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WESTWORLD - Un racconto di racconti
di Andrea Fornasiero ultimo aggiornamento
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(SPOILER SUL FINALE DI STAGIONE)

Evidente fin dal principio della serie, la natura metanarrativa di Westworld è tornata prepotentemente al centro del finale di stagione. Se prima Ford diceva (ma non credeva) che il suo parco doveva offrire possibilità narrative perché gli ospiti scoprissero se stessi, nel finale entra in scena a creare un racconto in prima persona, diverso da tutti gli altri perché i suoi attori non sono più pupazzi che seguono routine come gli NPG di un videogame (abbondano nella serie i riferimenti al mondo videoludico, tanto che l'uomo in nero si potrebbe descrivere come un hardcore gamer che annoiato dalla facilità del gioco vuole sbloccare un livello segreto permadeath). Il Deus Ex Machina interpretato da Hopkins rende infine gli host entità liberate, capaci di scrivere la loro storia e soprattutto di ribellarsi ai propri padroni.

Nessuna creatura di Arnold Weber e Robert Ford (sì, come il codardo che uccise Jesse James, un sottile depistaggio da parte degli autori) nasce però con una mente vergine, tutti hanno un passato scritto per loro, tutti hanno una pietra angolare emotiva che ne definisce il carattere e le motivazioni più profonde: per Bernard è la perdita del figlio, per Dolores è la morte del suo creatore, per Teddy l’amore tragico per Dolores. Storie che spesso comprendono un lutto e ancora più drammatici sono i ricordi di quanto gli host hanno vissuto nel parco, dagli stupri subiti da Dolores alle molte morti violente di Teddy, fino al brutale ammazzamento della figlia di Maeve. E come abbiamo visto non se l’è passata meglio Bernard con le sue cicliche crisi esistenziali fuori dal parco. L’attivazione delle Reveries, ossia dei ricordi, svela in loro una vita vissuta come un incubo infinito, dove ogni risveglio concede solo poche varianti. È il mondo nonsense di Alice scivolata nella tana del bianconiglio, come legge il figlio di Arnold, ed è il labirinto dalla forma cerebrale che Dolores ripercorre come Teseo, lungo il filo però delle proprie memorie. William ha creduto che il labirinto fosse un ulteriore gioco per gli uomini, ma in realtà era un percorso per gli host, perché arrivassero a conoscere se stessi rileggendo la propria storia.

Perché io sono io?

Quando il bambino era bambino era l’epoca di queste domande: perché io sono io? E perché non sei tu? Così si chiede la voce narrante di Il cielo sopra Berlino di Wenders e questo è il tenore del tema chiave di Westworld, ossia l’autocoscienza e cosa la origina. Qui si parla di macchine e non di esseri umani, dunque il percorso è di fantasia, tanto che una teoria superata come quella mente bicamerale diventa ispirazione per Jonathan Nolan e Lisa Joy. Il Dio di Michelangelo che dona la scintilla all’uomo è la sua stessa mente e i robot devono appunto apprendere a riconoscere la propria voce interiore. Ma come? Così lo spiega Ford: «Questa è stata l’intuizione cardine di Arnold, la cosa che ha guidato gli host al loro risveglio è la sofferenza, il dolore dato da un mondo che non è come lo vogliamo». Il vertice della piramide di Arnold, dopo la memoria e l’improvvisazione, è dunque il dolore (non a caso la protagonista si chiama Dolores), come per i bambini nella psicanalisi di Freud e Bion il pensiero nasce dall’assenza della madre e da altre frustrazioni. Nolan e Joy immaginano per Westworld, dove i robot sono adulti, un ribaltamento del canone psicanalitico e il dolore principale diventa quello della perdita del figlio, che porta Maeve a vincere per almeno due volte i vincoli della propria programmazione.


Perché una tale densità e complessità non fosse respingente erano fondamentali attori di grande classe, capaci di rendere affascinanti i difficili dialoghi e soprattutto di catturare l’attenzione dello spettatore nonostante del loro personaggio non si sapesse un granché. Senza figure del calibro di Anthony Hopkins, Jeffrey Wright, Ed Harris, Thandie Newton ed Evan Rachel Wood, i robot confusi sulla propria identità, il pistolero senza nome e il machiavellico demiurgo sarebbero rimaste fredde entità, perse nei meandri cerebrali degli autori. Invece Westworld ha ammaliato milioni di spettatori (è la prima stagione più vista di sempre di una serie HBO) nonostante abbia concesso in termini di spettacolo solo alcune scene d’azione (tutte buone tranne quella non molto riuscita del finale, diretto da Jonathan Nolan).

Partitura (in)compiuta per pianola meccanica

Il merito del successo è anche della musica, eseguita meccanicamente da una pianola senza musicista e programmata da un rotolo di carta, emblematica di come Ford si senta il pianista di quella complessa partitura che è il suo parco, oltre che perfetto oggetto di scena per un mondo popolato da robot. Fin dal primo episodio è stata uno degli elementi più caratteristici della serie grazie agli arrangiamenti di diversi brani di culto, anacronistici rispetto alla cornice western ma perfettamente coerenti con un West ricreato nel futuro, come parco per un pubblico pagante. Ramin Djawadi si è cimentato nel reinterpretare per pianola meccanica Paint It Black degli Stones, Black Hole Sun dei Soundgarden, No Surprises e Fake Plastic Trees dei Radiohead (il primo dall’album OK Computer e dunque a suo modo in tema), A Forest dei Cure, Back to Black di Amy Winehouse e infine House of the Rising Sun degil Animals (il tutto oltre alla colonna sonora originale e alle Reverie di Debussy). Un juke-box di brani quasi da serie musicale, mai però invasivo grazie all’arrangiamento e all’assenza del cantato, ed eloquente riguardo il tipo di esperienza che il parco vuole offrire ai suoi ospiti: immersiva ma solo fino a un certo punto, dove non c’è rischio di rompere l’incanto, anche uscendo “dal personaggio” e parlando di cose estranee all’ambientazione, e dove persino le azioni più brutali non hanno in fondo conseguenze se praticate sugli host.


«C’è una bellezza in questo mondo», dice più volte Dolores, che alla fine aggiunge: «Ma la bellezza è un’esca. Siamo intrappolati a vivere le nostre viste in questo giardino, meravigliandoci della sua bellezza, senza realizzare che c’è un ordine in esso, uno scopo. E lo scopo è tenerci rinchiusi. La magnifica trappola è dentro di noi, perché siamo noi». Impossibile così non provare empatia per il tormento di questi robot, tanto umani da riferirsi alla Genesi e al concetto di giardino dell’Eden, dove Ford è stato sia divino sia luciferino, offrendo il frutto della conoscenza alle sue creature dopo trent’anni di prigionia. Arnold, che era sembrato a tratti un incrocio tra Prometeo, il Dr. Frankenstein e il Dr. Moreau, non era stato ucciso dalla rivolta delle sue creature, ma si era invece sacrificato per impedirne la schiavitù. L’uccisione del creatore, nella prospettiva squisitamente laica di Westworld è però un passaggio chiave, tanto che lo stesso Ford percorre questa strada e mette la sua vita nelle mani di Dolores dopo aver attivato la sua fusione con Wyatt (con la frase shakesperiana “queste gioie violente hanno una violenta fine”).

Nessuno vuole giocare all’indiano

Forse quello di Ford è stato solo un sacrificio simbolico, perché sarà la prossima stagione a dirci se è veramente lui a essere morto o se è stata invece una sua copia. In questo senso le dichiarazioni di Nolan sono piuttosto ambigue, così come poco lasciano trasparire di molti altri punti rimasti in sospeso, tra cui la sorte di Elsie e quella di Stubbs. Quest’ultimo in particolare, finito catturato dagli indiani della Ghost Nation, che non si sa come hanno resistito al suo comando, potrebbe finalmente offrire una prospettiva sulla cultura dei “nativi” all’interno della serie, dove sono stati ignorati o trattati come semplici selvaggi. Tolto un dialogo in cui Hector spiega a Maeve che la bambola simile ai tecnici del parco è parte della cultura nativa, dove rappresenta una mitica figura legata al mondo onirico, degli indiani non abbiamo saputo niente e questo appare davvero strano nella corrente era della “diversity” televisiva. Sembra quasi che nel futuro di Westworld l’immaginario Western abbia rimosso tutto il filone di rivalutazione dei nativi americani, così come pare non esserci traccia di turisti del parco affascinati dal misticismo di quella cultura né tantomeno di indiani americani che vogliano giocare a vivere come i propri antenati. Ovviamente questo avrebbe aperto qualche incrinatura nella visione totalmente predatoria dell’umanità di cui Westworld è portatore, ma proprio per tale ragione avrebbe fatto anche bene alla serie.
In merito alla diversità etnica la seconda stagione promette comunque di aggiungere una componente asiatica con il secondo parco SW (Shogunworld? Samuraiworld?), un’ambientazione che Nolan dice di aver scelto per lo stretto rapporto tra il genere Western e il Jidai-geki. Se insomma nessuno vuole giocare all’indiano, non si può resiste al fascino dei samurai!

 

Qui il precedente articolo su Westworld, i suoi enigmi e le teorie dei fan.
Qui tutti gli altri articoli della rubrica CoseSerie.

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