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Philip Seymour Hoffman: la normalità del talento
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Perché Philip Seymour Hoffmann è stato un grande? Solo perché la morte se lo è portato via esattamente due anni fa e, dunque, si è naturalmente inclini a valutare, con il senno di poi, ciò che un qualsiasi esponente dello star-system latamente inteso ha dato e avrebbe potuto ancora dare? Solo perchè la scomparsa di un personaggio pubblico innesca quella strana mescolanza di rimpianto e amore postumo che, in contesti meno esposti, sarebbe semplice definire ipocrisia? Anche per questo, perché no. Ma PSH ha avuto un posto d’onore nel mondo del cinema (altrove rutilante, cinico, spietato, fagocitante le teste dei propri figli, padri e consanguinei come un Ugolino rivestito di pailettes) perché è stato un viso ed un corpo comuni. E, contrariamente a quanto gli uomini comuni riescono a fare, spesso in quanto trascinati via dalla quotidianità, smarriti e persi di fronte al mondo, soli di fronte ad uno specchio che rimanda un’immagine sempre uguale a se stessa, ha saputo incarnare, di quella totale normalità fisica, gli aspetti più nascosti ed indicibili, i moti dell’animo e l’unicità delle vite, i drammi e le passioni, finanche l’ipocrisia, la lotta con il quotidiano e l’altro da sé, facendosi, di volta in volta, vittima sacrificale o homo homini lupus. E, dimostrando, al di là delle discussioni da balera o da salottini snob, che l’interiorità di un’anima, ovvero la profondità anche malvagia di un pensiero, può donare lucentezza ad una persona intera. Non dimentichiamoci, infine, che è morto per overdose di droga. Probabilmente non in quanto eroe dannato di Hollywood, bensì quale persona (appunto) in cerca di assoluto e non in grado di raggungerlo.

 

 

Bastava guardarlo in Happiness (forse la prima prova di reale successo) per rendersi conto che, dietro quella maschera unta di complessato e accanito masturbatore, oltre le lentiggini ed i biondi capelli appiccicosi, risiedeva una disperazione metropolitana che si cibava di solitudine ed ambiva alla normalità di un ordinario rapporto sessuale. Nel film PSH seppe abbozzare un personaggio di dolce sgradevolezza, una figurina perfettamente riconoscibile in quanto summa di tutte le sconfitte immaginabili. Un antieroe dalle parvenze mediocri, una mediocrità che solo un attore di vaglia poteva lasciar penetrare nelle proprie fibre interpretative. Lo star system guardò probabilmente inorridito: solo i più lungimiranti scorsero quell’incommensurabile talento grezzo che Solondz assecondava e da cui veniva assecondato.

 

Avreste saputo immaginare, in un uomo fondamentalmente grasso e tendente all’obesità, con una moglie bellissima (la sempre splendida Marisa Tomei) che ovviamente lo cornifica, il portato di una malvagità quasi biblica, la cedevolezza ad un interesse che lo portasse (a prescindere dal finale) a farsi burattinaio degli eventi, organizzandoli e conducendoli là dove non esiste alcun affetto, tantomeno quello filiale? Sidney Lumet evidentemente sì e regalò ad Hoffman un ruolo magnifico e terribile, in Onora il padre e la madre, film in cui il nostro giganteggia e letteralmente oscura protagonisti e comprimari, con la forza minacciosa di un male che alligna là dove meno potresti crederlo.

 

 

Due piccoli esempi, tra i più significativi, per rappresentare la forza mimica e verbale di un attore che procedeva con una recitazione naturalistica, talmente perfetta da consentirgli di affrontare il copione e quasi aggredirlo, e da fargli trasferire sullo stesso (e quindi sullo schermo) ogni minuscola particella dell’infinito pulviscolo dell’inquietudine. Gli sguardi di PSH erano sguardi velati da una dolcezza e malinconia di fondo e che pure potevano e sapevano laniciare saette d’odio, i movimenti dotati di una goffaggine armonica, gli occhi avevano un non meglio precisato punto da guardare oltre l’orizzonte delle cose terrene.

Il regista in crisi di Synecdoche, New York (opera maestosa, da vedere più e più volte per coglierne i terribili bradisismi della volontà e della memoria) assomiglia a tutti noi che, una mattina, ci svegliamo, constatiamo la lieve decadenza del corpo e della mente e ci diciamo che magari stiamo per morire; mentre invece la vita ci donerà altri decenni, al solo scopo di acuire la nostra sofferenza ed il nostro rimpianto.

Con il sempre misero senno di poi: chi altri se non PSH avrebbe potuto interpretare un ruolo del genere, in quello che è un reale canto funebre alle speranze ed alle aspettative? Synecdoche assomiglia ad un film testamentario, ed Hoffmann vi recita come intimamente consapevole, preconizzante la propria finitezza, la propria fuga dai guai del pensiero.

 

 

Quella stessa finitezza, stavolta ironica e sardonica, che l’attore incarnò in Truman Capote – A sangue freddo, donando alla figura del geniale scrittore borderline, omosessuale e vanesio, spietato e cinico (il capolavoro di cui al titolo fu realizzato in sospetto di sfruttamento a fini commerciali dell’altrui crimine – e viene da pensare ad un eventuale Capote odierno, praticamente un fiore di giglio di fronte agli sgrammaticati inviati ed anchor-men della cronaca nera - ) la potenza scarnificata e la luce della intelligenza. Interpretazione-monstre, a partire dalla voce in falsetto, per finire alle movenze ed agli abiti da dandy portati con consapevolezza, questa sì non da uomo comune: a riprova delle infinite doti trasformistiche di un attore ormai giunto all’esatto grado di maturazione e consapevolezza.

Abiti e movenze, benchè più trattenute, che costituscono il tratto distintivo anche di Lancaster Dodd, il capo spirituale di The master. Hoffmann ne tratteggia magistralmente l’ambiguità e la latente disperazione, senza cedere ad un macchiettismo mai nelle sue corde.

 

 

Gli esempi potrebbero continuare a lungo, ma si rischierebbe una sterile elencazione di maiuscole prove d’attore (o caratterista). Resta da esprimere un rimpianto, con parole anche abusate, per un attore che ha saputo farsi largo nel mondo dorato e contraddittorio del cinema americano, partendo solo dal proprio talento e facendosi forte di un’immagine aliena dagli stentorei canoni della “carineria” o del “superomismo”. Philip Seymour Hoffman è stato un uomo/attore ed un attore/uomo. La vita ha bruciato l’uomo, l’attore non può che restare.

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