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Parliamo di cinema quando parliamo di Carver?
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Sillogismo. Il cinema è parola in movimento; Raymond Carver usa parole statiche, eterne, immobili; Carver non può essere cinema. Sbagliato, comunque opinabile. L’errore sta non tanto negli assunti, quanto nella conclusione: la parola di Raymond Carver (quella infiorescenza apparentemente brulla, bastevole a se stessa, di portata evocativa tutta implodente) è stata e potrà essere cinema, e del migliore e più profondo.

Rimasero lì. Si tenevano stretti. Si appoggiarono contro la porta come per ripararsi dal vento, e si prepararono al peggio”.

Pensiamo ad una frase del genere. Quanto può durare al cinema una frase così? Il tempo di una inquadratura rapida, due persone abbracciate con negli occhi un sentimento di paura. Altra congettura fallace: rileggendo la pennellata di Carver scopriamo dietro la fissità del “quadro” una montagna di non detto, lapilli sotterranei di una disperazione, cenere lavica di pensieri e gesti. C’è una storia dietro quella frase, una storia che lo scrittore si è già incaricato di dipanare, senza tuttavia scoprirne i coni d’ombra. Una coppia che entra nella casa dei vicini per ravvivare un rapporto già stanco (che Kim Ki-duk abbia letto Carver, prima di stendere in stato di grazia quel capolavoro di sceneggiatura che è Ferro 3 – La casa vuota?). La parola di Carver sembra buttata lì a caso, a registrare notizie e movimenti senza importanza, vite altrui che sono anche le nostre, nella banalità riflessa delle iterazioni eterne. Ci vorrebbe dunque un grande regista per dare spessore di celluloide a quelle sentenze dimesse che rimbombano dentro al lettore. La forza di Carver è stata, e sempre sarà, quella di schiudere pensieri altissimi nascosti nella sporcizia banale della quotidianità, fatta di troppi gin, tradimenti noiosi ed annoiati, dischi rotti, poltrone sfondate. E, vedremo meglio, alcuni (in particolare uno) ci hanno provato, a portare R.C. in quel territorio dell’eterno movimento che è il cinema. Con risultati degni di nota.

 

 

Probabilmente avete bisogno di mangiare qualcosa” disse. “Spero vorrete accettare alcune delle mie ciambelle calde. Occorre mangiare per potere andare avanti. il mangiare è una piccola, buona cosa in un momento come questo.”

L’erronea premessa va ora confutata. Carver è cinema perché sa commuovere, sa parlare ai precordi di chi abbia la ventura di incrociare le sue cronache da giornata qualunque. Cinema della specie “movimento interiore”, naturalmente, scevro di effetti speciali e artifizi retorici tipici di ogni deriva declamatoria. Cinema da camera, un Carnage molto più malinconico perché offuscato dalla sensazione di una finitezza che nasce con l’uomo e con lui morirà, mai mutando segno, anzi invadendo di sé ogni azione e reazione: la più piccola ribellione, nei personaggi di Carver, sarà sempre adulterata in radice dalla ripetitività delle cose, dall’eterno ritorno della noia, dalla lenta agonia delle speranze. Chi legga il racconto “Una cosa piccola ma buona” si sorprenderà ad avere le lacrime agli occhi; non (questo è il genio assoluto e non replicabile di R.C) in quanto colpito dalla vicenda della morte del bambino: sarebbe stato per l’autore troppo semplice ed intellettualmente disonesto forzare la tristezza insita in un accadimento del genere. Al contrario le lacrime nascono dalla constatazione, resa in frasi che sono le consuete magiche fotografie, di quanto e come la semplicità di un gesto (quotidiano, spontaneo, fatto senza retropensieri) possa infiammare la spenta vitalità di chi resta. Perché la vita, in Carver, è più forte ed affascinante della sua stessa meschinità. Ed è per questo che possiede in sé codici di eternità che, ancora, sono cinema.

 

 

Carver non amava essere definito minimalista. E le ragioni potrebbero essere quelle che si è brevemente tentato di enucleare più su. I suoi racconti miravano non tanto alla espressione raffazzonata di un punto di vista, quanto alla rappresentazione essenziale di un sentimento nascosto nelle viscere di un’azione. Agire di sottrazione non vuol necessariamente dire sottrarsi al caos. Un caos calmo certo, ma anche caldo, un agitarsi senza sosta di attese e disillusioni, un portare avanti i giorni come nella consapevolezza di aver già bruciato il loro meglio, se mai un meglio sia esistito. Portando ancora il discorso sul cinema, R.C. non avrebbe mai potuto essere patrimonio di un Ferreri, forse nemmeno di un Kubrick: l’uno venuto su a pane e surrealtà (ed i cui personaggi hanno le fattezze, eventualmente morali, del mostro e risultano pertanto comodamente decrittabili), l’altro cantore di vite al limite, incastonate in un’eleganza formale e scenica tutt’altro che minimalista o essenziale. Né appare semplice ricondurre lo scrittore ad un regista o ad una corrente cinematogrtafica predefinita e/o predefinibile.

Torna allora la domanda iniziale: come (eventualmente) trasporre Raymond Carver in un film, e più in generale al cinema? L’intuzione fu di Robert Altman: capire che quelle storie, singolarmente chiuse in se stesse, potevano, se messe insieme, andare a comporre un maestoso ritratto, un vero e proprio affresco, di una certa disperazione americana, di quella perdita di senso delle cose, di malattia della quotidianità, destinata ad affliggere un popolo forse incapace di fermarsi, più probabilmente inadatto alla filosofia del tempo che scorre. La parola secca di Carver quale filo d’Arianna dello sgomento a stelle e strisce: racconti che interagivano alla perfezione, dolenti e precisi bisturi incisi nelle carni molli di un popolo alla perenne ricerca di un senso etico. 9 racconti ed una lirica: questo è il potente America Oggi che, già nel titolo, sancisce l’immortalità dello scrittore, il suo genio senza tempo (l’America dell’oggi/domani pare la stessa dell’ieri/oggi del regista), come senza tempo è la ricerca affannosa dell’uomo di una speranza che superi la fuliggine delle 24 ore.

 

 

In seguito la ragazza disse: - Il tizio era di mezza età. Tutti i suoi averi erano sparsi sul prato. Non scherzo mica. Ci siamo ubriacati e abbiamo cominciato a ballare. In mezzo al vialetto. Oh Signore! Non ridete. Ha messo su dei dischi. Guardate questo giradischi. Ce l'ha regalato lui. Anche questi vecchi dischi. Jack ed io abbiamo dormito nel suo letto. La mattina dopo Jack soffriva dei postumi della sbornia e ha dovuto prendere un carrello a nolo. Per portare via tutta quella roba del tizio. A un certo punto mi sono svegliata. Ci stava mettendo una coperta addosso, quel tizio. Questa coperta. Sentite qua-.

Continuava a parlare. Raccontò la storia a tutti. C’era dell’altro, lo sapeva, ma non riusciva a metterlo in parole. Dopo un po’, smise di parlarne".

A monte di questa conclusione di racconto non c’è una vera e propria storia. Ma c’è, indefettibilmente, una vita. Anzi, la vita. Il cinema è (anche) vita. Concludete voi questo nuovo e più esatto sillogismo.

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