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Il cinepanettone è vivo e lotta insieme a noi
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Circola l’idea, ormai fattasi vangelo, che la gente abbia necessità, bisogno fisico, impellenza, di ridere a Natale. Regalare sorrisi ed allegria è compito improbo ma stimabile, benché a volte la virtuosa catena domanda/offerta/prodotto si trasformi in un baratto onestamente commerciale: ammansire le orde di pubblico con il panem et circenses della leggerezza senza profondità, del disimpegno corrivamente onesto (è una questione di aspettative: sei disposto, dopo aver mangiato, bevuto e scherzato, a riflettere con ironia di spessore, ovvero puoi e sai accontentarti di frizzi e lazzi digestivi, non amari come Fernet ma effervescenti come citrato?). E invece a Natale ridono solo i bambini, cui bastano le luci e la prospettiva del dono (in)aspettato. Eccolo, il colpo di genio che ha rivoluzionato le feste: trasformare gli spettatori in bambini, apparecchiare pacchetti regalo con dentro coriandoli di complicità e petardi anti-sovrastrutture mentali. Cinema di basica pregnanza, attento alla possibilità di coinvolgere, innamorato della semplicità, elevante l’evasione a poetica (il fanciullino che è in noi va vellicato con sapienza. Poi, siccome i fanciullini crescono, gli si propinano dosi sapienti di volgarità seriale: si sa, ripetendo all’infinito una parola, quella perde di significato. Infatti: i cazzi e i culi, nell’ovattata atmosfera dei fine dicembre, sono un mantra che si fa giocoso, imbelle, sfiora l’intelletto e riposa nelle pance satolle. Inoffensività allo stato puro). Un tempo i Natali al cinema erano appaltati alle commedie sciape e roteanti lungo tratti di sana ripetitività: il demiurgo ne era Adriano Celentano, che sbancava il botteghino con satira all’acqua di rose, volgarità quasi nulla, scrittura filmica da parto gemellare. Erano operine di mero disimpegno, lui lei, qualche altro, l’amore romantico che, alla fine, vince sempre. Ed il Natale era servito (a qualcosa, forse a nulla, ma bastava così). Le nuove sceneggiature degli anni ’90 volavano più alto: rappresentare l’italiano nelle sue complesse sfaccettature, fare di un luogo comune il grimaldello per la risata, lasciare che i giudizi morali risentissero di una voluta sospensione. Intenzione nobile, a suo modo: la satira che sferza invisibile è concetto profondo. Purtroppo, quei nuovi scrittori si lasciarono prendere la mano: il ridendo castigat mores si trasformò in strizzatine d’occhio furbesche, la salacità del lazzo divenne (come da facile rima) santabarbara di parolacce e caravanserraglio di topoi per comode identificazioni. Lo spettatore medio era preso all’amo: dopo il torrone, la digestione al cinema, i movimenti peristaltici favoriti dalla risata grassa, natalizia, festaiola. Ci fu, ecco, chi coniò il termine, definitivo, esiziale: cinepanettone. Il dado era tratto.

 

 

Data un’architettura elementare, una struttura portante, occorreva emanare un ticket in grado di garantire fidelizzazione del pubblico. Bisognava creare una compagnia di giro, composta da attori che avessero la capacità di interpretare quei luoghi comuni, renderli pulsanti, viverli, masticarli e restituirne il levigato bolo agli spettatori. Il romano, il milanese, lo sfigato, lo sciupafemmine, il cornuto, la donna di facili costumi, le figlie bene, il bravo ragazzo, gli amori incerti, romantici o confusamente passionali. Attratti dal miele del successo, protagonisti, comprimari e seconde scelte si dedicarono anima e corpo al progetto, vendettero l’anima al diavolo del Natale sugli schermi, assunsero una doppia personalità, anche a scapito di capacità attoriali che non contemplavano altri banchi di prova. Il quadro era completo, il cerchio si chiudeva: cenoni, regali, gastriti e coliti, necessità di depurarsi con la grana grossa di una commedia, laico lavacro di peccati di gola e di vita. Dopo la tombola, tutti da Boldi e De Sica. Tombola auspicabilmente senza fagioli, ché i fagioli, in quei film, hanno effetti inenarrabili.

 

 

Gli anni sono passati, il cinepanettone è diventato una categoria dello spirito, un imperativo kantiano per le famiglie in overdose da zucchero e canditi. C’è chi tenta di rivalutarlo, chi si arrocca sull’Aventino della degnazione e dello snobismo, chi cede al rito perché tanto i riti vanno rispettati, hanno liturgie avvolgenti come spire di serpente. Ma è un genere che andrebbe rivisitato: troppa acqua sotto i ponti, ormai, separazioni di coppie dalle uova d’oro, scissione di binomi che sembravano a prova di settimi anni. Il cinepanettone deve rinascere, araba fenice, dalle ceneri dei propri peti e dagli scirocchi delle eleganti deiezioni. Alcune modestissime proposte:

  • scrivere una storia in cui, per una volta, si veda una lacrima sincera (che fa tanto Dickens, hai visto mai?);

  • non arruolare guest stars che seguano le onde del momento storico/sociale/politico (eventualmente riesumare Amedeo Nazzari, che farebbe sempre la sua porca figura);

  • dire a Boldi che il romanesco non lo sa parlare;

  • azzardare parodie di capolavori (Il posto delle fregole; Rimbo; Farro 3, per un Natale di pasti frugali);

  • cercare location alternative (Scampia, due camere e cucina, cabine elettorali, pendici dell’Etna);

  • chiudere il computer, premere il tasto Canc, concedersi qualche lustro sabbatico.

     

    E buon Natale.

 

 

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