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The Walking Dead ovvero il grande racconto americano
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Si può ben dire che The Walking Dead sia le serie televisiva di maggior successo di tutti i tempi. Ideata e sviluppata ai suoi inizi da Frank Darabont, e tratta da una delle graphic novel a puntate più entusiasmanti di sempre, a detta dei suoi lettori, appunto The Walking Dead, scritta da Robert Kirkman, anche produttore esecutivo dello show, la serie è uno dei gioielli dell’emittente AMC, nonché successo planetario di portata indescrivibile per una serie tv, con un’accoglienza in patria superiore a quella riservata alla già apprezzatissima serie di casa AMC, Breaking Bad (2008). Un successo quindi, che va dai circa 5 milioni di spettatori del pilot fino ai quasi 16 milioni dell’ultima puntata della quinta stagione.

Broken Trail (2006), Mad Men (2007), Breaking Bad (2008), The Walking Dead (2010) e Hell on Wheels (2011), tutti titoli di serie tv della American Movie Classics di grande successo sia di pubblico che di critica. Due western, un horror e due drammi fuori dagli schemi canonici, a conferma che il genere può sempre e ovunque, là dove l’autorialità sofisticata europea fa ancora acqua.

The Walking Dead è, a conti fatti, un film horror di 5.895 ore. Altro che Heimat (1984; 15h40’). La serie AMC è puro cinema. Non credo di avervi scorto nessun limite televisivo e nessuno stile tipico della narrazione da piccolo schermo. Se escludiamo i cliffhanger con cui terminano quasi tutti gli episodi di tutte le stagioni, tecnica ormai comune, ahinoi, anche nella serialità cinematografica, in The Walking Dead non troviamo altri link al mondo finzionale televisivo. I personaggi, seppur stupendamente fumettistici, sono complessi e pieni di sfumature; il linguaggio utilizzato è praticamente cinematografico, dalle inquadrature alla fotografia, dalla coreografia del quadro alla set decoration; per non parlare del testo, un grande lavoro di sceneggiatura, e degli effetti speciali, in cui il digitale è usato quel poco che serve per contenere i costi degli incalcolabili fiotti di sangue, ma la “materia zombesca”, i corpi, i cadaveri deambulanti, le loro frattaglie, le loro mutilazioni e la loro orrida consumazione è uno splendido lavoro di make-up che ci fa tirare un sospiro di sollievo. Plasticone vs. digitale: 10-0.

Dal cinema inoltre, arrivano molte citazioni. La serie di Darabont è debitrice al George Romero di La notte dei morti viventi (1968): dopotutto, gli zombi sono i suoi, lenti, goffi e a tratti pure buffi, mentre arrivano da Il giorno degli zombi (1985) tutti i sottotesti militareschi e le critiche intrinseche al mondo militare. L’incipit apocalittico è direttamente preso da 28 giorni dopo di Danny Boyle (2002), mentre l’accozzaglia di putrefatti che si smembrano in scene di massa, è un chiaro omaggio al Planet Terror di Robert Rodríguez di Grindhouse (2007).

Ma Walking Dead non è solo una serie di spettacolare intrattenimento, soprattutto di matrice orrorifica, e nella fattispecie zombesca, con tutti i suoi rimandi e le sue seconde e terze letture, ma è anche una delle migliori ricreazioni contemporanee del grande racconto americano. Chi studia letteratura nordamericana sa già dove voglio andare a parare. Allo stesso modo, chi conosce bene il cinema a stelle e strisce non farà fatica a ritrovare temi e moduli narrativi tipici della cultura americana.

Innanzitutto, Walking Dead è un western. L’iconografia base della serie arriva dal mito della frontiera e dalla mitologia che ruota intorno alla figura del cowboy. Il protagonista, Rick Grimes, è uno sceriffo di vecchia scuola, erede diretto del classico cowboy dell’immaginario nazionalista americano alla Gene Autry (1), difende bambini, donne, anziani e animali e rispetta le leggi del suo paese. Inoltre, nelle prime puntate della prima stagione, lo vediamo spesso a cavallo, a completamento della figura del mitico centauro. Eredità western sono anche i continui duelli, i faccia a faccia, e le città fantasma, deserte, distrutte e popolate da morti viventi – suggestivo il pilot in cui lo sceriffo entra in città a cavallo; ma non solo, la prigione della terza e quarta stagione è l’Alamo da difendere ad ogni costo, tanto quanto la distopica cittadina di Woodbury, così come la bucolica tenuta di Hershel Green è il locus amoenus dell’idillico ranch anglosassone, protetto e governato dalla parola di dio. E poi le armi da fuoco (yankee) e quelle da taglio (indios), gli zombi come gli indiani, il paesaggio naturale che, se non è proprio l’arido deserto texano o californiano, è sempre simbolo di una wilderness ostile e misteriosa.

In secondo luogo, i personaggi, almeno quelli ricorrenti, non nascono così a caso. Ognuno di loro, credo come nell’originale letterario che non conosco, conserva lo stereotipo delle grandi icone della cultura americana e occidentale. Non solo il classico cowboy, l’uomo di legge, Rick Grimes, ma anche il cavaliere nero, Shane, che in origine era invece il cavaliere bianco di Alan Ladd; e non è un caso che l’anima nera dello sceriffo, impersonificata dall’amico fraterno, Shane appunto, si chiami proprio come il classico eroe de Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens (1953) ed eserciti sul giovane Carl, figlio di Grimes, lo stesso fascino che Alan Ladd esercitava sul figlio di Van Heflin.

Abbiamo anche il cavaliere solitario, il Selvaticus, l’ultimo dei Mohicani, ovvero Daryl; abbiamo l’adolescente riottoso che vuole crescere lontano dal padre e dalla madre, il bad bad boy sul modello twainiano di Huckleberry Finn; la Mother Duston rivive senza tomahawk nel personaggio di Lori e continua con Carol; abbiamo due senis: Dale, il vecchio saggio, ed Hershel il vecchio uomo di dio. Le dramatis personae, le maschere del dramma, credo abbraccino così uno spettro molto ampio dei tipi americani ed occidentali.

A colpire è comunque la modulazione narrativa, così sintetizzabile: 1) una minaccia esterna che mette in pericolo il gruppo/famiglia; 2) un viaggio, uno spostamento, attraverso la natura selvaggia, città fantasma e rifugi d’occasione; 3) la strenua difesa del “fortino” dalla minaccia esterna; 4) l’evoluzione involutiva dell’uomo messo di fronte ad un pericolo mortale.

A questi pilastri narrativi vanno aggiunte tutte le sottotrame che a più livelli innervano la narrazione: il rapporto padre figlio, la dualità oppositiva tra amici fraterni (Rick/Shane), il senso della famiglia, il ruolo della scienza e della ragione, i lutti che colpiscono i nuclei familiari, l’interrogativo divino e infine la difficoltà dell’adolescente in un mondo devastato – la puntata 4x09, “Smarriti” è un piccolo gioiello.

La sessualità è invece bandita dalla serie. Le scene di copula si possono contare sulle dita di una mano. Non una tetta, non un culo, nulla di nulla. A differenza della tendenza moderna al nudo integrale, anche maschile, in Walking Dead tutto questo non succede. Perché? Perché il bisogno di carne, l’ossessione per il corpo e altre varie morbosità in linea con Eros e Thanatos sono già soddisfatte e subliminate dalla costante presenza dei corpi zombeschi, con i loro evisceramenti, i loro cannibalismi e le loro decomposizioni.

I livelli di lettura sono molti. Proprio grazie ad una modulazione narrativa tipica del racconto americano – Minaccia-->Difesa – è possibile rintracciare spunti di riflessione che da sempre compongono l’orizzonte critico americano. Il gruppo giusto è il proprio, la propria famiglia, i propri accoliti, mentre gli altri sono i nemici, gli uomini di cui diffidare. Da qui, il passo verso l’involuzione dell’uomo democratico sul modello classico del cowboy in quello dell’uomo antidemocratico sul modello imperiale-militaresco, è breve. Il personaggio di Rick Grimes è dopotutto l’emblema scespiriano, duro a morire, dell’America post 11-settembre. Il potere, l’ossessione per il potere e per la difesa, diventano un cancro, una mostruosità che divora da dentro l’uomo e lo rappresenta fuori da esso attraverso il mostro, lo zombi.

Anche la formazione di un esercito contro gli “ostili”, come li chiama il Governatore edulcorando i propri nemici, piuttosto che lo spettacolo brutale della lotta tra zombi e umani – piccola mise en abyme dei reality e dei talent di oggi – sono gli ulteriori step che raccontano come gli USA si sono formati, organizzati e infine imposti alla massa.

Dapprima hanno conquistato la natura selvaggia, poi lottato contro gli indiani e in seguito hanno iniziato ad organizzarsi, prima democraticamente ispirandosi ai modelli filosofici più illuminati, successivamente tradendo questo spirito pacifico in nome della continua conquista, della continua dominazione, dell’esercizio perpetuo del potere assoluto. L’America deve sempre trovare qualcuno con cui fare la guerra. Indiani, alieni, russi, terroristi islamici. La sua miopia a riguardo è svelata in quasi tutto il suo cinema migliore: il nemico è in casa, è nella propria famiglia. Come sedare tutto questo? Semplice. Zombificare la massa, dargli in pasto la “carne” del presunto nemico attraverso spettacoli televisivi brutali che funzionano catarticamente – mors tua, vita mea – e il gioco è fatto. È il dominio della lotta impari come dinamica sociale; come collante del tessuto gerarchico sociale.

Tralasciamo le riflessioni sulla carne e sull’adolescenza, temi fondamentali della cultura americana, qui in The Walking Dead ben trattati e ben resi, perché in conclusione, il dito va puntato su una parola in particolare: sopravvivenza.

The Walking Dead è un vero e proprio survival-movie, maschio e vigoroso, senza orpelli femminili e gossippari e nessuno strascico queer, se non nella coppia omosessuale e non macchiettistica che arriva a fine quinta stagione. Questo è il tema principale tra i tanti temi secondari che la serie tratta. Le scelte etiche che la serie propone, non sono risolte con ingarbugliate rese moralistiche. Lasciano piuttosto il dubbio, insinuano l’ambiguità del male e la debolezza del bene. Postulando l’universale questione, giocata su immagini tipicamente americane, se meglio essere macellaio o bestiame, Walking Dead mette alle corde secoli di americanicità e di goffi tentativi di difendere gli orrori e i soprusi alle fondamenta di tale americanicità.

La domanda non è tanto “come sopravvivere agli zombi”, quanto invece “come sopravvivere alla mostruosità che abbiamo intorno e restare esseri umani”. Cosa siamo disposti a fare per salvare i nostri figli, i nostri amori, la nostra stessa vita, se tutto intorno sta crollando, disumanizzandosi? Riusciremo a restare esseri umani in un mondo di mostri?

Note:

(1) Il decalogo del cowboy che Gene Autry stilò negli anni ’40 per i suoi giovani ascoltatori, prevede che: 1.Un "cowboy" non approfitta mai di un vantaggio sleale, anche nei confronti di un nemico. 2.Un "cowboy" non tradisce mai la fiducia. 3.Un "cowboy" dice sempre la verità. 4.Un "cowboy" è gentile coi bambini piccoli, le persone anziane e gli animali. 5.Un "cowboy" non ha pregiudizi razziali o religiosi. 6.Un "cowboy" è pronto al soccorso e quando qualcuno si trova in difficoltà, tende una mano. 7.Un "cowboy" è un buon lavoratore. 8.Un "cowboy" è pulito nella persona, nel pensiero, nella parola e nell'azione. 9.Un "cowboy" rispetta le donne, i genitori e le leggi del suo paese. 10.Un "cowboy" è un patriota.

 

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