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QUEL CINEMA CHE AIUTA A (SOPRAV)VIVERE
di alan smithee
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-Metti che il pomeriggio del giorno in cui devi raggiungere la città del tuo primo festival cinematografico del 2015, il mondo ti frana addosso a causa di una spossatezza infinita che ti getta letteralmente a terra, e che non può spiegarsi con l'abituale stanchezza da lavoro unita alle notti insonni dedicate al cinema (spesso “oltreconfine”);

-Metti che ti debbano ricoverare d'urgenza e che tutto salti, anche il programma del carissimo amico recensore che avrebbe dovuto raggiungerti in loco addirittura da Roma;

-Metti ancora che tutto quanto sopra ti succeda alla vigilia di un lungo week-end di vacanza, e proprio per questo in un'ospedale comunque efficiente e colmo di infermieri coscienziosi ed efficienti, ti sottopongano ad una attesa straziante prima di sottoporti agli accertamenti fondamentali: un limbo tutto flebo e prelievi sanguigni che non fanno che confutare i valori preoccupanti che ti hanno condotto in quel posto;

-Metti che, durante l'attesa, ti vengano in mente tutte le peggiori e nefaste previsioni sul tuo futuro, di per sé comunque e pur sempre in parte incerto perché sottoposto alle variabili che incombono su ognuno di noi, seppur in modo o quantità variabili;

-Metti infine che nella valigia che avresti dovuto usare come borsa degli attrezzi del "perfetto recensore dilettante", opportunamente adattata in due minuti per il nuovo triste programma che ti si para davanti, resti almeno un piccolo portatile e un paio di chiavette usb piene di film visti o da rivedere; di quei film che desideri vedere da tempo e non hai mai il tempo di far tuoi o riguardare un pò con calma;

 

Ebbene quel cinema - composto da film quasi tutti d'eccellenza, ma anche disparati, eterogenei, poco o per nulla affini uno dall'altro se non eventualmente a due a due per essere opere culto o particolarmente travagliate e discusse di uno stesso celebrato autore – quel cinema dicevo, ha dimostrato una volta su tutte, per quanto ne fossi già da tempo, almeno teoricamente, certo, di essere un indispensabile, vitale , straordinario viatico che, unito all'affetto indispensabile ed ancor più importante e prezioso che risiede in parenti ed amici di cui non potresti fare a meno, ti consente di andare avanti e superare le incertezze, i dubbi, i brutti pensieri che nell'attesa, unita ai sintomi del malessere, ti si parano innanzi come muri oscuri ed insuperabili.

 

Non voglio dilungarmi su aspetti privati o personali (comunque il problema pare sia, per fortuna, risolto o risolvibile in poco tempo), ma piuttosto parlarvi di quel cinema, puntando addentro, nei limiti di quanto sono in grado di fare, ad opere che vedo o rivedo con un entusiasmo che mi fa bene, ora posso affermarlo: mi fa proprio bene, alla salute e al morale.

Mi spiace di aver mancato un festival a cui tenevo e che avrei seguito per il secondo anno come accreditato ufficiale di questo sito. Spero nel contempo di essere in condizione di seguire Cannes e tutta la baraonda che ne seguirà.

Se così sarà, mi troverete su questi territori molto presto.

 

Alan.

 

HIROSHIMA MON AMOUR

locandina italiana versione restaurata 2014

Hiroshima, mon amour (1958): locandina italiana versione restaurata 2014

“Tu da ora e per sempre sarai Hiroshima” - “ E tu Nevers”.

L'insensata stupidità della guerra, le divisioni e gl antagonismi che crea, sono superati e resi ancor più illogici, incomprensibili, dalla forza dell'amore, che si manifesta come una forte attrazione sessuale tra un'attrice francese recatasi su un set di un film internazionale di argomentazioni ed ambizioni pacifiste nella città di Hiroshima, ed un distinto giovane uomo d'affari del posto, suo coetaneo.

“Quattro volte ho visto quel museo e le sue testimonianze“ confida la donna al suo amante per cercare di fargli comprendere che conosce bene ciò che la storia drammaticamente racconta.

“Tu non hai ancora visto niente” risponde ripetutamente, inflessibile e imperturbabile lui, mentre immagini terrificanti delle conseguenze dello scoppio atomico sulla popolazione, nonché lunghe suggestive carrellate tra i corridoi d'ospedale s alternano a dinamiche architetturali geometriche che sanno di nuovo, di ricostruzione dopo il devasto e la cancellazione.

Solo dopo quindici minuti quasi documentaristici scanditi da un energico alternarsi di battute, il gran regista Alain Reisnais sceglie di mostrarci finalmente i suoi due protagonisti, avvinghiati nudi uno sull'altro, dopo l'atto della passione: a ricordare l'uno, e a cercare di comprendere l'altra.

Poi l'intima scoperta di sé stessi si allarga coinvolgendo la sfera intima e sentimentale di entrambi, facendo emergere da un lato la stabilità di situazioni familiari apparentemente cristalline, realizzate e felici, e dall'altro una vicenda amorosa contrastata nel passato della donna, proprio ai tempi di quella guerra mondiale la cui fine fu drammaticamente suggellata dallo scoppio della bomba sulle due città nipponiche. Un amore proibito e contrastato dalle circostanze, di cui l'amante giapponese diviene l'unico depositario delle confidenza della donna, che prima d'ora ad alcuno ha mai confidato la vicenda nei suoi intimi e scottanti particolari; una storia clandestina tra la giovane ragazza delle campagne di Nevers, cittadina nata con ambizioni di grande capoluogo sulle rive sabbiose della Loira, ma rimasta una tipica, angusta cittadina di provincia, ed un soldato tedesco. Una passione coltivata nella clandestinità della campagna francese, che avrà una conclusione drammatica e con lunghi e amari strascichi psicofisici sulla giovane perdutamente innamorata.

Hiroshima mon amour è il capolavoro di una cinematografia di per sé altissima da parte di uno dei più importanti cineasti francesi del '900, quale è incontestabilmente Alain Reisnais.

Ma è ancora di più la dimostrazione forte e convinta che l'amore ed il sentimento sono più forti di ogni traversia e conflitto internazionale, politico o razziale. La testimonianza che, almeno singolarmente, privatamente, l'amore non ha pregiudizi o ideologie, ma che al contrario sono i fenomeni di massa, le correnti di pensiero, gli antagonismi ideologici, a creare barriere, muri, o i crateri devastanti e perenni che una bomba come quella su Hiroshima ha procurato, non solo fisicamente, alla storia dell'umanità.

Dialoghi serrati in una sceneggiatura limpida e travolgente di passione e sentimento, che portano la firma illustre di Marguerite Duras. Una direzione che si posa sui corpi senza indulgere in manierismi, ma nemmeno senza eccedere in moralismi o falsi pudori, in quegli anni pressoché dilaganti.

Emmanuelle Riva è indimenticabile, intensa e determinata, forte anche quando deve cedere al mondo che la giudica e ne prende le distanze: il suo bel volto giovane, vagamente triste ed espressivo ci ricorda, trasponendola nel tempo, una sua potenziale figlia d'arte che potrebbe essere Marion Cotillard.

VOTO *****

 

QUARTET

Isabelle Adjani in una scena del film

Nella Parigi degli anni '20, le vite di due coppie di ceto e culture differenti si incrociano interferendo, aiutandosi non senza interesse, affrontandosi a parole e fisicamente, mostrando una volta per tutte l'ineluttabile impossibile convivenza di due sfere sociali così diametralmente opposte.

Da un romanzo di Jean Rhys, la fedele ottima sceneggiatrice indiana Ruth Prayer Jabvdala, trae una testimonianza di costume d'epoca che una direzione accurata ed efficacemente di maniera, coerentemente laccata ad opera di un James Ivory che, assieme al produttore Ismail Merchant, darà vita per almeno tutti gli anno '80 e '90 ad un terzetto perfetto e fortunato, perspicace e particolarmente a suo agio nel negli adattamenti di romanzi d'epoca famosi (tra questi la trilogia su E.M. Forster iniziata col celebratissimo ed indimenticabile Camera con vista, proseguito con lo “scandaloso” Maurice e termnata con un riuscito, quasi perfetto Casa Howard), riesce ad anticipare appunto un epoca d'oro per gli adattamenti in costumi otto-primonovecenteschi.

Una donna francese, Marya, sposata con un mercante polacco dai modi truffaldini, viene ospitata nella casa di una coppia di facoltosi britannici di mezza età, tutti portesi a vincere la noia dividendosi tra i salottie ri ristoranti di grido nella Parigi euforica del Primo Dopoguerra.

La bellezza della giovane donna (una smagliante Isabelle Huppert dall'occhio azzurro oceano che abbaglia) la condurrà presto ad essere circuita dalle attenzioni del mellifluo e risoluto capofamiglia (Alan Bates, efficacemente ursino), insoddisfatto della vita piatta seppur apparentemente spumeggiante con la rassegnata moglie inglese (Maggie Smith, che con Ivory farà faville da Oscar in Camera con vista).

Ultimo elemento del quartetto, il seducente e scaltro marito della giovane, mercante d'arte e ladro quando l'occasione si presenta, è reso con efficacia dal tenebroso Anthony Higgins, un viso che comunica attrazione e diffidenza allo stesso tempo.

VOTO ***1/2

 

IL SALARIO DELLA PAURA

Dal racconti The wages of fear, du Georges Arnaud, già ottimamente trasposto al cinema da Henry-George Clouzot con Vite Vendute del 1953 (Le salaire de la peur), forte anche di Yves Montand e Charles Vanel, il regista ormai mito William Friedkin, reduce dal successo planetario de L'esorcista, si butta per quattro anni nel progetto più rischioso, azzardato, imponente e disgraziato – ma qualitativamente forse il suo punto più alto della carriera – con una nuova versione della drammatica epopea di quattro uomini alle prese con una missione impossibile.

Il titolo italiano riprende quello originale francese, ma Friedkin, non dimentico delle atmosfere sataniche del suo successo precedente, già dal titolo originale (Sorcerer) e dalla prima inquietante inquadratura su un bassorilievo dalle sembianze luciferine o comunque maligne, ci riporta alle atmosfere inquietanti della sua precedente esperienza. Che riangono comunque impresse in tutta la pellicola lungo tutta l'epopea,narrata con gran stile partendo dal racconto delle quattro esperienze che hanno condotto gli altrettanti fuggitivi a trovarsi esiliati in un devastato ed inospitale paese del Sudamerica, a lavorare come operai di fatica presso una industria estrattrice di petrolio.

Lo stile maturo e retro, esemplare a tutti gli effetti della narrazione che ci ricorda John Houston dei grandi film anni '50, si adatta alla perfezione ad un film meraviglioso, una epopea senza tempo che finì per essere funestata da contrattempi atmosferici (gli stessi che si intravedono e rendono grande la pellicola in molte concitate situazioni al limite del precipizio o della fine) e traversie di ogni tipo, che bloccarono in più riprese la produzione rischiando di mandare a monte un progetto faronico e dai costi lievitati in modo spropositato.

Il film infatti fu un disastro al botteghino, snobbato, non compreso o valorizzato appieno forse neppure dalla critica di quegli anni.

Di fatto oggi un capolavoro di narrazione e dosaggio di suspence: un film che concede tempo per sviscerare le varie vicende che andranno ad introdurre quella principale, e che si snoda inflessibile e crudele esercitando sui quattro personaggi quell'ironica devastante punizione da contrappasso che li rende, ognuno a loro modo, delinquenti e traditori, ma anche così umani e poco avvezzi ad essere giudicati per le loro turpi azioni compiute in terra civile.

Bruno Cremer dall'occhio fieramente ceruleo è un bancario scaltro sull'orlo del tracollo, Roy Scheider un brigante di mezza tacca che porta alla disfatta un grosso colpo ai danni della chiesa; Francisco Rabal un killer spietato in fuga per depistarsi, ed Amidou un terrorista israeliano fuggito dopo un sanguinoso attentato.

La feccia della Terra alle prese con una missione – questa si - davvero impossibile, che trova il modo per tentare di riscattarsi, guadagnando in dignità ed onore, seppur mossi di base ancora una volta dal lucro e dalla fame insaziabile di ricchezza.

I due mezzi di fortuna che conducono le due coppie hanno l'aria sinistra e diabolica che si conviene al regista, alla immagine iniziale del film, al suo titolo sinistro e alla vicenda nel suo complesso, che sadicamente dimostra come nulla possa essere perdonato, e come la fortuna sembra un miraggio sempre troppo vicino da raggiungere rispetto all'effettiva distanza che da essa ci separa.

VOTO *****

 

CRUISING

“Questo film non intende dare alcun giudizio di massima sul comportamento e le abitudini di vita omosessuale. Ma è ambientato in un limitato contesto che, come tale, non pretende di rappresentarne le caratteristiche dell'intero suo ambito”.

Precisazione doverosa e necessaria dopo il polverone che il noto e quasi scomparso dalla circolazione film di Friedkin suscitò sia tra la collettività in generale, scandalizzata da certe rappresentazioni sado-maso delle serate newyorkesi di alcuni quartieri gay, ma soprattutto dalla comunità omosessuale americana, che decise di boicottare il film per il messaggio deviato e tendenzioso che il film, a loro avviso, faceva emergere sulla figura dei gay nell'America di quegi anni.

Dopo il noto film degli esordi “Festa per il compleanno del caro amico Harold”, per anni film baluardo sui tratti della società omosessuale statunitense che vive e si raduna rivendicando le proprie attitudini ed interessi e cercando nel contempo di tringersi in cerchio per fare valere una sorta di parità di diritti e dignità civica - il grande regista William Friedkin torna a calpestare terreni scottanti che portano automaticamente in territori e tematiche legate alla discriminazione e alla tutela delle minoranze.

Di fatto un thriller teso e crudo, dalla magnifica oscura ambientazione dark, ulterormente sporcata di sangue dalle gesta efferate di un implacabile serial killer che uccide maschi trentenni bruni e di media altezza, sventrandoli e seviziandoli orrendamente.

La polizia brancola nel buio e il Governatore pretende delle risposte certe ad indagini che invece rimangono senza traccia concreta alcuna.

Il pingue capo della polizia Paul Sorvino si affida alle qualità fisiche, al coraggio e alla perspicacia di un giovane poliziotto, Al Pacino - qui in una delle sue migliori interpretazioni dai tempi di “Quel pomeriggio di un giorno da cani “ e “Serpico” - che si introduce, anima e corpo, nel mondo dei cbar-cruisng e della vita notturna omosessuale di quegli ann nei quartieri più morbosamente frequentati dalla comunità abituata a piaceri forti e pratiche sado-maso.

Ma l'assassino continua a colpire, col suo coltello da bistecca che erroneamente indirizza i sospetti su un cameriere, depistando le indagini già problematiche sul vero responsabile.

Magnifiche ambientazioni notturne, una versione italiana mutilata in modo inaccettabile ed incomprensibile, che necessita in modo vitale delle integrazioni in lingua originale presenti in alcune versioni; un film che non fa nulla per accattivare e rendersi piacevole, ma un nuovo tassello fondamentale e prezioso per la carriera di uno dei massimi registi americani di ogni tempo, almeno a mio intendere.

VOTO ****

 

I CANCELLI DEL CIELO

I Cancelli del cielo sono in realtà le porte degli inferi, il confine oltre il quale la bestialità e l'avidità umana rendono il branco come un'orda famelica che procede, tramite giustizia sommaria, alla rivendicazione di diritti di sfruttamento e proprietà che in realtà non esistono.

Una violenta contesa che oppone tirannici e facoltosi allevatori di bestiame ad oltre un centinaio di contadini russi immigrati nelle splendide e fertili terre del Wyoming per contivarle, acquisendole in base a regolari certificati di proprietà che gli allevatori disconoscono e rendono nulli, portando alla miseria e alla fame una intera comunità, costretta allo stato di indigenza, e dunque a rubare e macellare di nascosto qualche capo di bestiame, venendo puntualmente scoperti e fucilati all'istante.

Un ricco ex brillante universitario di nome Averil, trasferitosi in quelle terre e divenuto sceriffo della contea vicina a quella della disputa, si offre di aiutarli e proteggerli, inimicandosi i ricchi allevatori, che arrivano a stilare la cosiddetta “lista della morte”, che racchiude circa 150 uomini e donne da giustiziare sommariamente per eliminare quel problema ingombrante ed irrisolvibile.

Ma I Cancelli del cielo è fatto anche di una potente, contrastata storia d'amore tra lo sceriffo democratico (Kris Kristofferson, cantante country ed attore, qui impegnato nel suo miglior ruolo della carriera cinematografica comunque tutt'altro che sporadica ed occasionale), un freddo avvocato-killer di nome Billy Irvine, che sceglie inizialmente di difendere la parte degli allevatori (Christopher Walker magnifico, nuovamente nelle mani di Cimino dopo lo straordinario successo de “Il cacciatore”), salvo poi rendersi conto – troppo tardi – dell'orrore e dell'ingiustizia che essi stanno perpetrando ai danni di una comunità pacifica e laboriosa: due uomini che si contendono la bella e minuta, ma oltremodo tenace e coraggiosa, indipendente Ella, graziosa prostituta di origini francesi che entrambi amano e cercano di fare propria.

Sarà Ella – una Isabelle Huppert in quello che resta uno dei suoi ruoli migliori e potenti, sena nulla togliere alla sua pur variegata e duttile carriera, spesso anche a livello internazionale - anch'essa finita nella lista della morte a causa dell'usanza a venir pagata anche con bestiame di dubbia provenienza in luogo del denaro - suo malgrado, a fare la propria scelta, salvo poi adeguarsi ai drammatici eventi del destino e scegliere la soluzione di ripiego, amara per entrambi gli amanti sopravvissuti, e tragica nel suo epilogo inesorabilmente scritto nel destino della coraggiosa e minuta donna.

I cancelli del cielo, funestato da problemi produttivi dettati anche dal desiderio del gran regista Michael Cimino di dare sfoggio a tutta la sua vena creativa e rappresentativa, che risulta di fatto uno dei punti forti di un western potente, magniloquente e magnifico – uno dei migliori degli anni '80 – se non il migliore, ha portato al fallimento della nota casa di produzione United Artist incassando nemmeno un decimo del suo costo complessivo, lievitato oltre misura.

Ma, ripeto, il film è un capolavoro assoluto, forse la punta massima di un regista che ha diretto pochi film ma tutti, a loro modo ,fondamentali o notevoli, e che tuttavia stentò a riprendersi dopo la delusione degli incassi rovinosi accusati dea una pellicola non compresa, boicottata, non appoggiata come avrebbe meritato, e rivalutata troppo tardi.

Grandi scene madri introducono già all'inizio un'epopea della sopravvivenza che risulta un percorso verso il massacro; splendide e scenografiche inquadrature delle magnifiche vallate ubertose dello Wyoming divengono protagoniste al pari degli eccellenti attori coinvolti: oltre ai già citati segnalo altresì il perfido Sam Waterston, John Hurt, Brad Dourif, Jeff Bridges, un giovanissimo Mickey Rourke che ritroverà in più occasioni la direzione del grande regista italoamericano e, in un cameo all'inizio, il grande vecchio Joseph Cotten.

Cimino si prende tutto il tempo necessario per introdurre uno scontro sanguinoso che si inserire come una delle innumerevoli pagine sanguinose che hanno caratterizzato la nascita di una nazione oggi baluardo dichiarato di democrazia e giustizia sociale.

E in tutto questo ammaliante festival di grandiosità e spettacolarità, sono i cieli infiniti e coreografici delle terre del nord a rimanere indelebili nella mente dello spettatore, le montagne rocciose e leggermente innevate, i prati erbosi pettinati dal vento che declinano dolcemente al fiume, la vegetazione floreale che dipinge di rosa un paesaggio quasi incantato, un paradiso al cui limitare la pochezza e l'avidità umana danno luogo ad un vero e proprio inferno di violenza e sopraffazione.

Il contrasto potente ed esuberante tra l'aspetto angelico e paradisiaco dell'ambiente circostante, e – di contro – la cattiveria senza limiti che anima le menti umane, raggiungono vette espressive e stilistiche davvero insuperabili.

VOTO *****

 

COLD FISH

locandina

Cold Fish (2010): locandina

Con Cold Fish la vena schizoide e sanguinolenta di Sion Sono raggiunge probabilmente il suo apice. Di fatto Cold Fish, thriller furioso e splatter che rasenta la follia onirica di altri autori dell'est come Kim Ji-woon nel sadico riuscitissimo I saw the devil, celebra la lenta, progressiva trasformazione del coniglio in lupo vorace, del mite individuo senza carattere, dalla vita grigia, succube ed incolore, in un focoso autoritario aguzzino nei confronti della famiglia che si ribella dalle proprie responsabilità e ruoli.

Un mite negoziante, proprietario di un piccolo negozio di animali specializzato in pesci d'acqua dolce, vive con la seconda moglie e la figlia avuta dal primo matrimonio.

La avvenente moglie lo aiuta nella conduzione del negozio, e svolge svogliatamente i compiti domestici, prodigandosi nella preparazione di cene al microonde che fanno seguito a shopping distratti e frettolosi. La figlia non accetta la matrigna ed il contrasto tra le due donne crea un'atmosfera esplosiva che si avvampa in ogni occasione.

Quando la figlia viene colta in flagrante mentre taccheggia in un supermercato, la situazione viene salvata in extremis dall'intervento salvifico di un energico commerciante che, grazie alla sua intraprendenza e capacità di persuasione, convince il derubato a non sporgere denuncia.

Poco dopo tale individuo, che viaggia in una fiammeggiante Ferrari e non nasconde l'agiatezza che lo contraddistingue, si rivela come il titolare del più grande negozio specializzato in acquari d'acqua dolce della città.

Ma anziché congedarsi con quell'episodio, il ricco commerciante coinvolge il mite protagonista in una serie di iniziative tra cui l'assunzione della figlia nel grande negozio del concorrente, ed una serie di strampalate operazioni finanziarie in qualità do socio d'opera che tenti di persuadere facoltosi finanziatori a partecipare all'impresa, salvo poi ucciderli brutalmente.

Si, proprio nel modo più crudo e grandguignolesco si possa pensare: avvelenati, sezionati, bruciati e dati in pasto ai pesci in isolati ruscelli di montagna, celebrando un rito quasi esoterico nei pressi dei ruderi di una desolata chiesa cattolica abbandonata.

L'orrore e la discesa negli inferi dell'indicibile, riusciranno tuttavia a forgiare, in un modo inaspettato, il carattere mite ed inoffensivo del grigio protagonista, che saprà ribellarsi al ricatto senza uscita in cui si trova coinvolto, uscendone come un uomo diverso, autoritario e implacabile.

Gran thriller d'atmosfera che celebra la mattanza furente e incontrollabile come la rappresentazione quasi artistica e coreografica di una personalità deviata dalla eccessiva incondizionata obbedienza a regole e vincoli che sono appannaggio dei deboli e dei debosciati, di coloro che si accontentano delle briciole di quel poco che avanza dopo che i furbi, gli arroganti, gli squali, si sono divisi i pezzi migliori.

Una storia terribile ed allucinata, che si completa di momenti e situazioni familiari che denunciano il degrado dei valori e della considerazione dei doveri irrinunciabili che risiedono nell'appartenere responsabilmente ad un nucleo famigliare.

Grandi magnifiche scene grandguignolesche di lotta nel sangue, combattimenti ed accoltellamenti girati con grande maestria in lunghe scene certamente difficoltose, ma che il gran regista giapponese dimostra di saper gestire e coreografare con la sinistra, luciferina, innata abilità che da sempre figura tra le più evidenti doti di un cineasta prolifico ma anche eclettico.

Magnifico il primo piano-sequenza che riprende la spesa svogliata e distratta della giovane seconda moglie del protagonista, intenta ad acquistare i prodotti surgelati che costituiranno la distratta cena preparata a tempo di record poco dopo la chiusura del negozio di acquari.

VOTO ****

 

L'ANNO SCORSO A MARIEMBAD

L'arte del corteggiamento, che sia esso inganno premeditato ovvero tentativo appassionato di persuadere la donna amata dell'esistenza di un sentimento nato in un recente passato - che tuttavia pare celato nei meandri più bui ed inaccessibili di una mente tormentata e confusa - trovano nel gran cineasta Alain Reisnais lo strumento più opportuno ed indispensabile per celebrarne il resoconto.

Muovendoci come a passo di valzer tra i corridoi austeri sormontati da specchi altrettanto imponenti, raggiungendo stanze addobbate a festa, colme di arazzi e sontuosamente arredate, lungo i giardini di una reggia maestosa che pare Versailles (ma si tratta di una dimora principesca della Baviera situata proprio a Marienbad), la voce duttile e sinuosa di Giorgio Albertazzi ci introduce, da perfetti visitatori e come in attesa di un giudizio, all'interno di un mondo sofisticato dove un galante e fin mellifluo corteggiatore cerca di indurre una bellissima donna, presente in quella dimora assieme al consorte, che tra di loro esiste un legame intenso dovuto ad una storia d'amore consumatasi l'anno precedente in una imprecisata località esotica o di vacanza.

Il film, tra i più noti di Reisnais e premiato nel lontano '61 con il Leone d'Oro a Venezia, è un coinvolgente, ma per questo facilmente accessibile, balletto di ricordi ed emozioni che l'uomo tenta di far rivivere nella mente rigida, quasi frigida, di una donna che non ricorda o non vuole ricordare.

Nel dubbio perenne e non svelato se sia l'uomo un millantatore di gran classe ed irriducibile, o invece la donna una smemorata irrecuperabile (ovvero una nobildonna che si impone di dimenticare una infedeltà scomoda o pericolosa), il film di Reisnais sorprende per la modernità rivoluzionaria ed anticipatrice della sua struttura e del suo montaggio: pochissimi attori, ripresi nella fissità di atteggiamenti ed espressioni; camera mobilissima tra corridoi e salotti di una dimora regale che si contrappone alla immobilità di certe scene di massa, dove la staticità dell'insieme viene rotta dal movimento dei soli due attori protagonisti o del terzo incomodo.

Un film che si discosta enormemente dal filone realista che ancora in quegli anni, o proprio in quel periodo, persisteva o rinasceva con registi come Pasolini ed il suo Mamma Roma.

E finisce per essere anche un dissacrante ritratto di una alta borghesia atteggiata e demodé, persa nei suoi giochi di società (quello dei fiammiferi disposti a piramide pare fece tendenza) e vuota od ostile ad accettare un sentimento reale, ma troppo scomodo per poter essere esibito o anche solo rivissuto di nascosto.

VOTO ****

 

 

 

 

 

 

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