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La brama nella manica: i cent'anni di Kirk Douglas
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Kirk Douglas

Spartacus (1960): Kirk Douglas

 

Come altri attori della sua generazione, Kirk Douglas non è nato con questo nome. Prima di trasformarsi nella quasi trascendentale quintessenza americana della classe, Cary Grant era l’umile proletario inglese Archibald Alexander Leach. Il giovanissimo Emanuel Goldenberg fu costretto a fuggire dall’antisemita Bucarest di primo Novecento e diventò Edward G. Robinson, icona del noir e del gangster movie.

Non solo gli attori, ma anche i registi: Elia Kazan era l’esule greco-turco Elias Kazanjoglou e William Wyler il tedesco Wilhelm Weiller. E gli esempi potrebbero proseguire, anche nelle generazioni successive: pensiamo a Woody Allen, nato Allan Stewart Konigsberg, erede di una famiglia russo-austriaca-tedesca.

Per capire le ragioni di questo fenomeno bisognerebbe chiamare a rapporto uno storico in grado di raccontarci il movimento migratorio verso la terra della libertà e dell’abbondanza. I casi citati sono emblematici perché le motivazioni riguardano quasi sempre l’inadeguatezza del continente europeo ad arginare l’odio (le diaspore nazionali, l’antisemitismo) o ad offrire la possibilità di una vita migliore.

 

Kirk Douglas

L'asso nella manica (1951): Kirk Douglas

 

Kirk Douglas nasce Issur Danielovitch Demsky ad Amsterdam, cittadina dello Stato di New York omonima di quella olandese, figlio di immigrati ebrei bielorussi. Pur venuto alla luce nel territorio americano, Douglas ha un background domestico europeo che risulta evidente dal suo volto vagamente spigoloso, a suo modo un addolcimento dello stereotipo iconografico dell’ebreo.

Non a caso, nel suo periodo di massima gloria, Douglas è stato un sex symbol molto particolare. La concorrenza agguerrita all’apogeo del divismo vedeva personaggi indubbiamente belli ma i cui diversi talenti condizionavano anche la percezione che il pubblico aveva di loro. Da una parte, tra gli altri, il fatato ed alcolico William Holden, il rassicurante e malinconico Gregory Peck, l’atletico e forte Gene Kelly, il misterioso e consumato Robert Mitchum, star classiche di un cinema classico.

Dall’altra, in ordine di apparizione, gli esponenti di un metodo recitativo più innovativo e riflessivo: il tormentato e sfortunato John Garfield, il sensuale e vulnerabile Montgomery Clift, l’olimpico e selvaggio Marlon Brando, l’unicum James Dean, lo scintillante e poliedrico Paul Newman. Emerso alla fine degli anni quaranta (quello di Holden, Peck, Kelly, Mitchum) ed esploso nel decennio successivo (Clift, Brando, Dean, Newman), parimenti a Garfield (morto prematuramente), il caso di Douglas è da associarsi a quello di Burt Lancaster.

Sono due attori che hanno saputo assorbire quel che restava del divismo ideale ed irraggiungibile dei primi e adattarsi alla rigenerazione recitativa perpetrata dai secondi. Due divi di frontiera che hanno giocato sulle possibilità date dalla loro fisicità: lo splendore vigoroso e fragile di Lancaster, l’ipotesi di follia nello sguardo di Douglas. Lasciando stare il primo, l’occasione dei cent’anni del secondo ci dà l’opportunità di riflettere sull’ultimo divo della golden age hollywoodiana.

 

Kirk Douglas

Brama di vivere (1956): Kirk Douglas

 

Dopo il bravo marito di Lettera a tre mogli (1949), è il suo primo grande successo, Il grande campione (1950), a cogliere ciò che sarà uno dei must della sua recitazione. Pugile il cui fisico è il risultato della caparbia volontà di essere il migliore, è al contempo il peggiore nei rapporti umani con coloro che gli vogliono bene. Personaggio smanioso ed ambizioso, segnato da un destino impietoso chiaro fin dal principio nella prospettiva moralista del sistema di Hollywood.

Il cinismo è la componente fondamentale di uno dei suoi ruoli della vita: ne L’asso nella manica (1951) è il perfido giornalista che vuole sfruttare la tragedia di un minatore incastrato nel crollo di una miniera. La speculazione mediatica del dramma non è solo la premonizione di una morbosità imperante di lì a qualche anno ma anche, in piena coerenza con la suprema cattiveria di Billy Wilder, il ritratto amaro di un patetico disgraziato che vuole fottere un sistema che ha già provveduto a fotterlo.

Sulla stessa scia, a coronare un memorabile poker, ci sono Pietà per i giusti (1951), in cui è un feroce poliziotto, e Il bruto e la bella (1952), il più bel film sull’evidenza del cinema (Effetto notte è il capolavoro sul mistero del cinema). Anzi, più in particolare, racconta spietatamente ciò che non si vede nell’evidenza del cinema. Il produttore Douglas, ispirato a David O. Selznick, è un personaggio spregevole e spregiudicato immolato all’industria del cinema. Come tutti i film di Vincente Minnelli, è un lavoro sulla manipolazione e sull’artifizio del cinema.

 

Kirk Douglas

Il bruto e la bella (1952): Kirk Douglas

 

In tre anni, il corpo attoriale Douglas diventa il massimo rappresentante di una tormentata e quasi involontaria crudeltà, forse insita al suo aspetto insolito, con lo sguardo allucinato, il sorriso irresistibile, il mento schiacciato. È così l’interprete ideale di Vincent van Gogh nel pastoso Brama di vivere (1956), un carattere sì straziato dalla vita ma che trova un riscatto – ma mai un sollievo – nella pittura, e così pure dell’epocale Spartacus (1960).

Nel filmone che Stanley Kubrick prese in mano dopo il licenziamento di Anthony Mann, il divo raggiunge l’apice del suo potere contrattuale. Con una mossa per certi versi davvero storica nella sua intesa tra azione politica e opportunismo professionale, Douglas affidò la sceneggiatura a Dalton Trumbo, il comunista che Hollywood mise al bando durante il maccartismo. Ben sapendo la piega che egli avrebbe dato alla storia della ribellione degli schiavi, l’attore e produttore capì che la sua recitazione si sarebbe esaltata in un ruolo epico e fiero.

Douglas aveva già lavorato con Kubrick: Orizzonti di gloria (1957) resta una delle più alte parabole antimilitariste della storia, da porre accanto a La grande illusione (1937) di Jean Renoir. Ma, parimenti a quell’esperienza, anche Spartacus subì le critiche dei reazionari e le minacce della censura. Tuttavia, è da sottolineare l’audacia di aver posto Hollywood di fronte alle sue colpe (l’assurdità di aver emarginato un grande sceneggiatore per motivi politici) e alla sue sfide (un attore che si mette in proprio e produce il proprio film).

Insomma, negli anni cinquanta, Douglas è un divo che può fare ciò che vuole: colonizzare l’Italia recitando in un kolossal, Ulisse (1954), che fa parte del progetto hollywoodiano di de localizzare l’industria per controllarla meglio ed evitare l’espansione delle realtà locali; anticipare i temi de L’uomo del banco dei pegni (1965) interpretando un sopravvissuto all’Olocausto ne I perseguitati (1954); revisionare il western con l’anticonformista Il grande cielo (1952) e la riedizione spettacolare di Sfida all’O.K. Corral (1957), in cui condivide la scena con Lancaster.

 

Kirk Douglas

Orizzonti di gloria (1957): Kirk Douglas

 

La parabola più che interessante di questo attore – magari non bravissimo ma che è riuscito a esprimere una versione molto personale del divismo americano al tramonto della sua stagione – sembra arenarsi negli anni sessanta, il decennio nel quale avviene il lento passaggio di consegne con un’altra generazione di attori. In attesa della New Hollywood di Dustin Hoffman, Robert Redford, Warren Beatty, Jack Nicholson e quelli che verranno, Douglas lascia il segno con alcune zampate di classe.

È il caso di Due settimane in un’altra città (1962), rielaborazione alcolica, ancora firmata da Minnelli, de Il bruto e la bella, stavolta nella Roma della dolce vita. Ma anche di 7 giorni a maggio (1964), tesissima fantapolitica in cui è un fedele e ligio militare, e nel fluviale war movie Prima vittoria (1965), fino alla curiosa divagazione storico-bellica Gli eroi di Telemark (1965). Nel bel mezzo della revisione dei generi, Uomini e cobra (1970), diretto dal vecchio sodale Joseph L. Mankiewicz, è un canto del cigno d’inesorabile classicità, un’ironica ballata western che riflette sulla mitologia e sulla tradizione del genere.

Al pari di altri attori americani della sua generazione, Douglas frequentò la nostra cinematografia popolare in alcuni lavori di discutibile interesse. Negli anni settanta, cedette il trono di famiglia al figlio Michael: gli diede i diritti di Qualcuno volò sul nido del cuculo, che aveva comprato con l’obiettivo di recitarlo, e il figlio lo produsse, affidò il ruolo a Nicholson e incamerò parecchi Oscar. Altra dimostrazione dell’occhio lungo di Kirk.

Ormai anziano, riceve un tardivo Oscar alla carriera dopo tre antichi tentavi andati a vuoto. Continua a recitare senza troppe pretese fino all’inizio del millennio. Appare in qualche show con tutta la verve della sua gagliarda età. Ultimo sopravvissuto della sua stagione, raggiunge il 9 dicembre il simpatico traguardo dei cent’anni.

 

Kirk Douglas

Combattenti della notte (1966): Kirk Douglas

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