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Toni, Titta, Giulio, Jep. Le aggettivazioni di una voce
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Può accadere che un attore si leghi ad un regista in modo quasi indissolubile, tanto da far scattare il riflesso condizionato per il quale, ad ogni nuova opera del secondo, tutti si è portati ad affermare: “Il film di..? E con..?”

Gli esempi sono moltissimi e variopinti, e sarebbe qui noioso stilare un bignamino delle coppie d’oro, dei binomi inscindibili, della sceneggiatura che va a braccetto con un corpo ed una voce, con quel corpo e quella voce. Limitiamo allora il campo d’indagine agli ultimi anni del cinema italiano, quelli che hanno visto una nuova fioritura di talenti indiscussi, quelli che hanno regalato una discreta messe di premi al nostro carniere semivuoto, quelli che hanno generato una coppia che, senza offese, potremmo definire davvero dalle uova d’oro, tanto è vero che pare difficile immaginare l’uno senza l’altro, ed è pur vero che film dell’uno senza l’altro ce ne sono stati, ma sono venuti fuori un po’ così.. (e passi per il pur magnifico Giacomo Rizzo, impelagato in un personaggio drammatico cui ha saputo fornire il giusto grado di lassismo fisico e psichico, ma che anche il grande Sean Penn, alla prova dei fatti, risultasse un pochino spaesato di fronte agli arzigogoli del regista parrebbe un sacrilegio. Eppure..). Stiamo dicendo che non c’è vero film di Paolo Sorrentino senza il sodale Toni Servillo.

L’uno (Paolo) fine tessitore di parole circolari, di sentenze apodittiche, di apocalissi verbali e prolassi dell’anima. L’altro (Toni) voce narrante, e corpo esplicante,  di spaesamenti, orgogli, presunzioni ed inazioni. Insieme fanno opere di verbo e carne (in verità più verbo che carne), di sintassi incapace di dare senso reale a molte cose, di disperati e barocchi canti alla nostalgia ed alla sofferenza che si traveste da istrionismo. Analizziamo tutto questo in 4 differenti film, e relativi personaggi,  dove Sorrentino e Servillo sono, più che il braccio e la mente, la mente e la voce, due organi (diciamo il cervello e le corde vocali) tendenti ad un unico scopo, spesso felicemente realizzato: quello di rappresentare icasticamente una bellezza che pure non ha paura di sporcarsi.

 

L’uomo in più, ovvero Toni, o della voce esagerata. Il cantante Toni Pisapia ha come modello amato/odiato il confidenziale Fred Bongusto e come veri amici soltanto i coinquilini carcerari. Brutta storia di droga, di voce che vellica i sentimenti, di voglia di vivere che abbatte ogni freno. E di cadute, l’ultima senza risalite. Però Toni parla, e ancora parla, investe a suon di invettive, ha impreviste tenerezze ed ingenuità (la volontà di acquisire il ristorante sul mare già promesso alla camorra), scatti d’ira funesta che danni addussero a se stesso (“Questa cosa della crociera la vedo riduttiva! Mandaci Fred!”, “Mi sono svegliato tardi!”; “Non faccio nisciuna fantasia!”, e via sbraitando). Quando capisce che alla fine non può opporsi un passato d’oro, si accontenta di tagliarsi i capelli, anche per un contingente problema fisico, e di recitare un ultimo travolgente show, di fronte alle lise telecamere di uno spiantato network locale. È il fantastico monologo sulla libertà, estrema recita di una voce (auto)ridotta al silenzio. “E Frank Sinatra lo dovette venire a sentire, ‘sto fenomeno di Toni!”; “Io sono un uomo libero. E voi non sapete nemmeno che cazzo significa!”.

 

 

Le conseguenze dell’amore, ovvero Titta, o della voce muta.  Provateci voi a vivere reclusi in un albergo, aspettando le altrui direttive, schiavi di una meticolosità che vi impedisce anche di decidere quando è il caso di iniettarsi eroina nelle vene. Titta lo ha fatto, e continua a farlo, impeccabile ed altero, uomo comune fasciato in abiti sartoriali e nella giusta dose di mistero. Non parla molto, non potrebbe, quando gli avventori di quell’hotel di lusso sono coppie in chiaro disfacimento, repellenti gagà (altrimenti detti puttanieri), fratelli che passano e vanno come incidenti di percorso, forieri di noia che si aggiunge a noia. E quando l’unico amico che si è avuto, (anche per pochi giorni, ma quando si è stati amici una volta lo si è per tutta la vita) ha scelto di lavorare tra la neve e le montagne, in una irraggiungibilità fisica oltre che psichica. Poi basta sedersi ad un bancone, per una pausa imprevista ed incontrollabile, e due occhi azzurri girano la manopola della logorrea sul tasto on. O quasi: perso in una triste ed autoreferenziale incomunicabilità, Titta prova a parlare (e a regalare, e a sorridere, e ad amare), ma ci riesce poco. Cosa si dice in casi come questi? Non so cosa dire, io sono un commercialista. Appunto. E cosa si dice mentre il cemento ti aspetta come coccodrillo in palude? Non si dice niente: si pensa a due occhi azzurri ed all’unico amico che si è avuto che, senza meno, starà ora pensando proprio a te.

 

 

Il divo, ovvero Giulio, o della voce politica.  Il divino Giulio, praticamente mezzo secolo di vita italiana racchiuso in una voce stridula e mefistofelica che, ne siamo certi, impauriva anche il suo portatore. Perché la politica è parlare (molto) dicendo (poco), promettere ed assecondare, fustigarsi e cospargere il capo di cenere mentre si sta apparecchiando la altrui reiterata sodomia. Giulio è finito su libri e giornali d’opinione, con le sue massime puntute o all’acqua di rose. Ma ha garantito ossigeno anche alle riviste femminili o al gossip più retrivo. Perché la voce politica è voce che si fa comunicante per stessa definizione: è fuffa travestita da pappa reale, cenere in polvere d’oro, odio che nasconde narcisistico amore (o viceversa).  

 

 

La grande bellezza, ovvero Jep, o della voce annoiata.  La maledizione della malinconia in un libro di successo. Esaurita l’eco del quale, Jep torna non comune mortale, perso tra feste e gozzovigliamenti che ne sporcano un’anima fondamentalmente provinciale. Per questo sceglie di declamare e di farsi portabandiera del disprezzo verso quello che è il suo stesso mondo. Rimane muto solo di fronte a Fanny Ardant, apparizione improvvisa che richiama le scoperte impreviste di quell’Arcadia che è l’infanzia. Perché Jep è un bambinone corrotto, alla ricerca di una macchia di colore nella sua vita che non sia l’esagerato giallo paglierino delle giacche o il bianco angelico di una donna che pure ti si dà alla prima sera. Noia nelle feste, noia nelle danze, noia in una intera vita vissuta sugli allori della rendita. E dunque, anche le parole sono annoiate, benchè sferzino frecce a destra e a manca. Colpi che vanno a vuoto: il mondo continua a girare come e più di prima. Poco può importargli di uno che da bambino amava l’odore delle case dei vecchi.

 

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