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OLTRECONFINE 28: FILM A RAFFICA - UNA PIOGGIA CHE IRRORA DI CINEFILIA IL MERCATO DELLA DISTRIBUZIONE CINEMATOGRAFICA FRANCESE, IN PREPARAZIONE DELLA QUASI IMMINENTE PRIMAVERA FESTIVALIERA A CANNES
di alan smithee ultimo aggiornamento
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Sunrise (2015): locandina

"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala." 

 

I mesi di febbraio e marzo hanno consentito a molti film di nicchia di far capolino, se non proprio di imporsi, presso la rete distributiva cinematografica francese, permettendo in tal modo a piccoli gioielli come l'indiano SUNRISE (a mio avviso il migliore del folto gruppo che troverete qui di seguito) di farsi ammirare; alcune produzioni straniere già passate in qualche festival sono pure riuscite a vedersi riservata qualche sala mentre pure un film italiano, VINODENTRO, curioso e misconosciuto in patria dove fu praticamente ignorato un paio di anni orsono, trova la sua via distributiva, forte anche della presenza di Lambert Wilson, qui in patria "gauloise" considerato, giustamente, come una istituzione, in un paese che cerca di fornire una "chance" ad ogni avventura produttiva. Onore al merito!

Spazio pure ai blockbuster, spesso d'autore, utili a riconfermare le doti di registi molto interessanti e lanciati come John Hillcoat (Codice 999), Jeff Nichols (Midnight Magic), senza tuttavia tralasciare l'ottima prova del poco noto Dan Trachtenberg, col suo notevole ed incalzante 10 CLOVERFIELD LANE, tutt'altro che un semplice sequel, tutt'altro che una sbiadita ritrattazione.

E pure al curioso, insolito, e, per i "veri" tifosi, probabilmente scandaloso e rinnegato "FULLBOY", ovvero il mondo del calcio visto dall'interno degli spogliatoi, tra tensioni emotive, relax, atteggiamenti vanesi e nudità esibite con la naturalezza di chi è convinto di non essere osservato o non ha nulla da nascondere.

Ampio spazio, come è doveroso, ai film francesi o comunque francofoni (il primo clown di colore in Mister Chocolat, il ritorno della coppia cinematografica scatenata e satirica Délepine/kervern con Saint Amour, un gradito ritorno del vecchio solo anagraficamente Paul Vecchiali con C'est l'amour); ma il film del cuore, oltre al citato bellissimo Sunrise, è stato per me WANDA: film cult e d'epoca della precocemente scomparsa moglie di Elia Kazan, Barbara Loden, una deriva on the road intrapresa da una donna graziosa, forse un pò inetta, ma orgogliosamente stufa di essere considerata solo un oggetto alla mercé dell'arroganza e della lussuria maschile: una "Louise senza Thelma", mi è piaciuto definirlo, per un film scomodo, anticipatore di tematiche forti e purtroppo pressochè sconosciuto, ma che forse anche per questo motivo mi ha decisamente conquistato. Buona lettura, perché c'è ancora molto altro, forse troppo...ma tant'é....

locandina

Roschdy Zem, piuttosto noto (almeno in patria) attore e regista francese, dirige un accurato interessante biopic su un personaggio che godette, ad inizio '900, di una celebrità notevole quanto effimera: una fiammata di notorietà che lo rese il paladino del divertimento per adulti e soprattutto bambini, ed una fonte di incassi sicura per i suoi datori di lavoro: un boom potente quanto una fiammata in un covo di paglia, ma altrettanto effimero nella durata.

Rafael Padilla, cubano di origini umilissime, viene notato da un celebre stimato clown francese inserito in un piccolo circo che sta percorrendo tappe nella vicina Spagna. I due divengono amici e l'uomo di spettacolo intuisce che le movenze dell'aspirante collega possono riuscire ad attirare con buoni risultati il pubblico, che tra l'altro non è abituato a vedere comici di colore.

Dopo quanche passo incerto, il successo è garantito ed apre al duo comico porte sempre più prestigiose nei circhi più rappresentativi e affermati della cerchia parigina.

Ma mentre il clown bianco è schivo, previdente, rispamiatore e poco propenso a spendere e spandere le proprie ricchezze, oltre che molto legato al suo amico, forse anche - il film non chiarisce appieno, e fa bene, ma lascia intuire che il sentimento di amicizia da una parte sfiori altri e più complessi stati d'animo - geloso di come questi si getti a peso morto verso le tentazioni e i vizi, pasdsando di donna in domìnna e ferendo intimamente anche alcune delle sue giovani e belle amanti, il nero gigantesco ed irrefrenabile è da una parte il fulcro più appariscente di una comicità in realtà orchestrata e diretta dall'abilità dell'altro, che si mette in sordina accettando il ruolo di spalla per ragioni di spettacolo.

E come un'altalena l'ascesa di uno corrisponde alla caduta dell'altro, il bianco, dimenticato e tornato agli spettacoli minori, mentre Chocolat, nella prima decade del nuovo secolo, doventa una star d'eccezione, salvo poi rovinarsi con i debiti e le tentazioni del bel vivere.

Zem dirige con eccellente professionalità un biopic ben inserito in un contesto storico molto preciso, e si avvale dell'ottima e consolidata prestanza fisica e mimica dell'irresistibile Omar Sy, una vera star francese e non solo. Ma è James Thiérrée il vero portento: l'uomo vero del circo che si presta anima e corpo a rendere un personaggio comico ma anche molto malinconico e solo, che rappresenta ala perfezione lo stereotipo più poetico e stimolante della figura del pagliaccio. Uno dei molti nipoti di Chales Chaplin, Thiérrée è nato da una famiglia circense e pertanto gioca in casa un ruolo che lo vede tuttavia anche intenso attore drammatico.

Non sono certo un contorno ma validi ulteriori attributi del film, molti altri attori noti o notissimi del cinema d'oltralpe: la stupenda Clotilde Hesme (definita con spregio "la femme au negre") , Olivier Gourmet (titolare del circo più prestigioso di Parigi), Noémi lvovsky e Frédéric Pierrot, coppia circense da cui tutto ebbe origine, Alice de Lancquesaing nel ruolo della giovane amante di Chocolat.

VOTO ***1/2

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Storie di donne e di sofferenze, di brutalità ed ingiustizie ai danni di queste per opera di una società prettamente maschilista: in fondo molto del cinema della valida cineasta Anne Fontaine (Gemma Bovary la sua ultima e precedente prova) verte su quello, alternando abilmente i toni del racconto, non sempre ed esclusivamente rappresentativi di un dramma cupo e inserito in un contesto altamente drammatico come in questo caso.

Al temine della Seconda Guerra Mondiale, Mathilde è un giovane medico che collabora con la Croce Rossa francese ed assiste i profughi dei ghetti polacchi sopravvissuti agli eccidi.

Quando una suora un giorno la convince a seguirla dopo insistenze ed un comportamento disperato, la donna scopre che in un convento molte delle suore che ci vivono hanno subito ripetute violenze sessuali in seguito alle spietate ingerenze delle forze dominatrici. Dopo aver aiutato una di esse a partorire, la donna cercherà di far loro risolvere il dilemma interiore, ma anche pratico, che le vede "spose immacolate di Dio" con un fardello insopportabile da accettare, ma anche di fronte a nuove innocenti prossime vite a cui dover rispondere materialmente e con la coscienza.

Inoltre un'azione inconcepibile a cura della madre superiora verrà alla luce seminando sconcerto e indignazione nella donna, atea ma animata dai più comprensibili sentimenti di umanità e solidarietà.

Un thriller della coscienza molto ben ambientato che fa luce su uno dei molti drammi che si intersecano nel risvolto di una catastrofe come è stata quella dell'eccidio di un popolo ad opera di un altro.

Lou de Laage è bellissima, intensa e pertinente al ruolo; la affianca una vera e propria star polacca di grande spessore interpretativo: Agata Kulesza, vista ed apprezzata in Ida, ma pure in These daughters of mine. Vincent Macaigne, ottimo attore e fresco regista, appare in un ruolo di contorno per lui inconsueto, vestendo per la prima volta (almeno che io sappia) panni non contemporanei. 

VOTO ***1/2

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Gabriel, un ex poliziotto quarantenne spiantato e con una figlia teenager al seguito, trova per caso, grazie ad un usuraio a cui deve soldi, un impiego misterioso ma molto ben remunerato, ed apparentemente senza particolari rischi: deve prelevare, ogni volta che verà contattato da una voce femminile professionale ma inflessibile, una valigetta dal contenuto misterioso e trasportarla ove gli verrà richiesto, in ogni angolo del mondo. La vita dell'uomo cambia subito, travolto dagli agi che il nuovo compenso prevede.

ma quando alcune consegne cominciano a complicarsi, il suo istinto di poliziotto avrà il sopravvendo, coinvolgendo altres^ una bella ex collega determinata anche più di lui a venire a capo dell'enigma complicato e dai riscolti incredibili.

Cosa c'è nella valigetta? Tranquilli, alla fine vi verrà svelato, ed il film, che nsce come un thriller dai risvolti introspettivi, si trasforma arricchendosi di risvolti esoterico-fantastici magari discutibili, ma che non finiscono per travolgere completamente il buon senno di un discorso che rimaneva legato ad una crisi umana e professionale, e ad una deriva materiale e psicologica apparentmente senza freni.

Bravo, e vera forza del film, il sempre efficace Jérémie Rénier: la sua recitazione nervosa risulta vincente e plausibile. In un ruolo minire, ma vero fulcro sinistro e inquietante della vicenda, riconosciamo il spesso torvo ed enigmatico, se non davvero inquietante, Bouli Lanners. 

Opera terza di un regista di nome Jean Baptiste Andrea che ancora non conosco, La confrérie des larmes non pretende, per fortuna, di risultare credibile, ma sa destare l'attenzione lungo tutto il suo tragitto complesso e tortuoso in molte location esotiche od oltreoceaniche. Alla fine il regista si prende sin troppa cura di spiegarci tutte le dinamiche che possano aver portato ad una soluzione del mistero, e il film si scioglie in un finale sin troppo consolatorio e perbenista. Brindiamoci sopra! ..... verrebbe da pensare.... ma vi assicuro che è meglio di no..... vedere per capire...  

VOTO ***

I protagonisti del calcio senza il calcio né un campo sportivo ove sfogarsi (eccetto una fugace apparizione verso la fine durante un allenamento, ma questione di pochi secondi): strano documentario questo Fulboy.

Strano perché non si capisce bene a chi sia diretto: non certo ai fans sfegatati di calcio, che penso se ne infischino di sottigliezze tipo le tensioni emotive e le ansie da prestazione affrontate “sul corpo” dei singoli calciatori professionisti di una regolare squadra argentina, privilegiando, forse non a torto, il lato agonistico o talvolta quello più  grevemente da tifoseria che accomuna come un gregge o divide come in guerra. Uomini giovani, i quali si mettono epidermicamente, oltre che letteralmente a nudo, aprendo – anzi spalancando le porte alla camera del regista Martin Farina, che si addentra senza clamori, risultando quasi invisibile, restituendoci un clima intimo da parte di un gruppo di giovani che si confronta, scherza, cura la propria immagine non senza un cenno di vanità che potrebbe mettere in imbarazzo in altri contesti (o squadre più famose) o creare i presupposti per un clima dalle atmosfere tendenziosamente erotiche (o omoerotiche, a seconda del pubblico al quale si rivolgono).

Non manca anche qualche accenno ironico quando la macchina si sofferma sui segni che lo sforzo fisico lascia sui corpi giovani e levigati dei calciatori: vittime privilegiate di un mondo che li celebra ed alleva come cavalli di razza nati per vincere (e far guadagnare), molti di loro provenienti da un mondo e da realtà i cui segni fisici e morali sono ben altra cosa che due piaghe tra le dita dei piedi e qualche ferita da calcio alle caviglie.

Insomma un documentario a suo modo spiazzante, che sin dall’inizio non si sa “se ci faccia o se ci sia”, e ad ogni buon conto una operazione quantomeno originale e sfidante: raccontare il mondo del calcio in modo così deliberatamente intimo da escludere completamente lo sport a vantaggio dell’uomo.

VOTO ***

Cronaca di un affondamento inevitabile, e dei tentativi strenui e coraggiosi di mettere in salvo una trentina di marinai dell’equipaggio di una grande petroliera, spezzatasi letteralmente in due a causa degli effetti di una terribile tempesta che, nel lontano 1952, colpi e devastò le coste del New England.

Da un eroico fatto vero, il regista medio (ma Lars e una ragazza tutta sua era qualitativamente ben altra cosa rispetto alla manciata di altre pellicole del cineasta) Craig Gillespie trae spunto per fornirci una dettagliata, drammatica e tecnicamente notevole cronaca di un’impresa apparentemente possibile, ma che al contrario è divenuta una delle più importanti e riuscite operazioni di salvataggio realmente esistite.

Le fasi dell’inabissamento inesorabile del gigante dei mari e il percorso opposto di avvicinamento della piccola motovedetta che sfida onde da primato pur di raggiungere la sua meta, sono infatti piuttosto concitate e di un realismo che convince.

Dello stesso avviso non si può essere quando il film affronta l’aspetto sociale e umano che descrive la società immacolata e tutta pensieri timorati di un’America bigotta che appare irritante, oltre che inverosimile. Come ridicola ed inverosimile appare l’attrice-bambolina Holliday Grainger che, bloccata in auto sotto una tempesta di neve, esce a chiedere soccorso in vestitino leggero e maniche corte.

Fiumi di melassa insopportabile invadono lo schermo, avvilendo l’impegno di attori oltremodo ed altrove spesso convincenti del calibro di Chris PineEric BanaBen Foster e soprattutto Casey Affleck, costretti qui a destreggiarsi e a soccombere non tanto a causa della furia della natura, ma piuttosto strangolati dalla fastidiosa incapacità di chi scrive i testi di rappresentare una società americana di sessant’anni orsono senza inutili fastidiose edulcorazioni e luoghi comuni banali e dolciastri sino a risultare altamente indigesti.

VOTO **

Premio della critica alla Mostra del cinema di Venezia nel lontano 1970, all’epoca della sua uscita, e riapparso nuovamente al Lido nel 2010 nella sezione Fuori Concorso, esce in qualche sala francese, in edizione restaurata, il troppo misconosciuto road movie femminista Wanda, diretto ed interpretato dalla sciroccata e platinata Barbara Loden, moglie compianta del grande regista Elia Kazan (morì appena quarantottenne nel 1982), anche sua interprete in un ruolo di contorno ma non marginale ne Splendore nell’erba.

Un film a suo modo rivoluzionario: uno dei primi casi di regia, soggetto, sceneggiatura ed interpretazione in capo ad una donna, e storia drammatica e pessimista di una donna che decide di ribellarsi e di fuggire, senza in realtà sapere dove andare, cosa fare, e su chi potersi appoggiare e trovare riparo e conforto.

Un road movie insolito sullo sfondo disadorno e poco attraente un’America industriale dei margini che produce in silenzio per farsi bella e rendersi presentabile ed attraente altrove.

Wanda abbandona marito e due figli ancora bambini e si rifugia per una notte dalla sorella: si presenta in ritardo all’udienza di separazione, e in bigodini: conferma freddamente di non essere capace di allevare i due bambini e si arrende al ruolo di madre, a quello di moglie, e fugge senza meta. Caricata e scaricata come un sacco da alcuni balordi che si sollazzano e se ne disfano subdolamente, Wanda entra per caso in contatto con un ladruncolo nel pieno della sua azione e decide di seguirlo, disamorata verso ogni aspetto o sollecitazione, perfettamente cosciente di sentirsi inutile ed inetta a qualsiasi attitudine lavorativa.

Una Louise senza Thelma insomma, ed in netto anticipo sui tempi: una donna tutta sola che si aggrappa ad ogni appiglio pur di riuscire a rimandare il momento in cui assumersi le responsabilità che la vita quasi sempre ci chiede di affrontare.

Bellezza sofisticata e vistosa, ma fine e tutt’altro che volgare, la Loden attrice si annulla espressivamente come a rendere ancora più atono ed impersonale il tratto che la contraddistingue e che la qualifica come essere umano incapace di prendere in pugno la situazione, certa solo di ciò che non vuole ma completamente insicura ed incerta sul nuovo sentiero di vita da intraprendere.

Un film piccolo, ma fondamentale e bello, triste e struggente fino alla disperazione e ritratto, anzi baluardo timido ma risoluto, di quella parte di società americana che non è riuscita a cavalcare l’onda dell’orgoglio e dell’iniziativa che eleva e rende liberi e indipendenti.

VOTO ****

FESTIVAL DI CANNES 2015 - UN CERTAIN REGARD 

Una spiaggia sabbiosa, le figure di un uomo e una donna che si avvicinano uno all’altra, mentre un cane vecchio ed affettuoso barcolla tra di loro scodinzolando ottimista ma senza un vero motivo.

Una coppia sulla carta perfetta, che tuttavia deve fare i conti con le regole vincolanti di una società che stenta ad aprirsi verso una parità di trattamento tra uomini e donne.

Nahid è una bella trentacinquenne divorziata e con un bambino di 10 anni. L’ex marito è un trafficone sempre ai margini della legalità, ma la legge sta dalla sua parte quando si tratta di decidere chi ha il compito di occuparsi del minore: una decisione ai limiti del sadico e lesiva dei diritti naturali che ispirano la famiglia naturale, ma perfettamente legale nel diritto di un paese come l’Iran, prevede che l’uomo possa concedere l’affido alla moglie se questa tuttavia si impegna a restare single.

Pertanto la donna, per scongiurare l’affido del ragazzo ad un padre irresponsabile e scapestrato, tace la sua relazione con un affascinante e pacato vedovo, con cui la donna si vede di nascosto e all’insaputa di tutti, contraendo persino con lui un matrimonio di prova a scadenza ravvicinata che la legittimi a frequentarlo, ma nello stesso tempo la tuteli contro le azioni crudeli, tendenziose e vendicative dell'infingardo ex consorte.

Ma quando la clandestinità verrà meno per un caso fortuito mosso da un destino beffardo, tutte le problematiche verranno a galla minando equilibri già precari e incitando contrasti familiari e dispute che finiscono per premiare gli stolti e coloro in malafede, punendo i giusti e chi agisce in fin di bene.

Opera prima e coraggiosa, intransigente ed accorata della regista iraniana Ida Panahandeh, che si dimostra una abile valorizzatrice di personalità e valida direttrice di attori, che qui danno il meglio a rappresentare una vicenda di ripicche dove certi adulti si dimostrano talvolta decisamente più irresponsabili ed egoisti dei bambini che dovrebbero allevare e responsabilizzare agli impegni ed ai doveri della vita.

Nahid è stato presentato al mondo tramite la sezione Un Certain Regard del festival di Cannes 2015 riscuotendo apprezzamenti da parte della critica ufficiale.

VOTO ***1/2

 

Dopo la commedia bizzarra e spassosa “La merditude des choses”, successo a Cannes di circa dieci anni fa con tanto di corteo di ciclisti nudi in piena Croisette, e dopo il successo del melodrammatico Alabama Monroe, candidato all'Oscar a cui La grande bellezza ha soffiato (a mio avviso pertinentemente) l’ambita statuetta, torna a farsi vivo il noto e talentuoso regista belga Felix Van Groeningen, con un film sulla tormentata genesi e conduzione di un noto locale nella città di Ghent.

Tale club, che diverrà il fulcro delle attività musicali rock-underground e vero e proprio richiamo cittadino di rilievo, ha il pregio di riunire due fratelli da tempo interdipendenti e reciprocamente disinteressati uno dall’altro: il più giovane, Jo, orbo di un occhio per un banale quanto cruento incidente sui banchi di scuola, gestisce un piccolo locale chiamato Belgica, mentre il più maturo, Frank, si divide indaffarato tra la gestione non proprio brillante di una rivendita auto e un canile, aperto su insistenze della moglie.

Stufo di quei due lavori, Frank decide di farsi rivedere dal fratello e di aiutarlo nella gestione. Le sue manie di grandezza lo portano a fantasticare su un nuovo grande locale che si trova nei pressi dell’abitazione del fratello: in poco tempo lo rileveranno e lo ristruttureranno dando vita ad un nuovo “Belgica” imponente, che, frequentato dalle più note star del rock nazionale, attirerà clienti a ondate.

Ma non tutto andrà veramente per il meglio e, tra tirate di coca e eccessi incontrollati, creste e spese dissennate, la gestione del locale creerà un buco incolmabile che produrrà anche la definitiva separazione tra i due fratelli.

Musicato efficacemente ed energicamente da un gruppo chiamato Soulwax che ne ha curato e firmato l’intera dinamica ed avvincente colonna sonora, Belgica segue la vicenda altalenante del successo e della rovinosa caduta forte di un ritmo sostenuto e di una regia attenta a valorizzarne ritmi e scansione delle vicende: presentato all’ultimo Sundance festival, il film si è aggiudicato, con una condivisibile pertinenza, il premio della Migliore regia, riservando a Van Groeningen un probabile ulteriore successo ed un tassello positivo che va ad aggiungersi alla sua ancora giovane ma promettente carriera di cineasta.

Nel ruolo dei due fratelli, Stef Aerts nel ruolo del giovane e smilzo Jo, dinamico, sveglio e realista e dallo sguardo condizionato dalla palpebra semichiusa e Tom Vermeir in quelli del corpulento e travolgente, caotico e un po’ dispotico Frank, appaiono molto validi e credibili per quanto così fisicamente eterogenei e quasi opposti per ricoprire il ruolo di due fratelli separati dalla vita e riunificati dall’opportunità e dal successo.

VOTO ***1/2

Piove a Mumbay: un fiume d’acqua che cade incessantemente dal cielo scuro e infradicia cose e persone lungo notti senza fine, scandagliate da luci al neon che deformano i colori e rendono tutto seppiato e condizionato verso una tonalità marroncina che rende vivo e palpabile un senso di allarme e di disagio.

Presso un commissariato di un quartiere povero che si sviluppa lungo un groviglio di strade intricate delineate e circoscritte da baracche fatiscenti, un ispettore dei servizi sociali trascorre tra la fissità atona della banale quotidianità del turno serale, attimi ideali per portare la mente verso le tragedie ed i dispiaceri personali che tormentano la sua vita familiare: la sua figlia bambina infatti, è da qualche anno scomparsa improvvisamente da scuola mentre usciva con le compagne: prelevata misteriosamente da qualcuno che, come accade in modo sconcertante in India, preleva minorenni per poi rivenderli ad un mercato clandestino dello sfruttamento.

Una storia devastante ed inaccettabile che non dà pace all’uomo né lo fa rassegnare di poter ritrovare l’amata bambina: una tragedia che ha minato la sua vita e fatto come impazzire la sua giovane consorte, regredita ad uno stato infantile forse per rinnegare una realtà inaccettabile.

Quando una notte, grazie ad un ragazzino spaventato, appostato perennemente davanti al commissariato in atteggiamento pronto a rivelare qualcosa, salvo poi nascondersi in un mutismo indecifrabile, l’uomo intuisce la presenza di qualche losco traffico “umano” nelle vicinanze del suo luogo di lavoro, inizia un’indagine che impegna l’uomo in una ricerca con la quale egli si illude di riuscire a salvare le vite di molti innocenti e di ritrovare finalmente la sua adorata figlioletta scomparsa.

Ecco dunque che, tra giochi d’ombre all’interno dei contorti vicoli del quartiere, che precedono fuggitivi misteriosi (scene meravigliosamente orchestrate, inseguimenti che attanagliano e mettono i brividi ricordando certi chiaroscuri da cinema degli albori o anche una versione seppiata di chiaroscuri alla Bela Tarr), si dipana un inseguimento senza sosta, come senza tregua è la pioggia che flagella quel limbo sospeso e asfissiante, tortuoso e labirintico come un intestino intricato senza via d’uscita, tra l’uomo e gli ipotetici colpevoli. Salvo arrivare ad un locale dalla scritta rossa, il Sunrise, entro il quale è forse racchiusa la risposta a tutto il mistero: … o così ci sarebbe piaciuto che potesse essere.

Realtà cruda ed inaccettabile e sogno paradisiaco si alternano nella mente sconvolta del nostro pietrificato protagonista, coinvolto in una corsa contro il tempo nei meandri oscuri di un sottosuolo che appare come il viatico per la discesa verso gli inferi.

La realtà poi riporta tutto in zona dolore, e quello che resta è solo il ricordo dei bei momenti trascorsi in serenità lungo una spiaggia sabbiosa da sogno.

Sunrise segna l’esordio al fulmicotone nel lungometraggio a soggetto da parte dell’indiano cinquantenne Partho Sen-Gupta, ed è l’ennesima riprova che l’India non significa, cinematograficamente, solo Bollywood, magniloquenza, colore e sentimenti dolciastri.

Qui ci troviamo di fronte al nero marcio e corrotto di una società che sta franando in un vortice di depravazione senza fine, dove alla disperazione si aggiunge l’orrore e la brutalità verso i più deboli ed indifesi.

Scenografie studiatissime e di grande effetto, giochi d’ombre magistrali che rendono il film un noir affascinante che ricorda certi riusciti adattamenti americani anni ’40; un protagonista sconvolto e perennemente atono la cui fissità traduce perfettamente l’angoscia e l’orrore di chi sa che ormai non c’è più nulla da salvare: l’innocenza è sopraffatta dal bieco sfruttamento e dalla libido di una società allo sbando, pronta solo a godere a spese altrui.

VOTO ****1/2

FESTIVAL DI BERLINO 2016 - CONCORSO

Storia tenera, buffa e scanzonata, nello stile che ha reso famoso e piuttosto grande ed apprezzato il duo registico Kervern/Délépine (quelli dei due strepitosi Louise Michel e Mammuth), e che porta al centro dell'azione un altro duo piuttosto insolito ma azzeccatissimo: Gérard Depardieu e Benoit Poelvoorde, padre e figlio allevatori che partecipano, come ogni anno, alla fiera dell'agricoltura di Parigi. Il primo deciso a vincere un premio grazie al suo mastodontico toro pregiato, l'altro girovagando cialtrone tra gli stand e pensando solo ad ubriacarsi e a fare il cascamorto con stegiste e altra fauna femminile.

Due personaggi, padre e figlio, apparentemente opposti ed un pò ostili o diffidenti l'uno verso l'altro, ma in realtà molto simili. Se ne accorgeranno nel momento in cui intraprenderanno un viaggio all'interno della Francia rurale, attraversando la realtà produttiva (vinicola e non - il Saint Amour è un pregiato vino rosso francese) di un paese che ha ancora un legame molto saldo con lo sfruttamento delel risorse naturali e la campagna.

Guidati da un eccentrico tassista, pure lui molto più fragile e complessato di quanto lasci intendere (è il bravissimo e stralunato Vincent Laoste), i due uomini scopriranno una realtà ancora più varipinta di quelli che sono i loro arditi o inusuali comportamenti o modi di vivere: le bizzarrie della vita di provincia, salvo poi trovare in Venus (la sempre magnifica e seducente, qui rossa fiammante e abile cavallerizza, Celine Sallette) la donna con la quale ritrovare, tutti e tre assieme, un equilibrio perso o addirittura mai raggiunto.

Commedia grottesca e spiritosa, goliardica e satirica, affastellata di apparizioni di lusso (lo stesso Kervern, attore abituale e spesso esilarante in molte altre occasioni, Chiara Mastroianni, Andrea Ferreol, pure lo scrittore Michel Houellebecq, già attore protagonista con il duo di registi in una loro esilarante precedente avventura - Near Death Experience - qui nel ruolo di un imbarazzato e laido titolare di Chambre d'Hotes che accoglie i tre viaggiatori, e nasconde subdolamente nello scantinato un bel fardello di "ospiti" clandestini troppo rumorosi per non venire sgamati nottetempo) e dominata dal virtuosismo straripante di un trio attoriale davvero eterogeneo ma ben congeniato ed amalgamato, in cui ogni sfaccettatura e caratteristica dell'uno serve a completare l'insieme dei tre. Presentato nella sezione Concorso a Berlino 2016, il film sta riscuotendo una buona accoglienza di pubblico nelle sale francesi.

VOTO ***1/2

A poco tempo di distanza da Nuits blanches sur la jetée, presentato in Concorso a Locarno 2014,  torna il celebre anziano regista corso Paul Vecchiali con una sorta di film “gemello” al suo predecessore: pur non essendo quest’ultimo, a differenza del precedente di cui sopra, un libero adattamento da un’opera famosa (era infatti un adattamento da Le notti bianche di Dostoevskij, con ambientazione marinara-portuale in Costa Azzurra ai giorni nostri).

Forte dei medesimi due convincenti attori protagonisti di Nuits blanches, ovvero Pascal Cervo eAstrid Adverbe, l’anziano cineasta ci racconta, sempre ambientato nel sud della Francia ove pure egli vive e soggiorna spesso, un’altra concitata ricorsa all’amore, che accoppia, “scoppia”, unisce e divide coppie apparentemente irreprensibili e consolidate, quando il sospetto e la mancanza di fiducia vengono meno e scatta la scintilla della vendetta e della reazione, scatenando tutta una manovra a catena che sconvolge equilibri apparentemente indissolubili e collaudati.

Quando Odile inizia a sospettare che l’avvenente marito la tradisca, la donna, per nulla convinta delle concitate e articolate spiegazioni del consorte, decide di vendicarsi e, conosciuto un ragazzo di nome Daniel, prima casualmente attraverso un’intervista televisiva in un canale privato, e poi di persona, decide di vendicarsi e di sedurlo, diventandone amante.

Il particolare più eclatante è che il ragazzo non è single, ma divide casa e vita con un uomo, il barbuto e possente Albert, gelosissimo del suo ragazzo.

L’episodio sconvolge non poco gli equilibri un tempo saldi di entrambe le coppie, e coinvolge i due protagonisti in una passione incontrollata che avrà conseguenze drammatiche e a dir poco impensabili.

Ciò che conta, soprattutto il Vecchiali, non è cosa viene raccontato, ma lo stile e la padronanza in cui tutto ciò viene rappresentato.

E la messa in scena semplice, lineare, rohmeriana si potrebbe azzardare, certo a bassissimo costo, si fa notare per scelte stilistiche ben precise, come la predilezione per i campi lunghi e per le soggettive tutte mirate su uno dei due antagonisti, alternate solo dopo decine di minuti all’altra parte del contendere.

Gli scherzi degli amori sottovalutati e nati per gioco si fanno sentire e diventano una miccia pericolosa in grado di far esplodere prima il fuoco di una passione che appariva a prima vista improbabile, per eterogeneità dei personaggi e la apparentemente scarsa affinità sessuale.

Incurante di apparire eccessivo nella costruzione dei sui personaggi, timidi all’inizio, poi sempre più disinibiti e infuocati, estroversi ed esibizionisti man mano che il sentimento che li guida prende definizione, Vecchiali ci esibisce due personalità dai comportamenti estrosi a partire dal modo di vestire: il vestito rosso fuoco di Odile e la giacchetta variopinta e smanicata “alla Querelle” di Daniel fanno parte di un’eccentricità calcolata e necessaria a rendere palpabile la necessità di manifestare tutta la carica (ormonale e mentale) che li muove e li motiva.

Vecchiali, quasi 86enne ed in gran forma, scrive, dirige, si riserva un piccolo personaggio da interpretare (è il genero di Odile) e si occupa pure delle musiche, avendo scritto i testi (italiani) delle canzoni della festa all’aperto, in occasione della quale Odile si scatena in una danza senza freni né inibizioni.

VOTO ****

FESTIVAL DI CANNES 2015 – UN CERTAIN REGARD

-Restando sul personaggio: "L'altra Maria": quella che nessuno conosce e che custodisce un segreto che diviene l'una vera propria ragione di vita della ragazza.

-Allargando il contesto, ed il drammatico panorama: bambini alla guerra; costretti a crescere troppo in fretta, tra i massacri di una guerra che è una vera e propria guerriglia urbana senza sosta, combattuta per le strade e persino nelle foreste, luoghi impervi che vengono bene per celarsi alla parte avversa.

Lo stato colombiano arruola persino i minorenni, uomini o donne che siano, imponendo a queste ultime, nel caso siano rimaste incita, di abortire.

Maria ha 13 anni e le viene affidato il compito di portare in salvo il figlio neonato del suo comandante e dell’unica soldatessa del plotone col permesso di partorire. Per far ciò parte con un soldato bambino e due adulti verso un faticoso viaggio nella foresta, funestato di agguati e costretta a prendere una decisione che si rivela letale. Senza contare che la “bambina” nasconde dentro di sé (letteralmente) una gravidanza alla quale, nonostante tutto, ella non vuole rinunciare, frutto delle attenzioni insistite e sin moleste del suo capo di missione.

Lungo tutto un calvario percorso tra le insidie di agguati e un nemico perennemente alle calcagna, Maria riuscirà a trovare la via della fuga e a mettere in qualche modo in salvo il frutto in gestazione che il regime vuole toglierle in nome di un regolamento disumano di stampo militaresco e dai tratti disumani ed efferati.

Alias Maria, opera prima del regista colombiano Jose Luis Rugeles Gracia, ha un approccio potente e disperato come quando la vita , sempre in bilico sul burrone, riesce a spuntarla per un soffio a discapito delle mille insidie apparentemente fatali: la disperazione di Maria è palpabile in molte scene e traducibile in modo esemplare attraverso lo sguardo inorridito e quasi atono della giovane, messa alle strette dai tragici eventi che la travolgono, oppressa da un senso di responsabilità per l’incarico ottenuto (la salvaguardia di un neonato non suo) e devastata dall’idea di essere scoperta nel suo stato di gravidanza celato ad ognuno per evitare che la creatura che si sta formando le venga estirpata a forza.

Un film spiazzante, crudo e crudele ma realistico, a tutti gli effetti molto riuscito sull’orgoglio di essere donna e dignitaria di una scelta che la vede opporsi a regole ben precise e all’intransigenza di un regime militare barbaro e disumano a cui nessuno pare in grado di opporsi.

VOTO ***1/2

 

A volte si può anche esagerare: mescolare generi, horror e fantascienza in questo caso: claustrofobia e spatter, attesa infinita cui segue un concitato, esagerato epilogo finale quasi grottesco, in fondo sin un po’ ironico.

Tutto questo è 10 Cloverfield Lane, opera prima bizzarra, rischiosa ma che sa rendersi accattivante ed appassionare, di Dan Trachtenberg, prodotta da quella volpe di JJ Abrahams.

Una giovane donna scappa da una sua situazione familiare che intuiamo complicata, se non drammatica. Strada facendo, improvvisamente e fuori dai centri abitati, l’auto subice un incidente: un violento tamponamento la catapulta fuori strada facendola capottare e rendendo priva di sensi la guidatrice.

Che si ritrova, chissà quanto dopo, al suo risveglio, intubata e legata in una stanza senza finestre.

Chi l’ha chiusa li? E perché?

Un uomo corpulento e dallo sguardo inquietante (per forza, è il gigantesco – in diverse accezioni –John Goodman) l’avvicina e le fornisce una spiegazione che potrebbe apparire sinistramente e comicamente assurda, o tragicamente ancora più inquietante di ciò che le è appena occorso.

A chi credere? All’istinto che suggerisce allerta o diffidenza, o alle parole melliflue dello sconosciuto, la cui massiccia presenza e la severità dei tratti non aiuta a fornire rassicurazioni al riguardo?

Tra horror e fantascienza, il film furbetto ed astuto gioca bene le sue carte, procedendo nella sua storia senza rivelare troppo presto i misteri ambivalenti che costringono due, anzi tre persone a condividere una sorta di bunker superattrezzato, ma non per questo meno inquietante e claustrofobico.

In un crescendo di tensione, veniamo trasportati all’interno della testa (affannata, anzi dilaniata dai dubbi e dalla diffidenza a cui le estreme e bizzarre circostanze inducono) della nostra dinamica e tenace (suo malgrado) protagonista, a cui la brava e naturalmente bella Mary Elizabeth Winsteaddà volto e corpo con una buona credibilità, risultando bella senza essere impossibile, e dunque di conseguenza improbabile. Il suo volto spaventato ma non domo, la tenacia della sua protagonista nell’affrontare ogni situazione al limite, incastrata nei cunicoli delle prese d’aria, in procinto di improvvisarsi cucitrice di ferite aperte, tenace paladina pronta ad affrontare di petto il nemico come una nuova Ripley-Sigourney Weaver più burrosa ed apparentemente fragile.

Dal canto suo il gigante John Goodman dà prova di grandezza rappresentandoci una figura controversa e spaventosa così riuscita come non si vedeva dai tempi del meraviglioso Barton Fink dei Coen.

E poi certo, nel finale le soluzioni inducono un po’ a sbroccare, quando proprio il gioco non può più essere tirato avanti ancora per le lunghe e in qualche modo le conclusioni devono essere tratte: ma forse proprio grazie all’assurdità dell’epilogo, il gioco sembra proprio funzionare e il film risulta comunque una buona macchina d’intrattenimento in grado di farci salire su una traiettoria a montagne russe tra suspence, inquietudine e un po’ di sano divertimento da blockbuster di genere che accumula a non finire, ma riesce a non strafare troppo e a mantenersi in zona dignità, anzi di più, rischiando di divenire un piccolo cult del nuovo decennio.

VOTO ****

 locandina

C'è grande attesa per il regista indipendente americano Jeff Nichols, dopo il successo di critica e di nicchia dei suoi due precedenti film Take Shelter e Mud. e ora atticissimo, già alle prese con la post produzione del suo prossimo lavoro, loving, Loving, sempre col fido Shannon e ancora con Edgerton tra i protagonisti.

Una storia di fantascienza questa, alla Spielberg fine anni '70 se vogliamo, seppur più complessa, meno "per tutti i palati", che si appoggia su una sceneggiatura che parte da situazioni e fatti già avviati, senza premurarsi dicspiegare o chiarire più di tanto, ed inserendoci nella vicenda di colpo, in piena corsa, come fossimo spettatori ritardatari entrati in sala a spettacolo già iniziato.

Un padre (il meraviglioso Michael Shannon, attore magistrale ed imprescindibile) aiutato da un amico fidato (Edgerton), sono in fuga col bambino decenne del primo, ricercatissimo sia dall'FBI sia da una setta religiosa, a causa dei poteri soprannaturali di cui il piccolo pare dotato: una forza misteriosa che si manifesta con un potente raggio che si sprigiona dagli occhi ed in cui risiede una potenza che ha tratti davvero poco umani o terrestri.

L'agenzia governativa vorrebbe acciuffarli per capire, un accanito e tenace pastore di una congrega religiosa (un sinistro e molto efficace Sam Shepard), decifra ed individua in codici misteriosi che fuoriescono dalla bocca del piccolo, i tratti rivelatori di versetti biblici evocativi riguardo al destino dell'umanità: pertanto vuole accapparrardi il bambino, che considera come un nuovo messia.

Nella fuga concitata e rocambolesca, si unosce pure la tenera ed addolorata madre del piccolo (una adeguatamente e convincentemente sciupata Kirsten Dunst, brava) sapendo che presto dovrà rinunciare al suo bambino, in partenza verso l'ignoto.

A cercare di decifrare il comportamento ed i codici che il ragazzino sembra inconsciamente comunicare a forze al di fuori della nostra umana percezione, un perspicace studioso del Federal Bureau (Adam Driver, sempre adeguatamente stropicciato e svaporato) si impone sugli altri e guadagna la fiducia del piccolo, sempre perennemente avvolto da occhialini da piscina che, in modo forse un pò ruspante ma efficace, ne impediscono la fuoriuscita del raggio luminoso stordente che promana dai suoi occhi alieni.

Lo stile solenne ed insieme inquietante e da minaccia che incombe anche stavolta insinuante almeno come in Take Shelter, rende incalzante e sin avvincente il film e riesce a farci tralasciare certe incongruenze o superficialità di sceneggiatura che, come già precisato, si preoccupa solo di marciare spedita ed in corsa fino al finale da "terzo tipo", tralasciando ogni debita ed indispensabile chiarificazione al riguardo.

Nichols tuttavia, qui alle prese con un film a budget più elevato dei suoi tre precedenti, resta un regista di punta da tenere d'occhio e seguire col massimo interesse. Al di là di qualche frettolosa e un pò sconclusionata soluzione narrativa, quel che resta forte e potente di questo film è la tenacia di un amore paterno (senza nulla togliere a quello materno, potente pure quello ma come messo un pò da parte) che spinge un uomo verso una fuga disperata e senza speranza anche conscio dei rischi e dell'ineluttabilità di una prossima dipartita di quella che è la sua più grande ricchiezza e fonte di amore ed affetto. E Michel Shannon-padre è davvero potente, straordinario, convincente, tenace e mai superficialmente o banalmente melodrammatico.

VOTO ***1/2

 locandina

Poliziotto buono...poliziotto cattivo; ovvero, più in generale: il bene ed il male...come sottotitolava pure The Departed, remake scorsesiano eccellente di un film seriale incentrato sulla corruzione nei servizi della polizia.

Il "triplo 9" è un codice che nel linguaggio delle forze dell'ordine sta a significare "poliziotto a terrsa", e serve per allertare i rinforzi, sottolineando la gravità della situazione.

C'è ancora del gran marcio tra i ranghi della polizia a stelle e striscie, ed un gruppo di poliziotti corrotti approfitta delle proprie conoscenze e delle soffiate che le rispettive posizioni permettono ad ognuno, per svaligiare le banche mettendo a segno colpi audaci e altrimenti impossibili. A dirigere le operazioni la mafia russo-israeliana, capeggiata da una bellissima donna bionda dura ed intransigente.

Sulle tracce dei responsabili, ma sempre inevitabilmente un passo indietro rispetto alla soluzione, due poliziotti di due reparti diversi, che non riescono ad intuire che il marcio si annida proprio all'interno della loro organizzazione.

Il codice che indica il poliziotto colpito sarà un pretesto chiave per dipanare e sbrogliare una missione ancora più rischiosa alla quale devono prender parte i poliziotti venduti alla mala; ma sarà, per ironia della sorte, uno dei tanti episodi di una carneficina senza freni da cui sarà difficile uscrne indenni.

Lo stiloso ed ammirato regista australiano John Hillcoat (La propostaThe road da McCormack) dirige un "polar" americano tesissimo e complesso con un cast sterminato di interpreti tutti straordinari: il genere è pieno di capisaldi: alcuni, come Rapina a mano armata di Kubrick e Heat-La sfida di Mann, sono decisamente impossibili da eguagliare; altri esemplari, come il già menzionato ed ottimo The Departed, Inside Man di Spile Lee, si rispecchiano in questa testosteronica produzione di ottimo livello.

Tra i bravi (nel senso di quelli dalla parte della legge) un insolitamente muscolare Casey Affleck si alterna al più scanzonato e satirico Woody Harrelson; i poliziotti cattivi non sono da meno ai primi due quanto a intensità interpretativa: Chiwetel EijioforAnthony MackieCliffton Collins Jrtengono testa ai primi con la slealtà che privilegia spesso le ragioni del male e della corruzione.

Ma le donne, in termini quantitativi senz'altro in minoranza, quando entrano in scena non le si dimentica: Kate Winslet, inizialmete irriconoscibile se si tiene in mente la bella e burrosa bellezza placida di tante riuscite pellicole in costume, torna a far parlare della sua avvenenza, dopo averla mortificata nel ruolo da Oscar di segrataria del sig. Apple, e costruisce una figura di donna boss stupenda: una nuova spietata avvenente simil-Sharon Stone che gioca a fare la Gena Rowlands dura ma cattivissima, in poche scene che tuttavia non si dimenticano. Di puro contorno, ma avercene di panorami mozzafiato del genere, Gal Gadot (la nuova imminente sexy Wonder Woman) c'entra poco e nulla con la vicenda, se non una parentela con il capo dei poliziotto cattivi: ma senz'altro non la si riesce a scordare.

Grandi scene d'azione, inquadrature maestose che non riescono ad eguagliare scene madri come quella della rapina del già citato Heat, sono tuttavia il fiore all'occhiello di una produzione davvero tosta e illuminata, che attanaglia allo schermo nonostante la complessità dell'intrecio e nonostante certi sviluppi non risultino completamente chiariti: complice forse, almeno nel mio caso, una visione doppiata in lingua francese essendo il film appena aprrodato nelle sale d'Oltralpe.

VOTO ****

locandina

Esce in qualche sala francese "il giallo del sommelier", una curiosa operazione di thriller "pedemontano" (ci troviamo ai piedi delle Alpi orientali, attorniati da scorci montani molto suggestivi e sin troppo ad effetto) decisamente insolita, curiosa ed accurata datata 2013 ed apparsa in modo troppo fugace in pochissime sale del nostro Paese.

In regia un "recidivo" di adattamenti letterari per nulla scontati: dopo l'interessante e molto ligure "Mare largo", dal romanzo di Biamonti Vento largo, Vicentini Orgnani si ispira all'omonimo romanzo di Fabio Marcotto per parlarci innanzi tutto, con piglio ironico che sfocia talvolta nella macchietta di colore,  di una vita di provincia di un piccolo centro montano, dove un tranquillo ma ambizioso funzionario di banca (Vincenzo Amato, l'attore feticcio di Emanuele Crialese, nonché spesso coinvolto in progetti internazionali di un certo richiamo), scopre per caso di essere dotato di un olfatto sensibilissimo e di essere in grado di divenire, in poco tempo e dopo anni di totale indifferenza verso ilvino, uno dei più apprezzati, acuti e sensibili sommelier del Paese.

Licenziatosi di banca, l'uomo si arricchisce e lam sua naturale predisposizioneverso il bello, unita ad una propria innata tendenza a provarci con le belle donne, lo rendono un amante extraconiugale piuttosto insaffarato, costretto per questo a subire le continue richieste di spiegazioni da parte della bella ma fragile moglie, soggetta sempre piuù ad ire incontrollabili e piuttosto predisposta al ricatto subdolo (la interpreta una divertita, ma anche pericolosa - seppur vittima - Giovanna Mezzogiorno). 

Il ritrovamento della moglie morta in casa, una mattina come tante, mentre l'uomo è a letto con il volto pittato di trucco femminile, accentra sull uomo ogni tipo di sospetto, ed attiva le indagini di un solerte ma anche pedante commissario locale di nome Sanfelice (Pietro Sermonti, simpatico), tutto preso a venire a capo dell'intricato mistero che pure lui intuisce sia troppo facile addossare tutto in capo al celebre e celebrato sommelier.

Ecco allora che il film si giova di tutta una serie di un pò lambiccati flash-back utili da un lato a chiarire (si fa per dire) tutta una serie di retroscena che vedono coinvolto, tra gli altri, un mefistofelico losco figuro (il sempre affascinante Lambert Wilson) che si accompagna con tre baldi aiutanti-servitori nero vestiti dai nomi apostolici.

Il lato diabolico e assurdo della provincia è già stato sfruttato e reso talvolta molto bene dal racconto cinematografico.

Il film insolito e volenteroso di Vicentini Orgnani, che dirige accuratamente e si giova talvolta di riprese ardite e dai tratti seducenti, con campi lunghi e contorni studiatissimi dall'alto potere scenografico protesi verso panorami sin troppo esemplari e fotogenici per limitarsi ad un appropriato contorno, si lascia guardare con un certo divertito interesse: poi la trama si ingarbuglia su se stessa e la storia sbanda un pò perdendo molta lucidità, come se un bravo e noto sommelier cominciasse a perdere poco per volta la propria capacità di giudizio e cominciasse a sproloquiare un pò a vanvera, sprecando tutto il buon materiale accumulato e la pregevole ammiccante confezione che ne risultava alla base. 

VOTO ***

 

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