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La breve parabola cinematografica e televisiva di Nik Novecento
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Quel brutto programma chiamato “Meteore”, con i suoi testi sbilenchi, il finto entusiasmo, la rigogliosa ostentazione del nulla gonfiato sino all’iperbole, non avrebbe potuto avere l’ardore di mostrare il viso, la vita e le opere di un defunto. Eppure la meteora è proprio questo: una stella che si incendia e cade in un lasso temporale abbastanza sottile. Le meteore del cinema restano come eternate in immagini e foto che, col senno di poi, assomigliano a dagherrotipi, con i vestiti fuori moda, i capelli scolpiti oltre il tempo, le espressioni di una giovinezza destinata ad autoriprodursi all’infinito. Si parla, naturalmente, e purtroppo, di quelle meteore che compirono per intero il proprio dovere di finitezza: salirono in cielo, per un istante più o meno lungo, più o meno complesso, presero fuoco e caddero per sempre.

 

Una di queste è stata ed è il paradigma di un certo modo di concepire ed ammannire lo star-system: un personaggio, genuino il giusto, costruito un po’, senza darlo a vedere, che all’improvviso se ne va. In tempi come quelli attuali in cui, a tutti i livelli, la morte ha mostrato il proprio volto spettacolare ed attrattivo (e viene pertanto cavalcata dai professionisti del dovere di cronaca e del diritto di sciacallaggio), un giovane attore che muore sarebbe rievocato in misura ampia, omaggiato sui social, riempito di faccine tristi, di tweet sconsolati, di filmati YouTube idonei a scoprirne ogni piega nascosta. Ma nel 1987, quando la breve storia che andiamo a ricordare ebbe luogo, il dilemma era semplice: fermarsi di fronte alla morte con un commosso silenzio, al più un breve pianto, o continuare, sotto forma di omaggio, a mostrare il corpo, quel corpo ormai assente, con il rischio di determinare un corto circuito che (si è visto poi) sarebbe stato foriero di tutte le odienne brutture ed insensibilità?

 

Leonardo Sottani si chiamava, in arte Nik Novecento. Aveva il viso di un ragazzo di 23 anni, che è quello che ancora ricordiamo di lui, l’unico che potremmo ricordare. Aveva la parlata bolognese furba ma un po’ blesa, ed un candore sempre in bilico tra l’empireo della verità e gli inferi della degnazione sospetta. Faceva però indubbia simpatia: quell’insistere sulla ingenuità di fronte alla vita ed ai suoi assalti (per la verità ancora ben poco tecnologici e tutti circoscritti alla sfera della sessualità del post-riflusso e del pre-AiDS o della timidezza, che non è mai di moda), quel guardare spaurito gli altri (che, tutti, dovevano sembrargli statue di Fidia o leonini assalitori e solutori delle formule della vita) lo rendevano estremamente familare, trasversale per età e gradimento, assolutamente impermeabile (nonostante la Bologna allora rossissima) ai piccoli codici levantini della politica. Dice: ma queste cose potevano evincersi dai suoi film, da quei ruoli voluti dallo scopritore Pupi Avati che si limitavano a piccole e marginali giaculatorie, ad un perenne parlarsi addosso, all’ergere la confusione a regola esistenziale e filmica? Obiezione giusta. No, Nik Novecento emerse come personaggio della televisione, quella stessa che ne seppe spremere il residuo succo anche post mortem.

 

 

Maurizio Costanzo ha sempre avuto l’occhio lungo ed il baffo accorto, la capacità rabdomantica di sentire i puledri da audience e di allevarli con il fieno e la biada del successo. Qualche volta si è anche trasformato in Crono, crudele con i suoi stessi figli: ma non è questo il caso, a parte quel finale agrodolce. Il giornalista scoprì le potenzialità nascoste nell’esile figura di Leonardo e lo volle con sé nel padre putativo di tutti i talk-show a venire: quel “MCS” in cui le marchette c’erano eccome, ma come nascoste in un sentiero meno zuccheroso di quelli fabiofaziani. Ma divaghiamo… Nik Novecento, allora: ospite praticamente ogni sera, gli sguardi della platea borghese che erano un misto tra entomologia, curiosità ed affetto, l’amore incondizonato del pubblico da casa. Costanzo con e contro Avati: laddove il regista bolognese aveva creato per il suo giovane pupillo una breve e complice maschera, il giornalista, molto showman, lo espose, con tutti i rischi, ma anche le coccole, del caso. Un irregolare, un Joseph Merrick tutt’altro che mostruoso, una Donna Scimmia dalla simpatia e dalla carineria innegabili. Nik era una specie di oracolo fricchettone: gli si rivolgevano le domande più disparate, lui rispondeva con una intelligenza ferina ma anche totalmente random.

 

Il rischio implosione c’era, forte. E si materializzò il 15 ottobre del 1987 quando Leonardo Sottani, in arte Nik Novecento, perse la vita per un improvviso malore negli studi della televisione, dove si accingeva a registrare alcune nuove puntate del “Maurizio Costanzo Show”. Una morte sul lavoro poco bianca e molto romantica, il dazio da pagare ad una malformazione cardiaca congenita che, con il senno di poi, è facile leggere come principale responsabile di quella vena di tristezza che in lui sempre andava a braccetto con la lunarità. La morte non può essere alleata e compagna di una linea editoriale: nell’improvviso confronto tra le due entità una è destinata, absit iniuria verbis, a soccombere. In quell’autunno vinse la linea editoriale: le puntate già registrate, e che vedevano Nik quale ospite, andarono regolarmente in onda, per circa una settimana dopo la tragedia. La voce dell’attore risuonava ancora più ansiosamente lontana, le sue risposte potevano essere lette in controluce come enigmatici presagi, i suoi occhi sembravano portatori di una indicibile tristezza mai notata prima. Ecco, la picola storia di Nik Novecento andrebbe letta come testimonianza senza tempo di una ontologica diversità tra cinema e televisione: questa capace, anche inconsapevolmente, anche accompagnandosi ad ogni possibile buona fede, di oltraggiare, di svilire il ricordo in un trionfo di luci cedevoli all’audience, il cinema in grado di fungere da prezioso scrigno dei ricordi, di eternare e reiterare un’immagine sempre uguale a se stessa, con la delicatezza e la compostezza che gli derivano dalla atemporalità dei suoi apparati. I sogni non hanno orologi a rincorrerli, gli spettacoli televisivi hanno clessidre, ed una sabbia un po’ dozzinale chiamata pubblicità.

 

 

 

FILMOGRAFIA DI NIK NOVECENTO:

Una gita scolastica (1983) – Pupi Avati

Noi tre (1984) – Pupi Avati

Impiegati (1984) – Pupi Avati

Festa di laurea (1985) – Pupi Avati

Una domenica sì (1986) – Cesare Bastelli

Ultimo minuto (1987) – Pupi Avati

Strana la vita (1987) – Giuseppe Bertolucci

Sposi (1987) – Pupi Avati, Cesare Bastelli, Felice Farina, Antonio Avati, Luciano Manuzzi, Luciano Emmer

 

 

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