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Breve storia di un cappotto
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Ultimo tango a Parigi, il capolavoro maledetto di Bernardo Bertolucci. Una storia di sesso senza amore, di amore senza cuore, di solitudini che si ricercano e fatalmente si perdono.

Quel film è tante cose: è Marlon Brando e Maria Schneider, è la declinazione rapsodica di un rapporto basicamente carnale, è la cronaca minuziosa di una e più disperazioni.

Sì, quel film è anche il burro; ma il burro resta fondamentalmente roba per gourmet o, nel caso di specie, depravati. E' sperma e sangue, occhiate di rancore e ricerca di aiuto. E' vita e soprattutto morte.

Ma quel film non ci sarebbe senza il cappotto di cammello di Marlon Brando.

Simbolo di eleganza un po' sdrucita, e di meraviglioso fascino fanè, quel cappotto aderisce alla figura ieratica di Brando come una seconda pelle.

Signore in deliquio, uomini di ogni tipo e foggia umana alla ricerca di negozi che ne replicassero il tessuto morbido e scorrevole.

Nell'immaginario collettivo il cappotto di cammello divenne un must ed uno status symbol, garanzia di successo.

Italia, anni '70, drammatici e caotici. Indossare il caldo sudario lanciato da Brando forse rendeva un po' più riparati e sicuri.

Tutti si sentivano un po' Marlon e ammiccavano conformemente.

 

Ma il vero sdoganamento del cappotto di cammello si ebbe subito dopo, quando il capo visse una impronosticabile seconda vita, risorgendo a nuova popolarità.

E lo fece attraversando il corpo e le sembianze di un uomo che di una medietà anche tendente al basso faceva la propria bandiera: Franco Franchi.

Si dice che Bernardo Bertolucci fosse segretamente compiaciuto, se non proprio invidioso, di Ultimo tango a Zagarolo, raro esempio di parodia/ricalco quasi più reale dell’originale, capace di scavare a fondo, sino a renderli macchietta, nei topoi del capostipite, di per sé già destinati ad una possibile rilettura in salsa comica.

Franco Franchi è un Brando delle suburre, condannato ad una vita di stenti e digiuno dalla moglie fedifraga e dal suo amante (un incredibile Nicola Arigliano). Sino all’incontro con una donna riccia e perversa che ne segna il possibile riscatto: e tuttavia, sesso poco, tensione erotica latente, ancora privazioni e vessazioni (tanto è vero che, arrivato alla scena cult del burro, Franchi non può che usarlo quale companatico, dando vita ad una sorta di orgasmo calorico di cui avvertiva urgente necessità).

Un capolavoro di trash voluto e ricercato.

Franchi si fa vessillifero dell’uomo medio, indossando il cappotto di cammello con assoluta nonchalanche. Perché l’abito può fare il monaco, come di lì a poco dimostreranno fior di multinazionali con le loro scarpe ed i loro piumini massificanti.

 

Oggi cappotti così se ne vedono pochi in giro. Brando è morto, grasso e quasi stupito di se stesso e della passata bellezza; Franchi se ne è andato tra due ali di trombe critiche che gli avevano sempre intonato il de profundis.

Guardando i rispettivi film, l’occhio viene ancora rapito da quell’accessorio di abbigliamento che si fa cimelio iconografico. Chissà, forse è soltanto nostalgia per un tempo che non tornerà più.

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