, Pravo, Pelù, etc… Ma è anche vero che ci sono cresciuto - gli anni '80 dei Righeira e la dance dei '90; ed è anche vero che tra Leonard Cohen, David Bowie e i The Music, l’elettronica d’autore, il rock alternativo e il folk tipico di alcuni artisti italiani, come per esempio i Nomadi, hanno sempre fatto capolino nelle mie corde rock’n blues rientrando con naturalezza nel mio DNA musicale proprio grazie all'evocazione suggestiva che l'elettronica sa dare – per non dire di Runaway Train di Joe Cocker (Hard Knocks, 2010), elettrorock da urlo, uno dei miei must definitivi dell'eroe di Woodstock.

Ma qual è il segreto di Francesco Gabbani? Sicuramente il motivo principale che ha portato Occidentali’s Karma a prendere il comando del nostro corpo e del nostro umore fin dal primo sconvolgente ascolto è la modulazione tematica della stessa canzone. Non è la solita canzonetta in crescendo, bensì un brano già “cresciuto”. Quando arriviamo alla strofa «AAA Cercasi (cerca sì)/Storie dal gran finale/Sperasi (spera sì) […]» siamo indotti al ballo credendo che questo sia già il ritornello, il punto più alto e allegro e ballabile della canzone. Poco più avanti però, veniamo sorpresi da un’evoluzione ritmica maggiore, superiore in tono e brio, che è poi il vero ritornello, il vero must della canzone, il sortilegio che ci fa perdere il controllo del nostro corpo e del nostro pudore: «Lezioni di Nirvana/C’è il Buddha in fila indiana/Per tutti un’ora d’aria/Di Gloria (alé!) […]. Come se non bastasse, a questa apoteosi segue il dettaglio impensabile che ha fatto scoccare l’amore senza riserve: quell’alé che coinvolge l‘orchestra con tanto di violinisti che alzano in aria l’archetto. Segnale, questo, del grande coinvolgimento dei maestri musicisti nei confronti di Gabbani, rispettato e apprezzato proprio per la il suo background musicale e la sua simpatia genuina e impetuosa.

Oltre però all’indiscutibile competenza musicale e alla verve comunicativa e molto coraggiosa, un po’ folle se vogliamo, che l’autore ha sfoggiato con naturalezza lungo l’arco della settimana sanremese, a far la differenza è stata la scimmia.

Non è un caso infatti che Gabbani citi Desmond Morris e La scimmia nuda (The Naked Ape, 1974). Da sempre i primati sono il nostro specchio primitivo e inquietante. Ben lo sanno la letteratura e il cinema che hanno a più riprese utilizzato l’immagine belluina per parlare dell’uomo. In questo è soprattutto la settima arte ci viene incontro proponendo fin dagli albori del cinema la pietra angolare del tema scimmiesco, ovvero King Kong (1933). Come già magistralmente spiegato sia da Alberto Abruzzese (La grande scimmia, Napoleone, 1979[Luca Sossella Editore, 2007]) che da Roberto Chiesi (King Kong, Gremese Editore, 2005), la scimmia è il primo referente animale con cui l’uomo cerca di spiegare se stesso e di indagare la propria esistenza ribaltando il canonico punto di vista e quindi rappresentando «una zona ambigua tra l’uomo e i suoi contrari (Abruzzese, 2007: p. 97)». Ancora, e sempre con le parole di Abruzzese: «La scimmia è comunque all’origine del fuoco, è il fallo maschile, è un cibo rituale. Per la civiltà la scimmia è esotismo e progresso insieme; regressione e liberazione; origine e alimento (p. 97)».

La scimmia, lo scimmione, il gorilla o comunque il mostro belluino hanno da sempre risvegliato quell’attrazione/repulsione per il selvatico che tanto banco tiene nelle lettere e nelle filosofie di tutte le epoche, compresa la nostra, liquida e ipermoderna. Fin dalla letteratura – Abruzzese cita Le mille e una notte, i Fratelli Grimm e l’intrusione dello scimmiesco «tra le “spie” del lessico, della aggettivazione, delle similitudini (p. 100)» in I misteri di Parigi (Eugène Sue, 1842) o La donna eterna (H. Rider Haggard, 1886) – io aggiungerei anche I delitti della Rue Mourge (Edgar Allan Poe, 1841) o il più recente Il vangelo della scimmia (Christopher Wilson, 1986) – l’immagine grottesca e anche ridicola della scimmia ha stimolato l’uomo affinché l’adottasse come simbolo di un qualcosa di se stesso che ancora non conosce o che forse inconsciamente sa di aver abbandonato e di cui soffre la privazione.

Film come la serie di King Kong – dal prototipo di Cooper e Schoedsack del 1933 fino al recente Kong: Skull Island (2017) – passando per gli apocrifi come The Mighty Gorga (1969) o Queen Kong (1976) – riciclano il mito del mostro gigantesco, simbolo di una ancestralità primigenia imprigionabile quanto tragica, mentre altre produzioni si buttano decisamente sullo scimmiesco realistico introducendo il tema della bestia all’interno dello spazio/morale borghese. Da Gorilla at Large (1953) in avanti, tra cui Konga (1961) e Schlock (1973), i gorilla rappresentano l’eros primitivo e incontrollabile, animalesco e bestiale, insaziabile quanto laido che viene a destabilizzare la quiete domestica. Capolavoro e manifesto dell’erotizzazione della bestia è appunto La bestia di Walerian Borowczyk (1975) – cui rimando a una mia lettura del film a questo link //www.filmtv.it/film/27746/la-bestia/recensioni/741758 .

Oltre ad essere veicolo di un istinto sessuale animalesco, motivo per cui ha così successo nelle arti, la scimmia è anche simbolo di detronizzazione dell’uomo, retrocessione della ratio ad uno stadio ferino, quasi malefico. Pensiamo anche ai film horror che utilizzano scimmie apparentemente innocue per renderle poi simulacri diabolici in linea con la concezione demonizzante che la chiesa ha fatto del corpo scimmiesco. In film come Le sabbie del Kalahari (1965), Link (1986), Monkey Shines (1988), Shakma (1990), Congo (1995) e Blood Monkey (2007) la scimmia è agente di terrore, furia primitiva e selvatica che si sfoga sui suoi discendenti; mentre nelle trasposizioni cinematografiche del classico stevensoniano de Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr Hyde (1886) e nei film affini, ma anche nella serie fantascientifica de Il pianeta de delle scimmie (1963), lo scimmiesco non si estranea dal corpo umano, ma lo sostituisce, lo rimpiazza, lo modifica, dotandolo di una forma più vincolata alla realtà sensibile senza però scalfire i suoi significati più reconditi come bestialità, sessualità animalesca, corporeità, origini e trascendenze dell’umano.

Tutto questo, con le dovute proporzioni e limitatamente all’aspetto carnevalesco della figura della scimmia, succede anche a Francesco Gabbani, a cui basta solo un rigo, “la scimmia nuda balla”, per catalizzare intorno all’immagine dello scimmiesco tutta la sua canzone e l’attenzione del publico. Gabbani infatti non si limita a citare la scimmia nella canzone, elevandola a significante inconscio, ma ne utilizza proprio l’immagine per rendere il processo di significazione ancora più incisivo e concreto, come ben spiegano le parole di Chiesi: «Un personaggio assume il carisma e i crismi di un mito quando la fisionomia, che ne definisce l’identità, è immediatamente individuabile in connotati sommari ed eminenti, che eccedono la norma e mantengono un ampio margine di indecifrabilità. La sua fisionomia e il carattere della sua personalità, proprio per i loro tratti essenziali, devono diventare potentemente evocativi di altro – enigmi, situazioni, storie e immagini – che nulla chiarisce e scioglie completamente (2005: p. 95)». Queste parole, anche abbastanza forzate se strettamente collegate con la performance del cantautore carrarese, servono comunque a spiegare in buona parte il successo istintivo dell’esibizione di Gabbani.

Così, nel modo in cui Gabbani manifesta la propria realtà autoriale, caratterizzata da una vivace autoironia e da un utilizzo fisico e viscerale del proprio corpo, al cantante, si sostituisce il corpo scimmiesco, ridicolizzato da un costume posticcio, da movenze innaturali e per l’appunto “scimmiottate”, fino alla carnevalizzazione delle rappresentazioni successive alla prima esibizione, tra cui la “sostituzione” al corpo cantante. Gabbani, anche se solo per gioco, si sostituisce alla scimmia, come spesso fanno i bambini o anche gli adulti per sdrammatizzare, per giocare, per interrompere la linearità della vita borghese – un po’ come il Pirandello de La carriola. In questa sostituzione, Gabbani – come lo stesso Celentano in Bingo Bongo (1982) – diventa scimmia nel gioco carnevalizzante dei simboli – e addirittura in rete qualcuno già vaneggia che, Gabbani, la scimmia ce l’abbia altrove…

Francesco Gabbani, classe 1982, vince così la sfida più difficile, quella con il pubblico e con la critica, come se il pubblico stesso non aspettasse altro che questa liberazione che solo la maschera sa dare. La maschera della scimmia.

 

Abbiategrasso – 12 febbraio 2017

 

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