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TFF GIORNO 4: IN CONCORSO IL DISAGIO GIOVANILE IN DUE DIFFERENTI PARTI DEL GLOBO; FUORI CONCORSO LAV DIAZ, IL NUBIFRAGIO ED I BAMBINI; UNA VALANGA TRAVOLGE L'INTIMITA' DI UNA FAMIGLIA PERFETTA..O QUASI; HAWKINGS NEL SOLITO BIOPIC PIACIONE E ACCHIAPPAPREMI
di alan smithee ultimo aggiornamento
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Nella sua terza giornata, il Torino film Festival presenta alla stampa due film in Concorso più interessanti che completamente riusciti, entrambi inerenti i destini e le angosce di giovani o giovanissimi.

MANGE TES MORTS è il titolo tetro e mortifero che accompagna in interessante pellicola francese già vista alla Quinzaine des Réalisateurs nel maggio scorso a Cannes. Trovate la recensione cliccando qui.

VOTO ***

 

Segue il più pacato, ma ugualmente funereo e lugubre, ANUNCIAN SISMOS, argentino dai toni catastrofici abilmente nascosti da un pudore quasi disarmante.

In un paesino sperduto dell'Argentina, un binocolo spia le persone che numerose fanno visita ad un cimitero posto a ridosso di una arida collina franosa.

Al ragazzino è morta suicida poco tempo prima la sorellina, ed episodi sconcertanti simili hanno coinvolto molte famiglie di quelle zone. A scuola i professori si interrogano su come reagire a questi eventi luttuosi, su come coinvolgerli in attività didattiche e ricreative che possano distoglierli da questi nefasti pensieri e deviate attitudini. Al protagonista viene proposto di frequentare il gruppo musicale della scuola, ove conosce e si innamora di una coetanea, anch'essa coinvolta in spiacevoli ed inquietanti eventi luttuosi in famiglia. Insieme riusciranno a tenersi lontani da quella spaventosa serie di eventi, armandosi di una forza interiore che permetterà loro di scacciare quei pensieri allo stesso modo dei cani randagi che si aggirano in zona, che aggrediscono i passanti e abbaiando “annunciano terremoti”, ovvero sciagure.

Il film della coppia di registe Calin/Marcow non appare certo lineare nel racconto di una vicenda suggestiva e che attira anche per alcune immagini suggestive ed insieme inquietanti: si perde in micro-storie che non riusciamo bene a collegare al filo conduttore funesto e luttuoso, ma rimane un film almeno a tratti potente e suggestivo che potrebbe rivelare due talenti emergenti.

Diamo tempo al tempo, valutando come interessante e parzialmente riuscita questa interessante opera prima dai tratti intimamente e sommessamente apocalittici.

VOTO ***1/2

 

Ma al festival è anche il momento di un ritorno di fiamma: Debra Granik, la vincitrice del film più acclamato e noto tra gli ultimi vincitori torinesi: Winter's bone.

Con il documentario Stray Dog ritroviamo a Torino quella Debra Granik che proprio in questa sede vinse meritatamente alcuni anni orsono col suo bel film Un gelido inverno, che fra i tanti meriti conserva quello di aver lanciato l'ormai diva e splendida Jennifer Lawrence.

E con questo suo “Cane randagio” ritroviamo ancora l'America rurale, on the road, desolata e abbandonata della grande periferia, dei colori caldi delle foglie autunnali, delle strade lunghe ed infinite percorse da motociclisti come il nostro protagonista, un reduce del vietnam grande, grosso e apparentemente rude, che nasconde un cuore d'oro sotto una corazza che serve solo a colorarne un personaggio infinitamente più sfaccettato di quanto non possa sembrare. 

Ron non perde occasione per percorrere queste strade con i suoi amici che condividono come lui la passione per i motori a due ruote, e con loro gira il paese per rendere omaggio alle vittime delle guerre, presenti e passate, per aiutare le vedove dei caduti, ed organizzare raduni per tenere uniti i reduci superstiti di quella sporca inutile guerra.

Ma il cuore d'oro del gigante barbuto è rivolto anche alla sua attuale famiglia: una moglie messicana che vorrebbe portarselo in terra natia (e per questo Stray dog sta tentando di imparare il messicano), ma che poi opta per far venire presso la casa dell'uomo i suoi due figli ormai ventenni, tentando di trovare loro un lavoro in uno stato che non è più la terra promessa di un tempo.

Stray dog è un riuscito ritratto di un uomo, ma soprattutto di una categoria di persone che sono stati mandati al macello, poi considerati eroi, e poi dimenticati e messi da parte.

L'America della Granik è fatiscente ma non per questo meno poetica e suggestiva. La struttura documentaristica dell'opera finisce forse per limitare la qualità di un opera che, con un percorso narrativo più costruito, avrebbe potuto ambire alle qualità eccelse di Winter's Bone. 

Debra Granik Director Debra Granik (L) and Ronnie 'Stray Dog' Hall attend the 'Stray Dog' photo call during the 52nd New York Film Festival at Film Center Amphitheater in Lincoln Center on October 2, 2014 in New York City.

VOTO ***

 

Tra i film di oggi ricordo anche il curioso nuovo "Fitzcarraldo" malese, MEN WHO SAVED THE WORLD, visto anche a Locarno, la cui recensione trovate qui

VOTO ***

 

Le valanghe a volte procurano danni psicologici indelebili, devastanti ancor più che quelli fisici: TURIST/FORCE MAJEURE ce lo racconta in modo da non farcelo dimenticare.

Uno shock emozionale che provoca danni irreversibili, o presunti tali, non tanto fisicamente ma dentro di sé, riuscendo a far apparire inequivocabilmente certi comportamenti che per il ruolo assunto nella società e nella vita, si celano all'apparenza. 

Una giovane, facoltosa e bella famiglia svedese sta trascorrendo un a settimana bianca tra le Alpi francesi, quando un giorno, mentre pranzano sulla terrazza di un ristorante panoramico, una impressionante valanga provocata scientemente per far cadere accumuli di neve pericolosi, dà l'impressione ai turisti di coinvolgerli nel suo devastante incedere a valle. In realtà i turisti rimangono incolumi, avvolti solo dalla fitta nebbia nevosa trasportata da tutta quella quantità di neve in caduta libera. Mentre la madre, in quell'attimo di terrore (la valanga spaventa anche lo spettatore grazie ad una ripresa realistica che non si dimentica) avvolge a sé istintivamente i suoi figli, mentre il padre sceglie d'impulso la via della fuga solitaria. 

Questo comportamento, apparentemente ignorato sul momento, porta i due coniugi a riflettere e a mettere in discussione una unione che appariva indelebile e solidificata oltre ogni ragionevole dubbio.

Per i due bambini, che avvertono subito la tensione inedita nella coppia, inizia lo stress del timore di una imminente separazione: la famiglia più bella del mondo, scampato il pericolo, si sfalda o sembra cedere, sgretolarsi nei pilastri solidi che ostentava dal di fuori.

Ruben Ostlund, ottimo regista che non conoscevo sino ad ora, dà prova eccellente do sé nel raccontare una storia alla Winterberd di “Festen” dove un avvenimento improvviso scatena un'ondata di reazioni a catena destabilizzanti che sembrano riuscire a far franare tutto.

Tourist-Force Majeure è un film sull'istintività animale che ci governa, e che ci impedisce, nell'attimo della reazione irrazionale, di poter valutare scientemente la situazione, optando per la difesa di quei valori che dovrebbero essere la base indiscussa della propria esistenza.

Il film è incalzante, teso e riuscito, e getta sullo spettatore quell'angoscia e quell'incertezza proprie di chi si sente messo al muro, a fare i conti con la propria coscienza, giudicato e considerato colpevole anche solo da uno sguardo furtivo di uno sconosciuto che tuttavia sembra nascondere molti segreti (vedasi la figura inquietante dell'inflessibile cameriere sempre in agguato ad osservare e giudicare).

VOTO ****

 

Ma a Torino c'e' pure, fuori concorso, Lav Diaz: impossibile lasciarselo sfuggire.

L'autore torna dopo il Pardo a Locarno. E lo fa con il toccante STORM CHILDREN, BOOK 1, primo capitolo dedicato ad una catastrofe naturale che incombe puntualmente sulle Filippine: le piogge torrenziali che creano alluvioni e smottamenti, rovine e distruzione, morti e fame ovunque.

La cinepresa fissa e contemplativa del maestro di Manila si sofferma, con le consuete lunghissime riprese, dapprima sulle piogge torrenziali che funestano le zone urbane già caratterizzate di per sé da costruzioni fatiscenti e pericolanti. L'ondata di pioggia ingrossa i fiumi che portano verso il mare, e dunque in città, rifiuti e detriti sempre più grandi che ostruiscono i corsi d'acqua dando luogo a straripamenti, disagi e tragedie.

Passata la tempesta, la pioggia che la fotografia splendida costantemente in bianco e nero rende torva e nera come a preannunciare un ennesimo cataclisma, col ritorno dei primi raggi di sole, il regista si guarda intorno e il suo occhio si concentra o vede solo piccoli esseri viventi, bambini che escono dalle tane e dai rifugi per iniziare un lavoro imperterrito di ricerca tra le macerie: scavi, minuziose opere di selezione di ammassi senza forma di detriti che gli stessi osservano, toccano, modificano, valutano e, se del caso, trattengono e mettono da parte. 

Il dramma e la tragedia, la vita di stenti e di povertà che tuttavia non si arrende alla autocommiserazione ma si fa forza di una volontà di sopravvivenza che lascia interdetti. 

Il cinema di Lav Diaz affascina e ipnotizza facendo perdere la cognizione del tempo e dello spazio, trasportandoci in luoghi a noi lontani e rendendoci spettatori attoniti e comunque coinvolti nonostante la sospensione temporale e narrativa, sostituita dalla potenza delle immagini e dalla folgorante forza emozionale di una fotografia granitica e fosca che diventa caratteristica inimitabile ed unica di questo grande autore.

VOTO ****

 

Un biopic impeccabile, ma proprio per questo un pò insapore, chiude una giornata ancora una volta densa di avvenimenti:

LA TEORIA DEL TUTTO, vita e teorie del celebre scienziato Stephen Hawkings.

I biopic, spesso ottimamente recitati e inappuntabili stilisticamente e tecnicamente, sono il genere cinematografico che puntualmente fa accendere il bottone dell'esaltazione ai membri dell'Academy nell'assegnazione dei premi Oscar al film o agli attori. 

Questo film inappuntabile e formalmente inattaccabile è destinato probabilmente a suscitare gli stessi clamori e le stesse sensazioni. In realtà che Eddie <redmayne fosse un ottimo sensibile attore lo sapevamo già dai tempi di altre produzioni laccate come Marylin (altro biopic corteggiatissimo agli Oscar), Les Miserables e Saving Grace. Tutti film sontuosi e perfettini a cui si unisce questo corretto film sulla straordinaria quanto drammatica e sfortunata esistenza del fisico, matematico, cosmologo ed astrofisico più famoso ed importante del 900 dopo Einstein. 

Il film ne ripercorre con impeccabile dettaglio i primi promettenti successi universitari che cominciano ad alternarsi alle problematiche fisiche dell'individuo, che si scoprirà affetto da una devastante distrofia muscolare degenerativa a causa della quale i medici, a partire dagli anno Sessanta, gli diagnosticarono e predissero, fortunatamente sbagliando nelle date, ma non negli effetti devastanti della malattia, solo un paio di anni di vita. 

Una vita spesa a lottare per la formulazione delle sue complesse e rivoluzionarie teorie sull'esistenza dei buchi neri e sulla mancanza di limiti dell'intero Universo, anche grazie agli sforzi e alla tenacia di una moglie devota e combattuta che fu la ragione principale della riuscita e sopravvivenza del genio nei primi straordinari decenni delle sue intuizioni e scoperte.

Il problema del film, e dei biopic quasi nella loro totalità, è la narrazione schematica e tradizionale che uccide ed annienta un personaggio costretto a confrontarsi con la melodrammaticità spiccia che tanto piace alla Hollywood più tradizionalista, che è poi quella che conta per ottenere i tanto ambiti premi. 

La vicenda che tutti almeno in parte conosciamo si risolve in una altalena di avvenimento tra successi e dramma che finisce anche un po' per edulcorare e dunque svilire un personaggio decisamente più complesso di quanto può apparire in questa pedissequa melensa trasposizione, propria di un film che punta solo sull'emotività epidermica come un banale fumettone televisivo ottimamente ricostruito e certo anche ben interpretato. Ma ogni guizzo latita, ogni originalità e sfaccettatura che il personaggio certo meritava sono distanti anni luce come buchi neri, appunto.

 

Certo ci sarebbe voluto, - sognare fino ad oggi non costa nulla - un genio alla Derek Jarman per ripetere il caso unico, o quasi, di una cinebiografia arguta ed irriverente come quella del suo altrettanto geniale e stravagante Wittgestein.

Ma in questo caso il film non sarebbe stato appannaggio di una major come in questo caso, e sarebbe rimasto nel cuore di pochi cinefili e non in quello di un' Academy sempre più prevedibile e avvolta nella naftalina per non ammuffire.

VOTO **

 

Potrei iniziare a parlarvi del dittico de The disappearance of Eleonor Rigby....ma ne parliamo domani con la visione di Her, dopo Him di questa sera.

 

 

 




 

 

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