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La filosofia afasica di Massimo Troisi
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Fu al tramonto dell’età di mezzo che fece la sua comparsa il timido astro di Massimo Troisi. Con età di mezzo si intende designare il lungo periodo (forse più di una decade) che fece da cuscinetto tra la fine gloriosa della commedia italiana degli anni ’60 e la epifania di una nuova generazione di comici che quella commedia seppe rielaborare sotto forme nuove di individualismo, tuttavia capace di apporre segni universali alla riconoscibilità di un intero popolo. Quella generazione nuova (se si fa eccezione per Nanni Moretti, impegnato in un disegno di ampio respiro eppure molto ripiegato su se stesso, su un narcisismo che, non avendo la pretesa di collegarsi al sentimento popolare, pure lasciava sul terreno stigmi che designavano l’italiano, combattendone le manie, per così dire, da una montagnola di indignazione) ebbe il proprio battesimo in televisione, quando ancora la tv poteva e sapeva farsi deus ex machina di nuove personalità, di freschezza incontaminata, di discorsi vergini e tutti ancora da sviluppare. Gli sketch del gruppo napoletano La Smorfia avevano la grazia incommensurabile di uno sberleffo intelligente, la forza grave e lieve di sollevare dal piedistallo i mostri sacri dell’immaginario collettivo, sino a rovesciarli in un terreno fitto di nonsense ed invenzioni lessicali ma anche sociali. Rivedere per credere le parodie religiose: la Madonna povera letteralmente braccata da un Gabriele ipovedente, il San Gennaro costretto a piegarsi alle piccole meschinità di un gruppo di popolani affamati di quarti d’ora di celebrità. Nell’ensemble, eterogenea e ben assortita (il mattatore, la degnissima spalla comica, il controcanto serioso e inappuntabile, la voce di una ragione sempre più flebile e destinata alla Waterloo) si stagliava un ragazzo riccio, con evidenti problemi di oratoria, un burattino che sembrava rielaborare le forme comico/tragiche dei Pulcinella della tradizione partenopea, rinfrescandone le mattane e le parole a vuoto sino ad innestarle con grande pugnacità nel mutato contesto sociale e politico (si era, ricordiamolo, negli anni di piombo).

 

 

Quella ribalta televisiva premiò altri mattatori: il Carlo Verdone romano, destinato ad una carriera luminosa da inflessibile radar di tic e vizi capitolini, i tre toscani de I Giancattivi, tra i quali emergeva la lunarità episodica e rapsodica di un ragazzo biondo (Francesco Nuti) la cui parabola esistenziale e cinematografica avrebbe presto pagato il dazio alla fragilità caratteriale ed alla incapacità di fronteggiare con la dovuta scaltrezza le sirene del successo. Ma il percorso umano e professionale di Massimo Troisi fu il più singolare di tutti: personaggio comico, malinconico, malato nel fisico e tentennante nell’animo, capace di silenzi balbettanti come di filippiche martellanti ed inconcludenti, il comico napoletano si fece portabandiera, se non unico interprete, di una poetica del tutto nuova al cinema, quella esitante poetica che potremmo definire, accettando il rischio della cacofonia, della filosofia afasica ovvero della afasia filosofica.

 

L’AMORE

Massimo ed i sentimenti, Troisi e la timida necessità di trovare l’altro da sé, l’altra metà, il completamento, le parole che mancano e sfuggono. Gaetano (Ricomincio da tre) è costretto a viaggiare per cercare una strada, fuggire da una Napoli post-sisma e pre-rinascita, abbandonare il piccolo mondo antico e riposante degli amici e della famiglia. Nella incapacità di accettare gli altrui tentativi di facile designazione (Lei è di Napoli ? Emigrante? No, sono in viaggio) può cogliersi il fiabesco orgoglio di un’anima all’apparenza semplice e svagata, in realtà alla perenne ricerca di un posto nel mondo e di un senso che possa superare le semplificazioni. Firenze è Marta, Marta può essere l’amore, superati gli scogli di quella urgenza classificatoria da cui Gaetano fugge e che pure tornerà a tormentarlo nelle proprie scelte e valutazioni. Marta è la ragazza del Nord lontano, è l’emancipazione temuta e invidiata, è la libertà di chi può permettersi una casa in centro, senza vettovaglie da portare negli altrui appartamenti, senza Robertini da consolare e compatire. I rondò messi su da Gaetano/Massimo in funzione di corteggiamento sono una ventata d’aria nuova nel cinema italiano: le difficoltà dell’uomo medio che questi accetta ed anche subisce come tali, ben lontane dalla guasconeria di un Sordi o dallo stropicciato fascino seduttivo di un Tognazzi. Semplicemente Troisi mette in scena un se stesso alla disperata ricerca di amore e tuttavia perso in lacciuoli dell’anima che ne imbrigliano la generosità e gli slanci di positività. Poche parole, molti mugugni, orgogli fanciulleschi, bronci esistenziali. Anche quando l’amore pare raggiunto, torna la difficoltà di esprimerlo con parole o perifrasi. Persino nel nome da dare al bambino che verrà: importante è sceglierlo breve, così da evitare il rischio di una educazione difficile, messa a dura prova dalla necessità di sprecare fiato e richiami. Ugo, allora, non Massimiliano. La pigrizia in amore è per Troisi una costante, ad esempio nel personaggio di Scusate il ritardo, che a letto si abbandona a Tutto il calcio minuto per minuto come a non voler disperdere un intero patrimonio di tradizione e leggerezza festiva, che si finge malato per godere di coccole supplementari. Irrisoluto e perdente, buono e spaurito. Afasico, come sempre. Perché una parola è poca ma tre sono troppe e l’amore non ha bisogno di costruzioni teatrali, di baci su una spiaggia poco frequentata. Poi quel ragazzo cresce ma, conservando dentro di sé fiori di irrisolutezza, può ammalarsi di amore, nell’amore, per amore. Le vie del Signore sono finite: la somatizzazione di una sofferenza che non si riesce ad eliminare, il mondo che pare troppo stretto o troppo largo, ancora la inutilità delle parole, sconfitte in partenza dal drago della incompiutezza. E prima del matrimonio, allora? Momento di transizione, rito di passaggio, esplosione di gioia irreversibile. Il ragazzo provinciale che Massimo è stato (il senso della fine che con lui cammina e germoglia) non può accettare una qualsivoglia idea di eternità, pur raggiante che sia. Non era amore, era un calesse. Quanto di più distante, quanto di più incongruo. Se pure il riconoscere la necessità di una pausa porta sofferenza, e dunque non elimina quello che ancora si pensa sia innamoramento, alla fine il cerchio si chiude. L’amore è un qualcosa di ontologicamente impossibile, non è un sentimento che duri per sempre (come ad esempio la fede religiosa): è un agglomerato di codici che, all’improvviso, può finire, semplicemente evaporare, scomparire. C’è molta tragicità in tutto questo, molta (ancora) filosofia. Perché Troisi sapeva, conosceva il suo destino, lo nascondeva a noi che lo amavamo eppure ne lasciava tracce invisibili nelle sue costruzioni teoriche sempre un passo al di qua del lieto fine. Malinconia che non poteva non esprimersi che con poche parole, ed in silenzi ricchi di sgomento (al massimo in parole lanciate a caso come dadi, frasi che si tiravano la coda, fatica di Sisifo di un commediante lucido). Afasia, appunto, e suoi derivati.

 

 

LA MORTE

-Ricordati che devi morire!

- Sì, mo' me lo segno

Non soltanto l’amore è un gioco a perdere. Anche la vita: cosa che, con il facile senno di poi, mette i brividi e porta ad una rilettura più intima di quei capolavori di miniatura esistenziale. Il senso della morte, la sua forzata accettazione, nonché il vitale istinto apotropaico di eluderla dalla quotidianità, pervadono tutto il cinema di Troisi. Dall’aspirante suicida di Ricomincio da tre (Andate piano! Come a dire: falla finita, ma non coinvolgere l’umanità che ha ancora sete di vita, non accelerare il percorso del fato perché io sono appena arrivato a Firenze e, pur non essendo emigrante, ho ancora da ambientarmi) al padre bigotto del medesimo film d'esordio (la Madonna che deve ridare vita all’arto scomparso), fino al personaggio testamentario di un Massimo stavolta più propenso ad abbandonarsi al proprio destino. Quel postino che incontra per caso la poesia e con essa allontana la morte, conosce finalmente un amore che basta a se stesso e con esso fa pace con tutte le insicurezze del passato. Anche il postino parla poco, perché non ha strutture intellettuali; tuttavia sente molto, nel suo sguardo febbrile e col suo corpo asciugato. Sente e scruta, osserva ed assorbe, ama di istinto e si prepara al percorso finale. Non è un film riuscitissimo, Il postino. Eppure c’è quella figura ieratica che Troisi incarna meravigliosamente (perché il postino è lui e Neruda il suo pubblico che pian piano gli si affeziona) che colpisce e fa riflettere. Un Massimo che, per l’ultimo atto della sua poetica, sembra tornato bambino. E, per la prima volta, nella drammaticità delle circostanze che di lì a poco sopravverranno, appare come pacificato, cosciente di aver concluso un discorso, smozzicato ed altalenante ma sempre profondamente sincero nonché, si è detto e lo si ribadisce, di altissimo e nascosto valore filosofico.

 

 

 

 

 

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