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Cineasti invisibili (6) - Lav Diaz
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  • Da oggi, noi utenti myHusky e EightAndHalf, con la collaborazione di lorebalda, pubblicheremo dei resoconti biografici e filmografici di alcuni "cineasti invisibili" poco "di moda" che si distaccano dai gusti predominanti e vanno a nutrire un cinema di nicchia che meriterebbe ben altra estensione. Un approccio semplice a grandi registi poco conosciuti: altro che salotti, il cinema è di tutti.

 

 

  • «Per essere più profondi, la gente non dovrebbe chiedersi cosa sta per succedere, ma dare la propria interpretazione. È una specie di dialogo con il cosiddetto pubblico, sei d'accordo? Il mio atteggiamento quando faccio un film è che una volta che l'ho finito, diventa il tuo film.» (Lav Diaz durante un'intervista)

 

 

  • Nel mondo del cinema misconosciuto, che riesce a trovare modalità di diffusione soltanto attraverso i circoli festivalieri, ad essersi fatto strada tra gli altri c'è Lav Diaz, cineasta filippino autore di una serie di pellicole (circa 21, tra corti, documentari e lungometraggi), attivo fin dalla fine degli anni '90 e resosi particolarmente conosciuto per le monumentali durate delle sue opere, spesso in bianco e nero e virate al monocromo in post-produzione. Lav Diaz cerca nei suoi lunghissimi piani-sequenza quel senso dell'esistenza dell'uomo (corporea, spirituale) che la tragica storia recente delle Filippine ha soffocato con impressionante violenza, e lo fa adottando un linguaggio estetico riconducibile al mito e all'epica, a ciò che, più in generale, è monumentale ed infinito agli occhi.

  •  

    «Nella mia opera c'è una continuità. Ogni artista serio dovrebbe avere una certa continuità nelle sue opere, un filo conduttore che si estende attraverso opere e personaggi diversi. Così la mia filmografia è apprezzabile vedendola in ordine cronologico. »

 

  • (Una sequenza da Serafin Geronimo: Ang Kriminal Ng Baryo Concepcion, 1998)

 

  • Lav(rente Indico) Diaz nasce il 30 dicembre 1958 a Datu Paglas, nelle Filippine. Figlio di un intellettuale - che lo influenzerà molto in quanto a sensibilità artistica - si impone nel mondo del cinema molto più in là, quando all'età di 40 anni realizza Serafin Geronimo: Ang Kriminal ng Baryo Concepcion, storia di una lunga confessione fatta ad una giornalista da un giovane uomo colpevole di un rapimento e di un omicidio. Ancora poco avvezzo allo strumento filmico, la regia di Diaz non si denota qui per le caratteristiche che lo contraddistingueranno in futuro (il film è a colori, con una regia molto mobile e tematiche affrontate esplicitamente dai dialoghi e dagli eventi narrati). Bisognerà aspettare comunque poco, giusto un anno, perché con Naked Under the Moon il regista dimostri una capacità tutta sua nel contemplare gli ambienti naturali e soprattutto le dinamiche che in quel film si svolgono intorno a una famiglia filippina, inquadrata nel corso di molti anni in tutte le sue evoluzioni. Però il regista è qui ancora molto legato alla linearità narrativa, quella che risulterà frantumata invece in Batang West Side, primo fondamentale capolavoro del regista, incentrato su un misterioso omicidio che vede coinvolta la minoranza etnica filippina a New York.

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    «Una buona parte dei miei film è quello che senti e anche quello che vedi; cerco di ricorrere il meno possibile alla manipolazione, a suoni aggiunti. Nei miei film manovro di persona la mdp. »

 

  • (Batang West Side, 2001)

 

  • Fin dalle sue prime opere, Diaz dimostra grande interesse intorno ai fatti politici che caratterizzano il suo Paese. Gli abitanti filippini della seconda metà del Novecento sono stati gravemente colpiti dalle brutture del regime dittatoriale di Marcos, e in qualche modo uno sguardo veemente e leggermente contradditorio come quello di Hesus, rebolusyonaryo incarna perfettamente questo aspetto tematico ricorrente. Di questa dittatura, fondamentale ai fini della comprensione della filmografia del regista, si farà riferimento in seguito soltanto tramite ellissi, non-detti, astrattismi che non perdono mai di vista la materialità e l'indifferenza metafisica del mondo. «Non dovrebbe esserci più spazio per il fascismo nel mondo. È il ventunesimo secolo, perché permettiamo ancora che succeda? Perché tolleriamo queste cose, che la gente soffra per questi personaggi, per questi dittatori? ».

 

  • (Hesus, Rebolusyonaryo, 2002)

 

  • Lo sguardo genuino e insofferente del regista torna aguzzo e crudele in Evolution of a Filipino Family, odissea di una famiglia segnata dalla dittatura di Marcos e dalle violenze subite dalla madre del protagonista, oltre che da esilii, fughe, tradimenti e molti altri tragici eventi. Non si racconta semplicemente una storia, ma la Storia, con le sue terribili verità gravose per gli abitanti più umili e indifesi. Nei film di Diaz si respira sempre una sottile aria di vittimismo (Florentina Hubaldo, CTE, 2012), ma questa è sempre al servizio di immagini dal respiro universale, in cui il tema della famiglia come luogo di legami inaffidabili e la Natura come luogo sacrale e al contempo indifferente esplodono letteralmente in ogni grandangolo.

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    «A volte le persone usano il dialogo, ma si vede bene che è qualcosa di forzato, mentre vorrei che fossero i più reali possibili. »

 

  • (Evolution of a Filipino Family, 2004)

 

  • In tal senso, particolarmente "silenzioso" e pochissimo parlato è Heremias, incompleto film di sette lunghe ore incentrato sulla storia di un viaggio e di un uomo che incarna, un po' come farà Florentina Hubaldo, le sofferenze e le angherie a cui è soggetto l'intero popolo filippino. In attesa dell'arrivo di un tifone che spazzerà via abitazioni e campi da una certa regione filippina, Heremias decide di proseguire da solo il suo viaggio, non per fuggire, ma per mantenersi fedele a una terra ricca però di insidie e di trappole, più umane che naturali. Così l'essere umano accoglie l'Apocalisse con la corruzione (il poliziotto) e la violenza (i giovani teppisti), e Heremias finisce per diventare un eroe debole, pronto lentamente ad affrontare la gigantesca montagna del suo destino.

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    «Siamo il paese al mondo che ha il maggior numero di tifoni. Ai filippini i tifoni addirittura piacciono, sono parte della nostra natura, della nostra cultura. Ci preoccupiamo quando non ci sono tifoni per un po' di tempo. I filippini sono anche molto religiosi. Abbiamo molte religioni, sette e culti.»

 

  • (Una sequenza da Heremias, 2006)

 

  • Sul dopo-tifone raccontato in Heremias interviene Death in the Land of Encantos, che, insieme al successivo Melancholia, va a delineare il tragico stato morale della popolazione filippina. Se si va a guardare più da vicino, entrambi i film diventano l'analisi della terribile sorte della cultura, in un mondo dove non può esistere empatia, il ricordo è deformato nella sua oggettività dalle passioni animalesche dell'uomo e la stessa identità risulta collassata su se stessa, destinata alla peregrinazione in un limbo oscuro e invalicabile. Ma, come dimostra anche Century of Birthing, permane una qualche magia, a sussurrare tra i fatti e le azioni degli esseri umani, un arcano mistero che riguarda tutti, trascende la singola situazione filippina, e diventa significativa per il destino dell'intera umanità e della sua cultura.

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    «Crediamo molto nei messia, nei falsi re. Ci sono molte superstizioni. »

 

  • (Death in the Land of Encantos, 2007)

 

  • Padre Tiburcio, personaggio fondamentale del grandioso Century of Birthing, è definito dallo stesso regista la prosecuzione ideale del personaggio di Julian in Death in the Land of Encantos, un attore finito per diventare santone di una setta che professa la verginità e il "ritorno nella casa del padre". La ritualità dei gesti umani cade inane di fronte alla morte e alla violenza, mentre i giganteschi sembianti della Nascita e dell'Apocalisse si scontrano in immagini di scioccante magniloquenza. In Century of Birthing Lav Diaz mette in gioco tutto se stesso, e arriva anche a fare un discorso metacinematografico sul suo stesso modo di fare cinema, sul suo immaginario, sui suoi sogni e sulla propria condizione umana. A partire da questo film, si "partorisce" (è il caso di dirlo) una nuova visione della realtà, se possibile ancora più tragica e allucinante, in cui neanche ciò che è invisibile può sopravvivere alla temibile furia della frustrante corporeità.

 

  • (Florentina Hubaldo, CTE, 2012)

 

  • (Century of Birthing, 2011)

     

 

  • Norte, the end of history e From What is Before, che pure può sembrare cedano molto alla narrazione e alla linearità della trama, sono in realtà terribili apologhi sull'ingiustizia umana. Con ritmi più vivaci del solito (si fa per dire), Diaz inquadra il percorso di violenza e indifferenza che si ripete ciclico in un presente che sembra annullare qualsiasi prossimo futuro, e in un passato in cui l'irrazionalità esplode a distruggere qualsiasi possibile ideale umano (e artistico: il Cinema prosegue, ma persegue la triste immobilità del Reale).

     

  • (Norte - The End of History, 2013)

 

 

  • Il regista filippino ha presentato il nuovo documentario Storm Children  al TFF 2014, e, viste le tanti produzioni degli ultimi anni, probabilmente proseguirà a raccontarci le sue umanità tristi, desolate, sempre a un punto di non ritorno.

 

 

 

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