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#BoycottReality
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12 febbraio 2019
Sei nel camerino che aspetti il tuo turno. Hai faticato parecchio per arrivare fino a lì. Tre mesi di duro lavoro rubate al tuo vero lavoro. Hai scritto una storia, dedicato i weekend per trovare la giusta location, hai costretto gli amici a fare le comparse, ascoltato ore di musica per trovare l'accompagnamento giusto, passato ore davanti al computer per finalizzare il montaggio. Sei passato attraverso selezioni sfiancanti e lunghe attese. E ora sei lì, tra cinque minuti è il tuo turno e finalmente il tuo cortometraggio verrà proiettato davanti al Signor Critico, davanti al pubblico ospite di questo innovativo reality show, davanti a centinaia di migliaia di persone asserragliate sui loro divani.

Qualcuno ti chiama, prendi la pellicola rinchiusa dentro la pizza, la infili sotto il braccio, segui l'assistente attraverso un lungo corridoio, ti viene in mente Birdman e quel lungo estenuante piano sequenza, il cuore batte sordo, alla fine del corridoio c'è una tenda, la tenda si apre, entri nello studio televisivo. E le luci ti stordiscono. Il Signor Critico è lì, seduto sulla sua poltrona, alle sue spalle c'è un proiettore Prevost P55 che si staglia come un monolite, il proiezionista ti viene incontro, gli consegni la tua creazione, lui si avvicina al proiettore e con pochi gesti esperti e noncuranti monta la tua pellicola. Il Signor Critico ti scruta in silenzio, con una mano si sfila gli occhiali dalla montatura spessa, ti fissa con un ghigno distratto, poi ti fa un semplice cenno e ti invita ad accomodarti sulla sediolina da regista accanto a lui. Le luci si spengono, sul grande schermo posto in fondo allo studio appaiono i titoli di testa. Le immagini invadono lo schermo, la tua testa, il tuo corpo, quella roba è tua. Non è pellicola, è la tua pelle.

Tre minuti possono essere lunghissimi quando tutti i sensi sono attivati. Non c'è rumore dello studio che ti sfugga, non quel colpo di tosse, non quella sedia che scricchiola, non quella coppia che bisbiglia. Ai margini del tuo campo visivo il Signor Critico è immobile, impassibile, ma non ti sfugge quella mano che giocherella con il contenitore di alluminio della tua pellicola. Ci hai anche attaccato sopra un adesivo disegnato a mano dalla tua amica, quella che ha la mano benedetta, alla quale hai chiesto di disegnare la locandina del tuo corto, come se fosse un vero film, di quelli che vedi al cine.

Alla fine tutto passa. Anche quell'ultimo secondo passa, quello che separa la fine della proiezione dall'attesa di un segno qualsiasi. Al pubblico è proibito applaudire, il pubblico può esprimersi solo dopo il Signor Critico. Se non fosse che improvvisamente la tua lingua assomiglia ad una pantofola di pelo, potresti quasi affermare di essere felice. Una felicità che dura un breve istante. Che si esaurisce nel momento in cui i muscoli del viso del Signor Critico si contraggono perché sta per iniziare a parlare. D'altronde lo sapevi già. Se sei lì è perché sei disposto a sottoporti al ridicolo pur di uscire dall'anonimato. Il Signor Critico prende in mano il contenitore di alluminio come se fosse sterco di cinghiale. Lo soppesa per un attimo in aria. Poi se lo fa scivolare dalle mani di proposito, si alza in piedi, ti guarda con assurda cattiveria. E ci salta sopra con tutti e due i piedi. Il pubblico prima tace, poi ride.

12 febbraio 2016
Sei sul divano. Ti sei addormentato un attimo e vieni svegliato dal rumore di un piatto da cucina infranto. Tua moglie sta guardando un reality in tv e ti dice ridendo e indicando la televisione "Te lo sei perso?". Tua figlia dice: "Certo che quel B. è proprio un bastardo, gli ha spaccato il piatto davanti agli occhi". E tu lo sai che quel bastardo non è un'offesa, in fondo. Solo che improvvisamente ti chiedi perché.

Perché tolleriamo, o peggio a volte segretamente ammiriamo, personaggi arroganti che si esprimono con artificiosa aggressività pur provando naturale empatia con chi vede maltrattate le proprie creazioni? Se ci trovassimo ad assistere per caso ad umiliazioni pubbliche di questo genere, al di fuori dello spettro di azione consacrato allo spettacolo, ci indigneremmo ed inseguiremmo il critico arrogante con un forcone, ma nelle virtual box dello spettacolo tutto viene accettato senza batter ciglio.
Non è detto che sia un male, forse anzi questo schema rischia di insegnare agli spettatori che per trovare le emozioni reali bisogna scrostare un bel po' sotto la superficie. Ad uscirne con le ossa rotte invece sono gli ambiti (cibo, musica, cinema) in cui i reality si svolgono che, una volta esposti ai codici della realtà simulata, vengono ridotti a semplici setting. E in cui i prodotti dei vari talenti (il piatto, il pezzo musicale, il numero di ballo) diventano merci da maltrattare. A beneficio di emozioni farlocche.

Tenete giù le mani dalla pizza.

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