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IL PATTO GENERAZIONALE
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reportage dal festivalfilosofia EREDITARE

Modena – Carpi – Sassuolo

18-19-20 settembre

 

ricevo e volentieri condivido

 

 

Lezioni Magistrali

Gustavo Zagrebelsky

“Gufo pigro”

Modena, Piazza Grande, 19 settembre h 11.30

 

L’immaginario gioca curiosi scherzi, e capita che un cognome e titoli come i suoi facciano pensare a una figura paludata, forse sussiegosa.

 Così ti sorprende, in Zagrebelsky, la simpatica bonomìa da saggio prof che scherza sui fogli sciolti della sua Lectio, il vento malizioso li fa volteggiare in alto e sono i compiti dei miei studenti, se li perdo devono ridare gli esami

 

 

 

 

     “I vecchi sono lenti, dice, a volte anche pigri, anch’io sono stato definito un gufo pigro”: prende le mosse da qui il suo ragionare su vecchie e nuove generazioni, e su un “patto generazionale” forse non del tutto illusorio.

      Inizia ricordando Bobbio, per il quale “nelle società evolute il mutamento sia dei costumi sia delle arti ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa”: oggi sono i giovani coloro che sanno, essi apprendono rapidamente, adeguano il passo alla velocità dei cambiamenti, “hanno occhi “ridenti e fuggitivi”, soprattutto rapidi”.

I vecchi sono lenti e conservatori, sono… gufi pigri; una società in perenne corsa, dominata come l’odierna dalla feroce legge della produttività ad ogni costo, li marginalizza, così come allontana i non-idonei, i non-integrabili, coloro che non ne partecipano e che pertanto “non possono giustificare la loro esistenza”.

A chi importa dei lenti, dei saggi, quali diritti essi hanno?

 

      Rispetto alle narrazioni d’impianto mitologico o fantascientifico o legate a tradizioni arcaiche, nelle quali gli inetti, i non produttivi (“i gufi”) sono eliminati in forme ritualizzate e istituzionalizzate, non molto è cambiato nelle società contemporanee (“anche se non li si mangia o non li si cosparge di miele per darli in pasto alle termiti” come in certe tribù precolombiane).

Lasciando infatti da parte i documenti eugenetici del nazismo, come pure alcuni principi di “darwinismo sociale” sostenuti da Paesi considerati civili (i paesi anglosassoni e scandinavi), non vi è dubbio che le odierne politiche di smantellamento dello stato sociale dettate da presunta “necessità” - pensioni, assistenza, sanità, lavoro - colpiscano soprattutto i deboli.

Tra questi vi sono, naturalmente, gli anziani: non li si “elimina”, li si abbandona poco a poco, poiché una società sottoposta all’implacabile legge della produttività crescente “non può sottrarre risorse alla parte sana.”

E’ una società nihilista quella attuale: le due identità di cui si compone, quella della produttività (i giovani) e quella del fallimento (i vecchi) hanno in comune il non-senso del  vivere.

      Eppure i diritti umani non conoscono differenze in relazione all’età umana, e la Dichiarazione Universale emanata nel ’48 dalle Nazioni Unite non prevede certo che i diritti acquisiti con la nascita si riducano esaurendosi con l’avanzare degli anni. Si tratta dunque di un deragliamento nei modelli relazionali delle società, di una frattura rispetto a dinamiche sociali che la crescita sempre più rapida, con le “necessità” che essa detta, non è più in grado di sostenere.

Un ulteriore gravissimo rischio - strettamente connesso allo strappo generazionale - è insito in questa religione della crescita ad ogni costo. 

 

La narrazione della vicenda dell’isola di Pasqua è efficacemente assunta da Zagrebelsky ad apologo di quanto potremmo attenderci da questa realtà che, dice,“ è una miccia a fuoco lento che prima o poi verrà a compimento”.

      La storia dell’isola e dei suoi megaliti, pur nelle controverse spiegazioni della sua enigmaticità, è agghiacciante paradigma dell’autodistruzione di cui un’intera società può rendersi artefice, vittima della distopia che le impedisce di guardare alle necessità del domani per perseguire gigantismo, potere, dissipazione delle risorse.

Essa indica in modo sinistro, per quanto paradossale, il possibile destino di un’umanità le cui dinamiche procedono oggi molto più in fretta che in passato.

“L’orologio - dice Zagrebelsky - continua a ticchettare” e la posta in gioco è altissima, è la sopravvivenza stessa.

       Se contro la “cieca convenienza immediata”, l’oceanografo J.Y.Cousteau lancia a partire dal ’79 la sua campagna per una “Carta dei diritti delle generazioni future” (approvata dall’UNESCO nel ’91), la “Dichiarazione Universale delle responsabilità dell’uomo”, di poco precedente (1977), muove invece dai concetti di dovere e di responsabilità.

Sono quelli delle generazioni presenti nei confronti delle future (le quali, in quanto non ancora viventi, non possono essere portatrici di diritti). 

Dopo secoli nei quali i figli sono stati debitori dei padri, oggi sono questi ultimi ad essere debitori, responsabili verso le generazioni successive del furto di risorse naturali ma anche finanziarie, ma anche genetiche.

     Occorre che in tale ottica il costituzionalismo dei diritti riscopra i doveri e li rivalorizzi, così che possa ripristinarsi un “patto generazionale” tra i vecchi e i giovani.

 

 

Come spiegava Vittorio Foa. “Non è vero che solo i vecchi hanno la conoscenza, la sapienza; anche i giovani le hanno, ma sono conoscenza e sapienza diverse, e l’una può essere utile all’altra”. 

Ai giovani, conclude Zagrebelsky, appartiene l’etica della convinzione e dell’agire, ed essa li conduce fino in fondo alle cose; l’etica delle conseguenze appartiene ai vecchi, e li rende capaci di attenzione al futuro delle generazioni a venire.

      Nel rispondere più tardi alle domande del pubblico sui miti del nostro tempo, si soffermerà sulle tre età classiche dell’uomo che il nostro tempo accelerato ha ridotto a due: non più un arco che termina nella vecchiaia ma una retta alla cui estremità c’è solo la giovinezza che si pretende eterna.

Vi si contrappone la saggezza della classificazione che gli indù danno delle età della vita: la prima è quella in cui si impara, la seconda è quella in cui si insegna, nella terza si va nella foresta per raccogliersi nel proprio silenzio interiore, per costruire una propria identità non manipolata; la quarta, infine, è quella in cui si vive di elemosina.

      Dovremmo cercare anche noi silenzio intorno, sottrarci al vuoto frastuono che i media costruiscono quotidianamente sul nulla,  “cominciando dal non leggere i giornali”, dice malizioso, mentre il vento gli scompiglia nuovamente le carte.

 

S.D.G.

24 settembre 2015    

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