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Da Fellini a Pierino: Alvaro Vitali e il cinema
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L’inizio, il debutto, l’esordio possono essere soltanto categorie di riferimento, esclusivi dati fattuali, tappe già intermedie di una cronologia in seguito svolazzante lungo altri sentieri. Quando Alvaro Vitali è solito ripetere il mantra del “Ho cominciato con Fellini” non è possibile revocare in dubbio alcunché, né abbozzare la risatina isterica del cinefilo e del topo da cineforum che guardano dall’alto in basso le esternazioni di triste nostalgia di chi, illuso su un futuro da primadonna, lo ha avuto ed è però costretto (anche ingiustamente) a vergognarsene. E’ un dato di fatto, appunto: nel 1969, nel Satyricon di Fellini, una piccola parte la aveva anche Alvaro Vitali da Roma, classe 1950 (un pivellino, dunque, un tardo adolescente con il volto impunito del romano smagato). E il maestro romagnolo volle quello stranissimo esemplare di fenicottero al contrario anche in altre prove della sua genialità: I clowns (1971), Roma (1972), addirittura Amarcord (1973), ode alla nostalgia che mal si adattava a quelle fattezze da burattino di borgata, e invece perfettamente attagliabile a quelle stesse caratteristiche fisiche imperniate su una figura (confusa con le altre, certo, ma sempre di alta derivazione riminese) di scolaretto in fregole e lazzi (la scuola, questa costante ineliminabile nella carriera di Vitali). Altro discorso è la corrispondenza tra partecipazione ad opere d’arte e capacità spinterogena di quelle comparsate: un conto è una capacità attoriale coltivata sulla scorta di talento granitico, altro è l’accontentarsi di piccoli fuochi d’artificio senza botto finale, ma con numerosi picchi di (se non gradevolezza) intensità e capacità di fascinazione presso gli astanti. Vitali non poteva essere, e non è mai stato infatti, un grande attore. Anche come caratterista pagava dazio alla sua fisicità così essenzialmente basica, a quella espressione di non voluta bruttezza e simpatia. Era un prototipo, e come prototipo il cinema seppe utilizzarlo, quindi sfruttarlo, infine riporlo in un angolo. Ché la gloria perenne è patrimonio di pochi eletti. Fellini, da sempre cultore delle facce (cfr il raffazzonato omaggio da baraonda di Arbore in FF.SS – le dispense enciclopediche delle facce di Fellini-) colse l’attimo, naturalmente non si chiese se quel piccolo uomo fosse effettivamente un attore. Si fece bastare la non arguzia del volto, l’occhio da triglia, lo strabismo capace di guardare oltre, e da diversi punti di vista. F.F. non sapeva di stare anticipando la stura ad un incredibile fenomeno di costume che, da lì e per un buon decennio, irruppe nel cinema italiano e lo connotò, al di là di ogni indulgenza, di ogni sopracciglio levato, di ogni considerazione su sufficienza e faciloneria. Fino ai primi anni ’80 Alvaro Vitali, in Italia, lo conoscevano tutti. Insospettabili compresi.

 

 

La biografia di celluloide di Alvaro Vitali si intreccia con quella storica di un’Italia che ha smarrito ogni punto di riferimento. A livello cinematografico con il lento esaurimento del geniale filone della commedia all’italiana, quella immensa fioritura di opere che, sotto il velo della risata amara, era capace di castigare costumi e modi di intendere la vita ed il rapporto col prossimo tipici di un popolo dalla coscienza democratica ancora giovane, trascinato in un boom economico senza possedere gli strumenti per filtrarne intellettivamente la pericolosità; a livello storico con il lento incedere della lotta armata, cascame del ’68 e facile Moloch per una gioventù persa nel frullatore di sogni e speranze frustrati, e con la incapacità della politica di decifrare segni e sintomi dei mille mutamenti che si agitavano sottotraccia. Nasce al cinema il desiderio di disincanto, sorta di anticipato riflusso, la necessità di dare a quella masse angosciate il panem et circenses di un intrattenimento facile, colosso dai piedi d’argilla eppure con un busto che riesce a far bella mostra di sé ed a stregare chi decida di sostare. Occorrono facce, mimiche e prossemiche nuove: attori che incarnino i vizi e le virtù dell’italiano medio, quegli stessi che già Sordi aveva portato nel Paradiso della eternità e che qui vengono tuttavia rielaborati con massimo (e sospetto, e bruttino) livello di corrività e da penne infinitamente più spuntate di quelle degli sceneggiatori dell’età dell’oro, penne che si accontentano di strizzare l’occhio, sospendendo ogni giudizio morale (e neanche paventandone il simulacro), complici, amiche e sodali di uno sguardo che, piano piano, finisce con l’infilarsi nei territori più privati, siano essi abitazioni borghesi, salotti, camere da letto, buchi della serratura, fino alle proverbiali docce. Nasce la commedia sexy all’italiana.

 

 

In questo solco si inserisce, anzi si insinua senza fretta né ansia, la figura di Alvaro Vitali. Corroborato da altre comparsate dal retrogusto quasi metafisico (persino un Polanski, in Che?, nonché l’ottimo Profumo di donna con Gassman), l’attore romano guadagna piano un suo crescente spazio. Dai piccoli ruoli come bidello o alunno che sembra perennemente fuori corso (si vedano, per tutti, Classe mista, con la divina Dagmar Lassander, e L’insegnante, del maestro del settore Nando Cicero), emerge una figurina di pregnante medietà che i già citati sceneggiatori rivestono di una patina di immediata riconoscibilità, un topos fisico e psicologico in grado di garantire osmosi tra sé e quel pubblico a caccia di alternative facili agli slogan, alle P38, più in generale al terrore ed alla paura. Il colpo di genio sta nella elevazione di un personaggio da barzelletta agli altari del successo: favorito da una scrittura bassa e di pancia, che titilla i gusti dell’italiano senza troppe pretese intellettuali, spunta dal nulla, da un entroterra di fertile fanghiglia, il personaggio di Pierino. Lo studente bocciato per coerenza intellettuale, il discolaccio in perenne disaccordo con grammatica e sudore ma in perfetta comunione con i frizzi volgari di una romanità che crede di prendersi gioco del mondo. Pierino è una maschera perfetta per i tempi con i quali interagisce, il riscatto della mediocrità, uno sberleffo non in punta di fioretto ad ogni intellettualismo non richiesto, l’eroe popolare che ha in mente una sola cosa (non lo studio, non la patria, non la famiglia, nemmeno il calcio e lo sport; resta una sola cosa, una unica, globalizzante pulsione) e su quella cosa chiede, rivendica ed ottiene il consenso del pubblico, la strizzatina d’occhio, la immedesimazione totale. Probabilmente, quando parliamo di cinema, parliamo di altro, ed è vero. Ma non si può dimenticare che da quella caratterizzazione dallo spettro esile la cinematografia italiana ottenne ampie ventate di respiro in un’epoca del tutto asfittica e buia.

 

 

La saga di Pierino si compone di 4 film (in uno, tentando uno spericolato colpo d’ala, si volle fare del re dei fannulloni un altrettanto inetto ed arrivista medico – Pierino medico della SAUB, per la regia di Giuliano Carnimeo-). Le ragioni della cassetta danno torto ai paladini della puzza sotto al naso, a coloro che rigettano con orrore le storielle senza capo né coda, infarcite di accessi volgari, di beotitudine scervellata, che investono di un’aura rivoluzionaria prodotti destinati a marcire nei fondi di cineteche di quart’ordine (e tali opere sono in effetti un guazzabuglio di tristezze assortite, un anticinema senza un’idea capace di vivere di vita propria o di camminare su gambe che non siano quelle di una platea parecchio atrofizzata nei muscoli cerebrali, nelle sinapsi della bellezza). E molto di quel successo riposava tra gli occhi spiritati, la voce querula e gli arti corti del fu allievo di Fellini. Alvaro Vitali da Roma che, ad un dato punto, sembrava il gallinaceo dalle uova d’oro del cinema italiano,da tutti voluto, da tutti invitato, da tutti invidiato (pensate a quanti nostri sonni avrebbe potuto turbare la visione di bellezze come la Guida, la Cassini, la Bouchet, e Santa Edwige nostra). A.V. si fece forse travolgere dal successo, dalle ospitate, dai finti omaggi di chi, sino a poco tempo prima, lo aveva trattato con il sussiego che si riserva al cuginetto simpatico ma scemo. E lo cavalcò: la sua carriera fece altri giretti e voli pindarici, Alvaro era richiesto per incarnare, di preferenza, (a)tipici soggetti “Istituzionali” ma che di ufficiale, oltre a qualche fascia o onorificenza, non avevano altro che la smodata, e sconfitta in partenza, passione per l’altro sesso, sublimata in occhiate pseudo-assassine, appostamenti da Diabolik del Quadraro, capitomboli e botte in testa (piccolo, non si sa quanto reale e sentito, omaggio al genere slapstick). Citiamo alla rinfusa: Il tifoso, l’arbitro e il calciatore (Vitali è arbitro con moglie bbona, la Carmen Russo pre-decoro borghese, pre- maternità e pre-Enzo Paolo Turchi), Gian Burrasca (un classico della letteratura per bambini rivisitato in salsa ormone adolescenziale, tanto è vero che anche il porno, più o meno negli stessi anni, si sentì in dovere di fornirne una propria rilettura), Paulo Roberto Cotechino, centravanti di sfondamento (vero e proprio cult dei bassifondi: Alvaro come calciatore brasiliano con riccioli d’oro e vocina alla Falçao, e con moglie, guarda un po’, prorompente – ancora la Carmen che in quegli anni monopolizzava l’attenzione con argomenti in parte inoppugnabili-). E poi la lunga teoria di onorevoli, politicanti da strapazzo, medici, marinai, militari: ruoli, categorie, esponenti di un’Italia ufficiale colti nelle debolezze e meschinità dell’uomo medio, sbozzati in un affresco di grana grossa (opera di un Piero della Francesca/regista/sceneggiatore/produttore molto vicino all’ancor da venire Martufello, per dirla tutta).

 

Poi, si sa come vanno le cose. Sic transeat gloria mundi. Lo stigma dell’effimero si manifesta in tutta la sua portata. Alvaro Vitali invecchia, si tenta il colpo d’ala di un ultimo Pierino, ma uno studente con le rughe è troppo anche per l’affezionato pubblico dei sempre/tardo adolescenti. Il cinema lo relega in un angolo, ne fa icona di un tempo che vuole dimenticare in fretta (rinasce il cinema d’autore, intanto, quello stesso che sarà capace di recuperare, per dire, un altro epigono della commedia scollacciata, quel Giacomo Rizzo che Sorrentino trasformerà in laido e sentenziante usuraio). Vitali sopravvive, brucia gli ultimi risparmi, probabilmente cade in depressione. Riemerge, letteralmente, dalle sentine del dimenticatoio, si immola in altre ospitate, stavolta di provincia: insieme alla moglie va nelle televisioni romane, si cala in testa quel basco azzurro con appendice rossa, ripropone fino allo sfinimento quella maschera, la sua maschera, lo studentello furbastro e ignorante che gli ha già donato la celebrità. Canta la sua canzone (“Col fischio o senza?”), si dimena con membra sempre più stanche e con voce che non è mai stata un capolavoro di intonazione. Mette molta tristezza ma comunica anche parecchia tenerezza. Perché si capisce che lui non è tipo da star system, che è soltanto una brava persona, condannato ad un’eternità senza particolari squilli o rimembranze da quella faccia un po’ così.

 

 

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