Espandi menu
cerca
I film che cambiano la vita : il mio 8½, capolavoro assoluto della cinematografia mondiale (una pseudo-recensione scritta in forma di racconto) – PARTE PRIMA.
di spopola ultimo aggiornamento
post
creato il

L'autore

spopola

spopola

Iscritto dal 20 settembre 2004 Vai al suo profilo
  • Seguaci 507
  • Post 97
  • Recensioni 1197
  • Playlist 179
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

“Noi  passiamo la seconda metà della vita a cancellare i guasti che l’educazione ha fatto nella prima”. (Federico Fellini)

 

Asa nisi masa…. Asa nisi masa (e fu subito amore a prima vista, sconsiderato, assoluto e impertinente come lo sono tutte le folgoranti “passioni” giovanili).

 

Perdonate  questo eccesso di enfasi, ma è proprio così che è nato (e continuo a vivere anche nel presente) il profondo, palpitante rapporto empatico che mi lega indissolubilmente a questa (per me) imprescindibile pellicola.

Mi rendo perfettamente conto che spesso, quando si parla (o ci si discute intorno) di questo titolo fondamentale della cinematografia mondiale che in termini di rivoluzione di linguaggio può essere paragonato a Citizen Kane di Orson Welles o alle prime prove registiche nel lungometraggio a soggetto di Resnais (soprattutto Hiroshima mon amour e L’année dernier a Marienbad) ci si trova sempre più spesso a doversi confrontare con una specie di “sussiegosa sospensione” di giudizio da parte degli interlocutori di riferimento (atteggiamento abbastanza comprensibile quando si parla dei grandi capolavori del passato) così che i commenti sia in positivo che in negativo (perché ci sono pure quelli, anche se ormai e per fortuna sono poche le voci fuori dal coro) sono quasi sempre sui generis, limitati a poche scontate frasi (quasi di circostanza) insufficienti per rendere giustizia a un’opera di siffatta natura che necessiterebbe invece di un’approfondita analisi conoscitiva (soprattutto quando si intende parlarne male) che quasi sempre manca, indispensabile  per rendere più chiare e motivate le argomentazioni che costituiscono la base del giudizio critico a cui è legato il proprio assenso (o dissenso).

Non parlo ovviamente di ciò che è stato postato  su questo sito, perché qui sono in maggioranza i giudizi ben articolati e le recensioni che lo hanno sviscerato tutto e fino in fondo estraendone il succo e la sostanza (basta fare un piccolo giro di letture delle corrispondenti schede,  per avere la conferma della eccellente capacità introspettiva dei nostri ottimi commentatori, accompagnata per altro da un’altrettanto efficace qualità espositiva non solo avvincente e documentata,  ma anche piena di felicissime intuizioni). Mi riferisco invece a una situazione più in generale (che oggettivamente riguarda anche la rete nel suo insieme), come se da parte di chi si pone per la prima volta davanti a un titolo così complesso e strutturato, esistesse una specie che i commenti sia in positivo che in negativo (perché ci sono pure quelli, anche se ormai e per fortuna sono poche le voci fuori di “pudore reverenziale”, una titubanza che induce a non rischiare troppo e a rimanere sulle generali.

Qualche anno fa in un dibattito molto interessante posto in calce alla recensione che del film fece  @will kane, ci si soffermò abbastanza a lungo sulle ragioni di questo atteggiamento ritenuto forse troppo prudenziale e si avanzarono anche alcune ipotesi che adesso però non mi sentirei proprio di avallare in toto e fino in fondo. Non credo infatti che sia del tutto pertinente (e nemmeno condivisibile al 100%) la teoria formulata allora che indicava la causa di questo approssimativo schematismo un po’ conformizzato, in una sterile e furbetta riproposizione di concetti già espressi da altri al fine di evitare la fatica e l’azzardo di doversi spremere troppo le meningi per far emergere il proprio inedito pensiero e a questo riferirsi nello scriverci qualcosa sopra.

Sono infatti adesso più propenso a credere che si tratti invece di una difficoltà oggettiva a farle coagulare tutte insieme quelle idee, a ricomporle in maniera organica, e soprattutto a riuscire ad esporle stringatamente con appropriate attinenze (contenutistiche e di forma) e la necessaria chiarezza, e che sia proprio questo a suggerire di prendere qualche piccola scorciatoia proprio perché è un titolo che richiederebbe la scrittura di  un saggio di molte pagine (come si usava fare una volta) che non sempre si ha tempo o la voglia di comporre (e che forse non sarebbe ugualmente sufficiente per esaurire completamente l’argomento senza poi di nuovo doverci ritornare sopra, visto – e questo lo posso confermare come esperienza diretta – che ad ogni visione emergono nuove sollecitazioni, differenti tracce da percorrere che ci spingono verso territori fino a quel momento inesplorati che abbisognerebbero di costanti “revisioni” aggiornative).

Con  ci troviamo infatti ogni volta invischiati all’improvviso dentro a un nuovo, differente groviglio di emozioni che avevamo solo sfiorato prima e che ci suggeriscono di prendere in considerazione per ogni singola scena e personaggio della nutrita galleria di figure proposte da Fellini sullo schermo, inedite e inusuali prospettive di lettura).

 

Considerando la mia età anagrafica, pur senza aver ancor acquisito tutte le giuste coordinate di riferimento, sono stato fra quelli che hanno avuto la possibilità (e la fortuna) di comprendere in anteprima (in forma certamente più embrionale e anche meno consapevole), la grandezza di quest’opera davvero seminale, e ciò mi offre un innegabile vantaggio, che è poi quello che nel parlarne adesso a più di cinquant’anni di distanza, posso comunque attingere al ricordo delle genuine emozioni di allora e partire proprio dal forte shock (anche sensoriale) provato già a quel primo approccio che mi fece da subito capire (come era già accaduto con Resnais qualche anno prima) che mi trovavo davanti a qualcosa di molto diverso rispetto a (quasi) tutto l’altro cinema parallelo di quel periodo.

Un coinvolgimento così totalizzante insomma, da indurmi a tornare in sala per tre domeniche consecutive per assimilarne meglio il significato, e di visionare il film già nel primo anno di programmazione… addirittura ”otto volte e mezzo”... come solevo affermare scherzosamente allora (e il mezzo lo attribuivo proprio a uno sfortunato contatto avvenuto in una sala periferica di terza visione, dove la pellicola era arrivata già "corrosa" e malamente “rattoppata”  a causa delle troppe proiezioni a cui era stata sottoposta) riferendomi appunto al criptico titolo scelto dal regista, considerato addirittura “brutto” e anche “sbagliato” da quell’eminente critico – felliniano d.o.c. di provata fede – che era Pietro Bianchi (ce lo ricorda Tullio Kezich  nel suo imprescindibile libro su Fellini), al quale i conti non tornavano proprio:  “Se nel catalogo dell’opera felliniana includiamo Luci del varietà, al momento di si arriva a otto titoli; ma se il “mezzo” vale per l’episodio di Boccaccio ’70, si dimentica un altro “mezzo”: l’episodio Agenzia matrimoniale da L’amore in città. Oppure Luci del varietà vale per “mezzo” film e i due episodi   si sommano per lui in un’altra unica improbabile e improponibile unica unità: solo in questo caso i conti tornerebbero davvero”. A posteriori, sappiamo invece che si è trattato di una casuale, felicissima astrazione poetica: un’azzeccatissima opzione coniata all’improvviso per liberarsi da un impaccio, e che di conseguenza la contabilità certosina degna di un ragioniere, non solo è opinabile, ma anche poco importante e “secondaria” (l’autore stesso - è ancora Tullio Kezich a parlarne - non ne era del tutto persuaso quando all’ultimo momento e incalzato dalla Cineriz che lo aveva stretto fra l’incudine e il martello, rompendo gli indugi scelse il titolo non senza qualche comprensibile titubanza. Per un po’ aveva infatti pensato di accettare la proposta di Flaiano e chiamarlo La bella confusione, poi gli era balenata una titolazione più semplice, ma per fortuna subito cassata: Film comico, questa sì davvero sbagliatissima).

Possiamo dire insomma che nemmeno lui sapeva quali pesci prendere prima che il genio ispirativo gli venisse in aiuto con questa che dimostrerà poi essere un a folgorante intuizione, proprio perché dice tutto e niente, ma  a mio avviso ben sintetizza l’essenza di un film che è certamente (anche) il bilancio (provvisorio) di un artista arrivato più o meno nel mezzo del cammino di sua vita (Fellini, classe 1920, quando girò aveva da poco superato la soglia dei quarant’anni).

 

Claudia Cardinale, Marcello Mastroianni

8 1/2 (1963): Claudia Cardinale, Marcello Mastroianni

Ma tornando alle mie tante visioni di allora, sono state sicuramente quelle a farmelo assimilare davvero dal profondo e a spingermi di volta in volta a leggerlo (e interpretarlo), cercando sempre nuove  prospettive,  ma - come si è già visto - mai del tutto conclusive, e conseguentemente incapaci di darmi il senso della sazietà: scoprirne le varie anime, era diventato infatti per me quasi un gioco o una scommessa (e forse lo è ancora), poiché  ogni passaggio non è mai un semplice ripasso, ma una rinnovata seduta esperienziale in grado di accendere qualche nuova lampadina… colmare una lacuna… rendere chiaro un sottotesto (cosa questa che fa di  un film che non ha mai smesso di stupirmi): quante volte mi ci sono imbattuto!. infinite.. non riesco più nemmeno a contarle: quello che è assolutamente certo, è che ogni volta si rinnova intatto ed immutato il “miracolo” emozionale della prima visione.

C’è però anche un altro elemento che mi lega saldamente a questa pellicola, poiché appena fresco del diploma (si fa per dire) di "direttore di dibattito", un titolo tutt'altro che accademico conseguito presso l'Istituto Stensen di Firenze (che di corsi di cinema ne faceva molti in quegli anni), in pratica un semplice attestato che mi riconosceva la competenza formale per introdurre e gestire il dibattito intorno a un film nei numerosi e rinomati cineclub dell'epoca, è stato proprio   che "fortunosamente" mi ha fatto rompere il ghiaccio in quel di San Donnino, un paese alle porte di Firenze... In verità, doveva essere un’eminente personalità emergente di provata dottrina aristarchiana (all'epoca abbastanza giovane, ma che sarebbe diventato poi un apprezzato critico e una delle colonna portanti della rivista “Cinema Nuovo” ) a condurre la serata (mi riferisco a Maurizio Del Ministro) che dichiarò però forfait davvero all'ultimo momento... Così, dopo affannosi (e infruttuosi) tentativi per trovare un degno sostituto protrattisi per tutta la giornata, gli organizzatori non avendo altra alternativa, pur di non far "saltare" il tutto, chiesero a me, presente in sala come spettatore  (e quindi assolutamente impreparato ad affrontare l’agone) di prendere in mano la situazione (conoscevano il mio rapporto emozionale con Fellini e la mia “cocente” passione per il cinema) e di salvarli dall’impasse in cui si erano venuti a trovare.

Con una buona dose di incoscienza e un pericoloso eccesso di emozione (che avrebbe potuto giocarmi un brutto tiro), pur sapendo che potevo contare per parlarne soltanto su quanto mi veniva suggerito da quelle precedenti molteplici visioni, decisi di prendere comunque il toro per le corna e onorai prontamente la richiesta entrando con una baldanza solo apparente, nell’arena: in verità, mi tremavano un po’ le gambe, ma se si esclude qualche (comprensibilissimo) balbettio iniziale e un rapporto non proprio ottimale col microfono che a volte, coi gesti che per darmi coraggio accompagnavano sovente le parole, involontariamente allontanavo troppo dalla bocca, credo di essermela cavata abbastanza bene, non tanto nella breve presentazione iniziale, quanto nella gestione del dibattito finale.

Fatta questa premessa introduttiva, cercherò ora di spiegare meglio perché a mio parere con Fellini e il suo coraggioso “bilancio provvisorio” di una vita, si deve parlare di uomo-artista e non di intellettuale (termine nel suo caso abbastanza riduttivo) e non solo per come si pone dentro a questo film che potremmo considerare una grande confessione infarcita di mezze verità – e non è certo un caso che questo avvenga fin dal titolo che, come si è visto, comunica già una piccola, significativa veniale “bugia” che in qualche modo scopre le sue carte - ma per l’insieme della sua opera (che adesso possiamo valutare nella sua interezza).

Andiamo dunque avanti e proviamo a dipanare l’aggrovigliata matassa che ci è stata messa in mano da Fellini sperando di non  perdere troppo il filo durante il tortuoso percorso del racconto, ma soprattutto di riuscirne a ritrovarne sempre il bandolo fra i tanti resisi disponibili, auspicando davvero che sia quello giusto per rendere piena giustizia alla pellicola.

Quello che è certo e che mi viene subito da dire,  è che ci troviamo di fronte – insieme a La dolce vita – all’opera più matura e importante (il suo capolavoro?) di Fellini e a una delle più significative di tutta la storia del cinema, un vero e proprio spartiacque perché “dopo”, volenti o nolenti, si è dovuto fare sempre più i conti con le “innovazioni sintattiche” messe in campo con questo straordinario “esperimento avanguardistico” che scava in profondità nella coscienza di un uomo, ne riproduce le crisi, i sogni, i bisogni e le ambizioni, oltre che le necessità e le cadute.

Quante volte dopo 8½, la critica blasonata trovandosi a parlare di opere di altri autori anche fondamentali, ha dichiarato come in un mantra che con quel tale film pieno di riflessioni personali e di laceranti contorsioni ispirative, il regista di turno, aveva realizzato in pratica il suo personale : Ingmar Bergman con A proposito di tutte quelle signore, Woody Allen con Stardust Memories, persino Bob Fosse con All that Jazz”, tanto per citare i primi titoli che mi son venuti in mente, perché la storia non si ferma certo lì ma arriva fino ai giorni nostri e non solo per il tanto discusso “caso Sorrentino” (Youth in particolare). Di quella speciale fonte ispirativa che ha reso grande il cinema di Fellini, se ne ritrovano infatti tracce evidenti anche in Bellocchio (L’ora di religione), ma senza voler fare la cosiddetta “lista della spesa” che sarebbe davvero troppo lunga, ci si può comunque spingere più avanti fino a Synecdoche New York di Kaufman e a Birdman che ha fruttato al suo regista Alejandro González Iñárritu, ben 4 premi oscar pochi mesi fa (senza tralasciare Nine, il brutto, inutile adattamento in chiave musical di Rob Marchal).

La pellicola ha insomma segnato così profondamente l’immaginario collettivo con le sue affascinanti suggestioni meditative, che molto cinema (anche americano) continua ad essere ancora oggi fortemente condizionato dalle modalità spazio/temporali di e dalla fluida oniricità dei frequenti passaggi di interscambio fra i vari livelli della percezione, utilizzate da Fellini non solo per impaginare il racconto, ma anche per mischiare un po’ le carte di questo suo straordinario “viaggio dentro l’anima”.

Adesso può sembrare tutto semplice, poiché la tecnica ha fatto passi da gigante e non ci si meraviglia più di nulla abituati come siamo a “dare tutto per scontato”. Può di conseguenza risultare persino “eccessivo” (ma solo per qualcuno) parlare di sperimentazione, considerando l’evoluzione del linguaggio cinematografico sempre più accelerata e le nuove frontiere della tecnica che ormai rendono davvero possibile persino l’impossibile, ma dovevate essere in sala (soprattutto la domenica pomeriggio) nel ’63 quando fu distribuito nei cinema di Prima Visione, per ascoltare i commenti stizzosi (e comprenderne “l’azzardo innovativo”) da parte di un pubblico sostanzialmente impreparato a tante novità che non riusciva proprio a districarsi (e per questo finiva per sbottare anche fragorosamente) dentro ai meandri contorti (il suo costante  andirivieni dal piano della realtà a quello del ricordo e da questo a quello del sogno e del “desiderio”) di quello che appariva come un incomprensibile rompicapo, o peggio ancora, come un labirinto senza uscita costruito dal regista per narrare una vicenda già in partenza nemmeno tanto lineare… che poi non era realmente “una storia” (o almeno non lo era, almeno nel senso tradizionale del termine).

Certamente se non ci fosse stato il successo planetario de La dolce vita, nessun produttore gli avrebbe permesso di osare così tanto (e in effetti poi anche Fellini è dovuto scendere spesso a compromessi pesanti con i finanziatori -indipendentemente dai risultati comunque eccellenti nel suo insieme - che gli imponevano però di ricorrere a quello che mi viene da definire come il “fellinismo”conforme del linguaggio, il cosiddetto, riconoscibilissimo “marchio di fabbrica” che rischierà persino di sfiorare la  “maniera” in alcune circostanze marginali, dopo che gli fu preclusa (perché nessun “investitore” si assunse il coraggio di “rischiare”), la possibilità concreta di portare a termine Il viaggio di G. Mastorna, un’altra grande metafora rimasta solo in embrione che – se realizzata – avrebbe davvero potuto allargare e rendere ancora più compiuto, non solo il significato di , ma anche del successivo Giulietta degli spiriti.  

Mastorna (che avrebbe potuto essere il terzo e più ambizioso capo d’opera del suo percorso d’autore) èinvece  rimasto (purtroppo) solo un sogno utopico, del quale al di la delle bozze di sceneggiatura e dell’astratto elenco di un ipotetico cast (con qualche contratto già concluso come quello firmato da Tognazzi per il ruolo di protagonista), possiamo avere adesso solo un piccolo, pallido assaggio “formale” con la “simbolica” discesa all’inferno magistralmente definita nell’episodio Toby Dammitt inserito nel trittico Tre passi nel delirio in cui Felliniadotta uno stile cupo ed inquietante che ben caratterizza questa breve avventura sospesa fra il reale e il fantastico nella sua infedele ma calzante rilettura di Poe.

 

E fu così che la Cineriz, nonostante il successo che comunque rimase cospicuo anche se inferiore alle aspettative (tenendo conto delle risorse investite), cercò di rimediare malamente per fronteggiare le perplesse reazioni del grosso pubblico correndo a suo modo ai ripari (o così credeva di fare) e ottimizzare di conseguenza il rapporto costo/ricavi, adottando nonostante le proteste del regista, una delirante decisione (fortunatamente di poca durata) che per qualche mese alterò gravemente l’equilibrio dell’opera. Così ho ricordato a suo tempo quelle “inaccettabili” intrusioni imposte ignorando il dissenso dell’autore: “dopo le prime perplesse reazioni del grosso pubblico, in affanno evidente e non sempre disponibile a lasciarsi andare per “imparare” da solo a districarsi nell’intricata materia, il produttore, preoccupato per un possibile insuccesso commerciale, decise di intervenire sulle copie in circolazione ricorrendo all'espediente di utilizzare differenti gelatine per colorare con tinte ora ocra ora blu, le scene del sogno e quelle del ricordo, lasciando in bianco e nero solo quelle della realtà, banalizzando così tutto l'operato del regista, e ottenendo quale unico risultato, quello di confondere ancor più le idee per l’impossibilità oggettiva di selezionare perfettamente i vari piani, spesso incastrati a spirale fra di loro”.

 

...Asa , nisi, masa… allora, che poi come ben sappiamo tutti,   ha il significato di "anima", così come la parola veniva declinata in un antico gioco di bambini.

 Si può benissimo partire da qui per ribadire ancora una volta l’insolita maniera con cui Fellini ha scelto di documentare  il momento cruciale di una "crisi" motivata dal venir meno dell’ ispirazione artistica che fa emergere il bisogno primario di uno spassionato, improcrastinabile confronto con se stesso che inesorabilmente finisce per generare una specie di corto circuito dentro a un’esistenza che si è sviluppata (e ha preso forma) stretta fra le colpe non metabolizzate di una infanzia cattolicamente bigotta (la "demonizzazione” del sesso dell'episodio della Saraghina, le sadiche punizioni del collegio, la presenza repressiva dei prelati e il dialogo con l’anziano cardinale) e le pulsioni  verso un irreprimibile desiderio tutto carnale (la maternale presenza dell’opulenta amante, le idealizzazioni nel sogno dove proprio Claudia è una catalizzante figura (concreta e irreale allo stesso tempo) che assume un ruolo a suo modo imprescindibile e predominate, come vedremo in seguito)... che acuisce la necessità  di'immaginarsi (e di far percepire anche allo spettatore), “come sarebbe bello se...” (la scena dell'harem indubbiamente, ma anche la "cavalcata” conclusiva che mi sento di definire  inconsciamente assolutoria e a suo modo riappacificativa, pur restando confinata nel terreno scivoloso del sogno e del desiderio) o di rendere tangibile la nostalgia  pressante del passato (il frequente ritorno alla rassicurante, magica accoglienza di un’infanzia difesa e preservata dalle immense, protettive tette di una balia che rappresentano già per le loro debordanti forme, una calda proiezione di stampo sessuale…).

Ma non è certo e solo tutto qui, visto che come ho già accennato prima, resta anche una pietra miliare nel cammino del cinema verso la modernità,  poiché offre un enorme contributo (che non consente più di ritornare indietro) per la rottura definitiva della drammaturgia intesa in senso tradizionale e il conseguente, necessario rinnovamento delle sue modalità espressive indispensabile per stare al passo.

Chi ha un interesse speciale per i meccanismi dell’arte  e i suoi labirinti psichici, non potrà infatti che rimanere sorpreso (e apprezzerà tantissimo) la bizzarria pirandelliana di questa immagine allo specchio dell’artista, dei suoi processi mentali e delle sue origini materiali e psicologiche (Jean-Michel Frodon, redattore capo del settore cinema di Le Monde)che fanno del film una delle più riuscite elaborazioni (non solo cinematografiche) sul tema dell’atto creativo.

Quello che va in scena infatti è una specie di gioco degli specchi (dove la realtà si mischia – senza soluzione di continuità – all’immaginazione e con questa si confonde) oltre che un appassionato omaggio all’arte come luogo dei sogni e di tutto ciò che esprime “desiderio”.

 

Sappiamo che l’idea del film nasce da un breve soggiorno di Fellini a Chianciano Terme che genererà un primo abbozzo di una storia che  è poi quella di un uomo  qualsiasi (solo successivamente assumerà le sembianze più pertinenti del regista) che, arrivato all’età fatidica dei  quarant’anni e incapace di sottrarsi ai problemi che gli crea il lavoro, entra in crisi durante una sua breve permanenza in una struttura termale che ha momentaneamente interrotto il tran tran consolidato della sua vita.

Immerso in una specie di limbo fatto di fanghi e di vapori, quella è per lui l’occasione giusta per ripensare se stesso e confrontarsi con gli altri come non era mai riuscito a fare prima. Tutto si complica un poco però quando riceve le visite sovrapposte della moglie e dell’amante, cosa che lo indurrà a riflettere anche su ciò che intende ottenere dal futuro.

Una semplice idea dunque, un piccolo appunto programmatico che tramuterà ben presto la presenza di quell’uomo sostanzialmente anonimo, in quella di un regista (fedele specchio di se stesso) a sua volta angosciato dall’impegno di  dover dirige un film “che ancora non c’è” nemmeno sulla carta,  ma che si deve assolutamente fare, e assillato dal confronto con la presenza ossessiva di  tutte le sue donne (del presente e del passato) che lo costringe a scrutarsi nel profondo e a mettersi in rapporto dialettico coi temi universali della vita e della morte.

In questo senso, è anche un film che sembra fatto apposta per interrogarsi (e trovare risposte) sulle relazioni che ognuno di noi intesse con il mondo, i genitori, i colleghi di lavoro e la famiglia, ma che finisce poi per affrontare anche concretamente le difficoltà che rendono complicato confrontarsi non solo con il problema annoso e mai risolto dell’invecchiamento, ma anche con le “paure infantili” mai del tutto sopite che albergano ancora nella mente (e scusate se è poco!) continuando così a fare danni (esistenziali e non) in un confronto sempre più serrato con la memoria, il ricordo e l’immaginazione perfettamente bilanciato fra passato, presente e un possibile futuro solo vagheggiato.

Se vogliamo, si tratta in fondo di un auto-trattamento psicanalitico definito da qualcuno “furbetto” perché un tantino troppo assolutorio ma che io trovo invece, più che “straziante”, addirittura “straziato”, perché ci ritrovo dentro molte delle mie paure, dei miei tabù delle mie omissioni. Un caso  strettamente personale insomma che Fellini riesce a rendere  universale perché nessuno può davvero prenderlo sottogamba o decidere di sbarazzarsene con sufficienza e disinvoltura, visto che ognuno di noi sarà comunque costretto a certo punto della propria vita, a fare i conti con le infinite contraddizioni che il film ci sbatte inesorabilmente in faccia

Ti è stato utile questo post? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati