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American Sniper: non una recensione
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Ieri sera ho visto, nell’anteprima destinata alla stampa, a Milano, il nuovo film di Clint Eastwood, American Sniper.

Non scriverò una recensione, che è solitamente un testo che culmina o si sintetizza in un’indicazione sul valore dell’opera e che dovrebbe incitare alla visione o dissuadere dal vederla. Mi auguro di riuscire a non farvi sapere da questo testo se il film mi è piaciuto o se lo reputo di valore. Posso quindi solo dirvi che se andrete a vederlo vedrete un film sulla guerra e “di guerra”, che vedrete un film molto patriottico, estremamente reazionario, e che vedrete un film che non ha dubbi. In nessuna di queste osservazioni c’è un giudizio. Credo. 

Mi interessa di più inquadrare la questione e raccontare alcune considerazioni che magari vi servano per valutare il film. La mia speranza è che dopo che il film arriverà nel sale, il 1 gennaio del 2015, chi ha letto questo testo torni poi qui per raccontare a sua volta le sue considerazioni e aprire un confronto, eventualmente contestando o smentendo questo vademecum.

Bradley Cooper

American Sniper (2014): Bradley Cooper

 

In estrema sintesi, il film di Clint Eastwood è una biografia piuttosto fedele di Chris Kyle, arruolatosi nelle forze speciali dei Navy Seals e impegnato per 4 volte nelle operazioni militari in Iraq. Un percorso che parte dalla sua infanzia, narrata necessariamente in maniera ellittica, e che si concentra in maniera più specifica e dettagliata sugli anni della guerra, tra il 2003 e il 2009. La storia di Kyle, pluridecorato e autore di un libro di successo in cui si autodefinisce “il cecchino più letale d’America”, serve a Clint Eastwood per raggiungere uno scopo: prendere la storia di un soldato americano, da lui chiaramente vista come esemplare, per raccontare la sua posizione sulla guerra e sul ruolo dell’America nel mondo. Di riflesso è anche un tributo ai soldati americani.

 

Alcuni numeri, che contano

Parto dalla seconda questione, non marginale: quella del tributo al milite americano (noto). Non molto tempo fa parlavo con un amico che ha fatto una scelta ammirevole: lavora con Medici Senza Frontiere e oggi è capo missione in Italia, ma per lunghi anni è stato a dirigere missioni in varie zone calde del mondo, soprattutto in Africa. Parlavamo della guerra e più precisamente della consapevolezza della guerra. Ragionavamo sul come noi europei nati dopo la seconda guerra mondiale (tra un po’ la maggioranza degli europei, quindi) siamo portatori di un destino forse unico nella storia dell’umanità: siamo quelli che non hanno conosciuto la guerra (naturalmente da ciò sono esclusi gli abitanti della ex-Jugoslavia). La guerra ci circonda, arriva di continuo a noi tramite immagini, servizi giornalistici, dibattiti e prese di posizione politiche: ma non ci tocca davvero. Noi non sappiamo cosa sia la guerra: non lo sa il nostro corpo sociale. Abbiamo avuto sì soldati impiegati in operazioni di “peace keeping” e abbiamo avuto perdite: ne conto 168, dal 1949 a oggi e diverse di queste sono state per incidenti, malori e suicidi. Senza nulla togliere a quelle perdite e al dolore della famiglie, questi restano lutti privati (e istituzionali): non si iscrivono nella nostra storia sociale,

In America - ne parlavamo anche con il mio amico - le cose stanno diversamente. Al di là delle centinaia di interventi ovunque, dal dopoguerra a oggi l’America è stata coinvolta in numerosi conflitti: la guerra in Corea, poi il Vietnam, l’Afghanistan, l’Iraq (1 e 2), la Jugoslavia. Non è facile fare la conta: in Corea le perdite USA furono circa 37 mila, in Vietnam 60 mila, in Afghanistan 1368, in Iraq circa 300 nella Guerra del Golfo e 4.491 in quella successiva. Questo senza contare le centinaia di migliaia di feriti e le sindromi post belliche, di vario tipo: si pensi che nella sola Guerra del Golfo gli effetti dell’uranio impoverito e dei vaccini sperimentali determinarono un numero altissimo di morti e di conseguenze anche sulle generazioni successive. In più il numero dei soldati che hanno partecipato alle operazioni di guerra è enorme: in media il 22 percento delle truppe americane negli anni tra 1950 e il 2000 è stato impiegato in operazioni su suolo straniero: parliamo di milioni di persone. Non si può pesare facilmente quanto questo interessi il corpo sociale. Sicuramente ci sono studi sociologici seri capaci di documentare tutto ciò. 

Io faccio solo una piccola osservazione rapida e forse anche ridicola in questo contesto: tempo fa su Facebook l’amministratore di una pagina pubblica (non di un profilo personale) aveva tra gli insight il dato dei “Mi piace” complessivi e quello della “reach” potenziale: ovvero il numero di quanti erano in potenza raggiungibili se un post fatto sulla propria pagina fosse finito sulle home personali di tutti quelli che avevano fatto “Mi piace”. La leva era impressionante: avevo calcolato che più o meno per ogni contatto il moltiplicatore era 400. Questo vuole dire che per ogni 1000 persone se ne potevano in potenza contattare 400 mila. La cosa su Facebook era in qualche modo farlocca (il reach potenziale era ingannevole non nel computo, ma nel presupposto che si potesse davvero parlare a un pubblico così ampio visto che i post arrivavano solo a una esigua minoranza dei contatti) e oggi questo dato non viene più mostrato. Ma se Facebook stima realmente il numero medio dei contatti in 400 a testa, possiamo dire che la morte di un soldato sia un lutto per almeno un centinaio di suoi conoscenti? Fate i vostri conti.

La sola cosa che è certa è che gli americani sanno cosa è la guerra e non solo perché la pagano con le loro tasse: anche se non si svolge sul loro territorio, la vivono sulla loro pelle, hanno figli, mariti, amici e parenti in guerra. Magari morti, magari solo feriti, magari vivi e operativi, magari congedati, magari traumatizzati.

Questa è pertanto la prima considerazione da tenere presente guardando American Sniper. Film che è la storia di un soldato americano. Come sottolinea il titolo: un cecchino americano. Non un cecchino qualsiasi. Uno americano. Sia ben chiaro.

 

Il "Trattato delle virtù": la guerra

Clint Eastwood

American Sniper (2014): Clint Eastwood

Arriviamo quindi ora all’altro scopo del regista: raccontare la sua posizione “americana”, sulla guerra.  Clint Eastwood, che altri citano come “moral guidance”, fa a tutti gli effetti cinema morale. A Clint Eastwood interessano i valori: il suo cinema è un compendio dei valori americani, o almeno di quelli che lui reputa tali. American Sniper non si distacca da questa esigenza. Clint ha detto la sua sulla vita e la morte, sull’integrazione sociale, sulla giustizia, sull’onore, sul dovere, sul potere. Soprattutto i suoi film dal 2000 in poi hanno compiuto questa operazione, redigendo un “Trattato delle virtù” americane. Clint si è anche già misurato con la guerra: si sa. Con il dittico Flags of Our father - Lettere da Iwo Jima ha raccontato la propaganda e il potere dietro la guerra, ha reso onore al popolo americano e ha reso onore al nemico: due volti di un medesimo patriottismo.

Qui però Clint non parla di un nemico che merita onore. Parla di un nemico da sterminare: il cecchino Kyle di cui vedrete le mirabili gesta è eroe in quanto assolutamente letale e senza macchia nel suo agire. Clint parla in definitiva di una guerra che è semplicemente, assolutamente giusta. Chi gli dà tanta sicurezza? Non Dio, lo vedrete: anche se di fronte a Dio il cecchino Chris Kyle sindice certo che sarà in grado di dimostrare la necessità di ogni singola pallottola uscita dalla canna del suo fucile di precisione. 

No, la certezza deriva direttamente dal dovere. Semplicemente dal dovere. È l’ordine che giustifica quelle pallottole, l’ordine nella sua duplice accezione. sia nel senso di “comando” (ordine ricevuto), sia nel senso di ordine da mantenere: la difesa di chi ci è vicino, di chi appartiene al nostro stesso mondo. Il fratellino picchiato dal bullo e il compagno esposto al fuoco nemico sono la stessa cosa per chi è stato educato a reagire all’ingiustizia: vanno massacrati. E se Dio avrà da ridire, sapremo spiegargli.

“Esistono solo tre categorie di persone” insegna il padre al piccolo Chris, nella scena che pone le basi del tutto. “Le pecore, i lupi, e i cani pastori. In questa casa non si crescono pecore e se diventerete dei lupi giuro che farete i conti con me.” È così che Chris cresce cane pastore, poliziotto del mondo. L’ordine paterno non è sindacabile, non ci sono dubbi. La realtà del soldato è bidimensionale: noi, gli altri. E gli altri sono nemici da inquadrare nel mirino ed eliminare: senza dubbi, con precisione. “Sono le regole d’ingaggio” dice il comandante via radio al cecchino che inquadra il suo obiettivo “la scelta è tua, sei tu che puoi giudicare” E lui giudica e spara, colpendo nel segno. Perché “non  vorrete mica che quei bastardi arrivino a San Diego o San Francisco?”

È questa assenza di un qualsivoglia dubbio che fa dell’ultimo film di Clint Eastwood un film reazionario. Reazionario e politico: un film che parla all’America delle sue guerre giuste e del suo ruolo di cane pastore proprio nel momento in cui un vecchio/nuovo nemico si profila all’orizzonte e nel momento in cui l’amministrazione democratica di Obama - traballante, debole e da Clint vistosamente e pubblicamente osteggiata - potrebbe trovarsi di fronte a un’ennesima scelta su una guerra futura da compiere.

Questa presa di posizione politica forte è conservatrice perché l’ordine da difendere e mantenere non viene indagato nel gioco complessi dei suoi interessi e delle sue responsabilità e perché l’ordine da eseguire non viene discusso, non è discutibile. L’ordine è dato e il punto di vista del soldato è eseguirlo: in questo la sua salvezza e la sua santità. Definitivo come un grilletto tirato, American Sniper lascia un nuovo comandamento nell’eredità morale che il vecchio e grande autore tramanda, film dopo film, al suo pubblico e al mondo. Il comandamento dice che la guerra è giusta quando si tratta di difendere i propri cari, la propria terra e la propria bandiera e che gli americani  - che non sono pecore - si sono accollati il compito di essere i poliziotti del mondo, i difensori, i cani pastore. Lo hanno fatto e lo fanno pagando un altissimo tributo: onore agli uomini che lottano per difenderci e a quelli che hanno dato la loro vita. Lo hanno fatto davvero, fino in fondo. Questo è davvero tutto. Ora fate i vostri conti.

 

Addendum

Non aggiungo altro sul film se non un dettaglio mio. Nel cercare i dati effettivi sul numero di soldati americani morti in guerra nei vari conflitti in giro per il mondo - numero che va tenuto da conto - mi sono servito dapprima di Wikipedia, poi di altre fonti. Ma comunque l’edizione americana di Wikipedia, soprattutto su questi temi, è piuttosto attendibile. Tuttavia, anche se ci sono siti che tengono conto con precisione da cecchino del numero di morti americani, è molto più difficile identificare quelli dei civili iracheni, e le cifre diventano molto ballerine. Per la sola seconda guerra in Iraq, i soldati americani deceduti, dicemmo, sono stati 4.491. Purtroppo per i morti tra la popolazione civile irachena non si riesce ad avere una stima precisa: i numeri oscillano. La stima minima parla di 103 mila (fonte Iraq Body Count), la massima (Opinion Research Business survey) arriva a oltre 1 milione di morti, il Lancet survey si pone a metà e dice 600 mila. Anche qua occorre che qualcuno faccia i suoi conti.

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