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Verdone e Brega. Roma e la romanità
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Bisogna prendersi un po’ di tempo. Passeggiare per Roma non basta; non ci si può accontentare dello shopping furente accompagnato da distratti sguardi agli angoli perennemente intrisi di bellezza. Non è sufficiente visitare i millanta musei, dopo aver superato l’ordalia della fila, della disidratazione o del freddo. Tempo, si diceva. Salire in uno dei punti che guardano dall’alto o da lontano la Città Eterna (poniamo il Pincio, paradigma assoluto; ma ci si può accontentare anche di un Ponte Milvio o di una Villa Borghese, peraltro ricca di suggestioni cinefile col suo immaginifico Cinema del Piccoli), fermarsi, sospendere il pensiero. Lasciarsi trascinare dall’onda del nulla, dai vapori leggeri della perdita di sé, cullati dal vento soffice (ponentino, hai visto mai?) o dalle volute di agenti atmosferici appena più aggressivi. E prima o poi arriva: un sentimento di beatitudine, prossimo alla atarassia, una nostalgia che prende senza fare male, qualcosa che si avvicina alla indefinitezza della saudade brasiliana. Incantevole, a suo modo, soffocante il giusto, intensa oltre ogni limite. Ma, soprattutto, profondamente ed esclusivamente romana.

 

 

Roma è set cinematografico per eccellenza, poiché è storia, incrocio di popoli, architetture, studio di caratteri che tendono all’infinito. Eppure c’è una cinematografia romana (di Roma) ed una della romanità (intesa come approccio totale, totalizzante, del cittadino con la sua città, la sua capitale, la sua caput mundi). Viene facile pensare a Gassman, Manfredi, Sordi; ma sono forse suggestioni. Gassman perso nella aura da mattatore, battitore libero; Sordi romano e romanesco sì, ma soprattutto italiano; Manfredi molto malinconico e spesso più sfaccettato, latamente romano ed anche romanesco (ma con eccellenti caratterizzazioni di figli di altri popoli, come il napoletano che si arrangia di Cafè Express o l’indefinibile burino di Brutti, sporchi e cattivi). Perché si realizzasse una sintesi della accennata piccola discrasia, della aporia tra Roma e la romanità, occorrevano due attori, in grado di farsi maschere e recitare un ruolo, il proprio ruolo, interagendo con in vista il traguardo della rappresentazione globale di un sentimento popolare. Roma e la sua anima biforcuta: la Roma che si guarda allo specchio e si scopre romanesca.

Sin dagli esordi, e grazie al suo nume tutelare (romano) Sergio Leone, Carlo Verdone è stato Roma. Il figlio della lupa, il lupetto impacciato, il centurione ansioso, il gladiatore ansiogeno. Nelle ultime prove l’attore/regista si è affrancato da questa visuale un po’ parziale: ha spostato i set altrove, non infrequentemente all’estero, si è dato una dimensione che uscisse dalla soffocante prospettiva di Colosseo ed affini. Eppure, a ben guardare, anche i personaggi del primo Verdone sono espressione di una Roma che mira all’altrove, che espone ed agogna sogni di fuga, evasioni difficilmente realizzabili. Un sacco bello: il bulletto che sogna la Polonia, il figlio dei fiori riportato forzosamente nella capitale e che ha imbastardito l’accento ed il lessico con gli slogan dei ’70, l’imbranato che si innamora della spagnola perché, detto alla romana (anzi alla romanesca), a Roma nun se lo caga nessuna. Per non parlare del trio di Bianco, rosso e Verdone, film in cui C.V. esplora nuovi territori sintattici e inediti tipi umano/territoriali: il lucano Pasquale Amitrano, muto finché incazzatura non esploda, Furio e la sua acquisita piemontesità soffocante. Resta il nipote allocco che, tuttavia, viaggia. E viaggiando incontra, ecco, l’alter ego, l’alfiere, il prototipo della romanità: Mario Brega ed i suoi tipi, assolutamente, invariabilmente romaneschi.

 

 

Cos’è la romanità di Mario Brega ed in cosa si differenzia dal sentimento di Roma espresso da Verdone? E’ senso di appartenenza, è autarchia assoluta, è chiusura tra le quattro mura di una città pur infinita, internazionale. E’ rifiuto senza ritorno di ogni istanza di cosmopolitismo. Nessuno potrebbe immaginare il papà di Borotalco lontano da Roma, dai suoi vicoli, dalle osterie e dalle friggitorie, dalle botteghe. L’unica concessione alle altre bandiere si ravvisa nella proverbiale scena delle olive greche: sono comunque prodotti importati, destinati ad impregnarsi di afrori e sapori romaneschi, fino alla imposizione. Assaggia ‘ste olive. So' greche! So’ greche ma ormai convertitesi al gergo, hanno il gusto della sofferenza e della noia che inizia ad infestare l’animo di Verdone/Sergio Benvenuti/Manuel Fantoni (un romano che ce l’ha fatta, ha viaggiato su un cargo battente bandiera liberiana). Il rigetto verso ogni forma di internazionalità riprende corpo contestualmente alla scoperta della messa in scena dell’infamone Sergio. Vai pure con le negre! Razzismo del borgataro che non si basa tanto sul colore della pelle, quanto sulla decontestualizzazione di un tradimento delle origini (ci fosse stata una modella meneghina, il suocero furioso avrebbe detto: Pure con le milanesi! Mogli e buoi dei paesi tuoi, il romanesco non può che essere così). Anche il personaggio di Un sacco bello (ancora un padre, questa volta del Carlo alternativo) si rinchiude in una gabbia borghese mai avulsa dalla sanguigna e terragna passione dei natali romaneschi. Passione per una città, passione per una politica che in quelle strade, tra Parlamenti e buvette, sviluppa i propri intrighi (la rivendicazione del proprio essere comunista, lo sdegnato rifiuto della parola fascio), voglia, necessità di riportare il figliol prodigo nell’alveo della mangiatoia materna (nel senso di casa, nel senso di Roma). E, infatti, ogni ausilio esogeno si rivela un fiasco: il prete calabrese ed il professore veneto parlano un linguaggio alieno, non consono alla finalità di normalizzazione. Loro hanno visto il mondo, ci sarebbe voluto un romano. Anzi un romanesco. Lo stesso Principe, viaggiatore con il suo camion, è destinato, dopo distese di chilometri, a tornare a Roma. Le mani fero e piuma non sono esportabili, costituiscono un prodotto doc del territorio, un atout di origine (in)controllata. Il Principe è ruvido e gentile, conscio della sua grandezza da re di Roma del sottosuolo. Ne ha viste tante: lui sì che non confonderebbe, mai potrebbe, una fregna con un par de mutande. Ne ha viste, ne ha fatte; ma è sempre tornato lì, crediamo. Al fresco della sera, o alla controra, con un enorme maritozzo o una birra ghiacciata, a riposare o ad imprecare, comunque a pensare a quanto sei bella, Roma.

 

 

 

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