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HALLOWEEN SAGA. Storia, contesto e analisi di una mostruosità (I)
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Introduzione e contesto socio-culturale. Nel 1978, John Carpenter con il suo terzo lungometraggio dà vita ad una delle icone horror più affascinanti della storia dell’immaginario collettivo: Michael Myers. Se Leatherface, nato prima di tutti nel 1974, è molto, ma molto malato; Jason, nato nel 1981, è un bestione implacabile; e Freddy Kruger, nato nel 1984, è pure simpatico; Michael Myers è tutta un’altra cosa.

Gli Orribili Quattro sono storicamente Dracula, Frankenstein, l’uomo lupo e la mummia. Con il new horror nato dal coraggio visionario di George A. Romero arrivano i Quattro Cattivi Ragazzi, Faccia di Cuoio, Michael Myers, Jason Voorhees e Freddy Kruger. Allo zombi ci arriviamo dopo. Cosa notiamo fino adesso? Notiamo che mentre gli Orribili Quattro sono sostanzialmente degli archetipi più o meno connotati, i Quattro Cattivi Ragazzi sono personaggi precisi, con un nome, un cognome e una biografia certi. Hanno un cronòtopo di riferimento ben preciso e determinato. Ma è anche vera un’altra fondamentale questione. Ovvero, che tutti, dal Dracula principe dei vampiri fino al sadico Kruger, passando per creature da laboratorio, licantropi, mummie, killer metafisici vari, sono figurazioni di un unico archetipo: il ritornante. Il revenant, il morto che ritorna.

Sotto forma di vampiro, di omuncolo, di uomo lupo o altro, il mito del morto che torna tra i vivi a saldare vecchi conti col passato piuttosto che mietere vittime indiscriminatamente per il solo gusto di farlo è una delle tante rappresentazioni della morte. La sua diretta esorcizzazione è quindi la messa in scena anche rituale di questo ritorno del morto – dopo tutto anche la narrazione, sia filmica, sia letteraria che orale, è un rito.

Conferendo al ritornante quelle forme mostruose tipiche di una data cultura in un dato luogo e in una data epoca l’archetipo diventa mito e per esso vengono creati un immaginario e un’iconografia di riferimento che gli assicurano una precisa riconoscibilità e una perpetualità mitologica immortale. Immortale proprio grazie al continuo variare delle forme di rappresentazione. Anche lo zombi, mostro ed antieroe della modernità, è il morto che ritorna, qui con nuove modalità e nuove simbologie anche se ricordano quelle della classica mummia. Non rientra nei Quattro Cattivi Ragazzi perché nonostante abbia una sua saga di riferimento, quella romeriana dei living dead, non c’è nessun personaggio puntualmente connotato che si ripresenti né tra i protagonisti né tra gli antagonisti. Questo sottolinea un altro aspetto fondamentale dell’immaginario zombesco, ovvero la spersonalizzazione della mostruosità e la sua conseguente aderenza alla massa indistinta.

Insieme a un immaginario di riferimento la connotativa della mostruosità permette un affondo psicologico, sociale, filosofico e politico della figurazione maligna conferendo caratteristiche proprie a ogni icona del terrore capaci di essere riprese paradigmaticamente in contesti diversi o anche rilette nelle forme come nei contenuti. Fabio Giovanni abbina a ogni mostro classico una caratteristica sociale che riconosciamo esserne il dispositivo narrativo lungo la propria traiettoria cinematografica. Dracula è il mostro seduttore, “[…] scatena gli istinti sessuali, è trasgressivo, abita la notte e sfugge il giorno. È in realtà un simbolo del femminile, della luna contro il sole, dell’istinto contro la ragione, destinato a finire distrutto da un paletto fallico armeggiato dal saggio dottor Van Helsing”. La creatura di Frankenstein è il mostro solo e rappresenta la solitudine della diversità come contraltare della scienza che tutto spiega e tutto risolve generando così nell’individuo una rabbia ed una furia senza contenimenti. La mummia è invece il mostro del passato che porta con sé e su di sé i caratteri della caducità, dell’antichità, simboleggiando il conto mai chiuso con il passato sia individuale che collettivo. Infine, secondo il Giovannini l’uomo lupo è il mostro malato perché “è l’unico nella teratologia moderna, che non è sempre mostro, ma solo periodicamente. […] dopo questa mutazione mestruale, ritorna al suo aspetto umano: e soffre. […] Non è mai responsabile di questa sua maledizione” (1).

Io, personalmente, accetto questa letture delle quattro icone classiche dell’horror, ma per quella che più mi ha affascinato, ovvero il lupo mannaro, trovo riduttivo indicarlo come “mostro malato”. La figura del licantropo scomoda addirittura i miti greci e attraversa la storia popolare di ogni comunità fino ai giorni nostri dotando la bestia di caratteristiche umane e l’uomo di caratteristiche bestiali. La dualità uomo-bestia che rivive in questa figurazione mostruosa ispira riflessioni filosofico-esistenziali di alto livello e profonda introspezione. L’uomo lupo, per la sua natura ferale, è ancor più seduttivo del vampiro e simboleggia una sessualità animalesca ed istintuale; la sua maledizione lo porta alla diversità e alla solitudine più della creatura di Frankenstein richiamando così il fenomeno in natura del lupo solitario; inoltre, come molte narrazioni palesano, questa sua maledizione proviene da lontano, è radicata nella sua stirpe e si tramanda di generazione in generazione simboleggiando così il peso di un passato che torna a mietere le sue vittime ancor più che il mito della mummia. Ecco che l’uomo lupo si rivela essere la mostruosità più completa e affascinante per rappresentare il simulacro mostruoso dell’uomo moderno. È Giovannini stesso a dire che il lupo è sinonimo di diversità e caratterizzato dalla solitudine insistendo che “la figura del licantropo si confermava simbolo delle lacerazioni tra l’uomo e la sua natura istintuale”. Quindi sì l’uomo lupo come mostro malato, per via di una maledizione da cui non si può guarire, ma anche mostro seduttore, animalesco, bestiale, solo, diverso, simbolo di un passato e di un destino opprimenti.

Queste quattro caratteristiche identificative non si possono più utilizzare in epoca moderna isolandole dal contento della contemporaneità, per tanto non potremmo oggi abbinare Leatherface, Michael, Jason e Freddy con gli aggettivi seduttivo, solo, antico o malato. Certo, è facile abbinare Freddy Kruger al passato che torna; Michael che è stato in un manicomio può essere il mostro malato; Leatherface vive in solitudine la propria abominevole diversità; Jason più che un mostro seduttivo potrebbe comunque affiliarsi alla tematica sessuale vista la sua propensione a uccidere chi consuma il rapporto carnale, ma l’ha fatto anche Michael e lo fanno molti altri mostri del nostro immaginario. Così come Leatherface non è soltanto il diverso che vive isolato, ma è anche malato e depravato sessualmente, per non parlare del laido Freddy che era pure un pedofilo. Tutti e quattro inoltre sprigionano un’animalità incontenibile, molto visibile anche fisicamente in Faccia di Cuoio. Nessuno si trasforma in qualcos’altro: essi stessi sono già qualcos’altro.

Ecco che queste quattro maschere del terrore moderno non possono più essere indagate utilizzando solo le simbologie classiche che comunque fanno parte del bagaglio archetipale di ogni mostruosità, bensì contestualizzando la singola mostruosità senza per forza individuare caratteristiche personali negando tematiche comuni. Abbiamo così la possibilità di affermare che Leatherface simboleggi il retaggio di una marginalità sociale che nel ventre molle dell’America partorisce le sue mostruosità attraverso il mito della famiglia disfunzionale; Michael Myers è il male puro, totale ed ubiquo, è l’ombra stregonesca del male assoluto che pur avendo un chiaro obiettivo omicida immola chiunque gli si metta davanti; Jason Voorhees che come tutti sanno appare solo nel secondo episodio della serie è il simbolo della castrazione sociale, il braccio moralista di una società patologicamente puritana che vede il peccato e il male là dove non c’è; infine Freddy è il simbolo delle colpe dei padri, è la polvere nascosta sotto il tappeto, è il famoso scheletro nell’armadio con cui il popolo americano fa i conti fin dalle proprie origini.

Se queste possono essere a ben vedere le caratteristiche peculiari di ognuna delle quattro nuove maschere, ciò non toglie che in base alla sensibilità di ogni autore e alla volontà di ogni singola produzione possano essere state cambiate, variate o addirittura sovvertite. Così come va notato che a differenza degli Orribili Quattro che hanno influenzato archetipicamente l’horror a venire in modo trasversale, i Quattro Cattivi Ragazzi influenzeranno solo tematicamente o stilisticamente l’horror a venire. Leatherface infatti ritornerà sempre e solo nel suo franchise, quello di Non aprite quella porta e in nessun altro contesto, mentre potremmo ritrovare temi, motivi, immaginario ed iconografia della sua mostruosità in altri contesti come ne Il silenzio degli innocenti (1991). Lo stesso dicasi per le altre tre mostruosità.

Va aggiunto però che alle caratteristiche individuali ci sono elementi comuni a tutti e quattro e che sono denotativi di un contesto sociale preciso che si vuole colpire attraverso la sua demonizzazione. Su tutti trionfa il tema sessuale. Ognuno dei Quattro Cattivi Ragazzi ha un rapporto patologico con il sesso, viene concepito da loro come qualcosa di diabolico e tornano dal mondo dei morti per ripulire la società americana dall’onta del piacere carnale inviso a Gesù Cristo. Allo stesso modo, caratteristica comune è l’immortalità e il continuo ritorno dall’oltretomba che gli è valso il titolo di killer metafisici. Inoltre, da un punto di vista prettamente narrativo, elementi ricorrenti sono il gruppo di giovani vittime, l’ambientazione quasi esclusivamente chiusa o per lo meno perimetralmente circoscritta, il body count, l’eroina femminile, la maschera che copre il loro volto, il già discusso tema sessuale e della libido oltre che la disfunzionalità della famiglia e l’imprescindibile riflessione sul corpo e sulla carne tipica del new horror che fa del consumismo il nuovo cannibalismo.

Un ultimo elemento di riflessione riguarda l’epoca storica in cui il ritornante prende le sue determinate forme mostruose. Dracula è la connotazione mitologica del vampiro, mostruosità archetipale come la mummia, l’uomo lupo e la creatura da laboratorio, i cui miti di riferimento sono Imhotep, Lawrence Talbot e Frankenstein. Creature delle tenebre nate innanzitutto dal folklore – vampiri, licantropi, zombi, golem – e successivamente dalla creazione artistica, i romanzi e i racconti del secondo ottocento e del primo novecento, che ne hanno definito il mito e l’immaginario di base – La Mummia di Arthur Conan Doyle nel 1892; Dracula di Bram Stoker nel 1897; Il Golem di Gustav Meyrink nel 1914; L’uomo lupo di Parigi di Guy Endore nel 1933 (altre e precedenti sono le narrazioni di questi mostri, ma le sopracitate sono quelle che più hanno influito mitologicamente).

Infine a definire ulteriormente queste mostruosità ci ha pensato il cinema, già di suo accostato spesso e volentieri al fascino orrorifico della figura vampiresca. Dapprima l’espressionismo tedesco con Frankenstein di J. Searle Dawley nel 1910, Der Golem di Henrik Galeen e Paul Wegener nel 1915, Nosferatu di Murnau nel 1922 e una serie di altri personaggi inquietanti come il “sonnambulo” zombesco di Cesare in Il Gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene nel 1920 oppure il diavolo nel Faust di Murnau nel 1926 anche se preceduto da ben cinque versioni tra il 1903 e il 1922, tra cui la prima è di George Méliès.

A questi capolavori nati tra lo stupore del cinematografo e l’orrore della prima guerra mondiale, seguiranno altre pietre miliari del cinema horror che influenzeranno l’estetica e le tematiche del genere fino al 1968 di George A. Romero. La Universal sforna nel 1931 il Dracula di Tod Browning con Bela Lugosi e successivamente il Frankenstein di James Whale con Boris Karloff; nel 1932, sull’onda del successo dei primi due titoli viene girato La Mummia di Karl Freund ancora con Karloff e nel 1935 Werewolf of London per la regia di Stuart Walker con Henry Hull. Quest’ultimo fu il titolo meno fortunato e nonostante sia a tutt’oggi un film di ottima fattura si dovrà aspettare il 1941 per trovare il film seminale per il mito licantropico: The Wolf Man di George Waggner con Lon Chaney Jr.

Sono figurazioni del male e della morte che nascono quindi a cavallo tra otto e novecento, epoca di grandi ansie sociali e isterie collettive, ma soprattutto epoche segnate dalla prima guerra mondiale e successivamente dai totalitarismi europei sfociati poi nel secondo conflitto bellico. Dal 1892 de La Mummia di Conan Doyle in avanti i decenni si sono susseguiti sotto la minaccia dell’odio ideologico e della guerra mondiale a causa della quale la morte è così entrata nella modernità lasciandosi alle spalle il tabù che l’ammantava da tempo. Romanzi goticheggianti hanno aperto le porte al cinema espressionista che ha dato vere “ombre” alle “ombre” letterarie rappresentando sul grande schermo e con ancor più efficacia della parola scritta la percezione di perturbazione della società moderna. Estetica di cui si ricorderà il cinema degli anni ’30 e ’40 quando vorrà riprendere tale immaginario per collegarlo metaforicamente con la contemporaneità bellica.

Quando arriva il 1968, altre sono le tensioni sociali e altri i fatti politici che inquietano il mondo intero, soprattutto quello americano. La guerra fredda e la guerra in Corea, il boom economico tra i ’50 e i ‘60, la morte di Kennedy nel ’63 e quella di Martin Luther King nel ’68, il Vietnam tra il 1960 e il 1975, Nixon e il Watergate nel 1972, la contestazione a fine anni ’60, il razzismo, i diritti civili, le lotte sindacali, i movimenti studenteschi, gli hippies e così via. I tempi erano pronti per nuovi orrori più sincronici dei precedenti, con operatori di attualità ad annullare la distanza tra finzione e realtà. Dai castelli europei e dalle tombe egizie si passa al terrore domestico dei nostri giorni. I morti viventi di Romero escono dai nostri cimiteri, camminano sulle nostre strade, entrano nelle nostre case e uccidono i nostri cari che a loro volta cercano di ucciderci e mangiarci. Ricordiamo intanto che i morti viventi sono un’altra cosa rispetto agli zombi, ma ne hanno “cannibalizzato” il termine facendolo proprio.

Lo scontro politico e sociale ha ormai la sua nuova estetica e il suo nuovo linguaggio cinematografico che non è soltanto l’horror, ma ogni film che vuole allontanarsi dall’edulcorazione del cinema precedente e propone pellicole in cui la violenza, la disperazione, la voglia di fuga e di rottura con la tradizione non sono solo tematiche affrontate, ma anche estetiche della rappresentazione; un esempio su tutti Gangster Story del 1967 per la regia dura e cruda di Arthur Penn con Beatty, Dunaway e Hackman.

Dal 1968 al 1974 non passano certo poco tempo, ma i film horror proposti in quei sei anni non raggiungevano i livelli di perturbazione e vero terrore con cui l’opera romeriana aveva sconvolto il pubblico. Bisognerà aspettare il 1973 per riprendere l’operazione iniziata da Romero un lustro prima. Tant’è che L’Esorcista di William Friedkin, considerato da moltissimi l’horror più sconvolgente della storia del cinema, è solo del 1973 e precede di un anno un altro capolavoro del disturbo: Non aprite quella porta di Tobe Hooper.

Nonostante agli inizi degli anni ’70 i film dell’orrore risentivano ancora dell’influenza dello stile Hammer il contesto sociale è tale da stimolare la libertà creativa immaginando nuovi scenari e nuove forme di rappresentazione della realtà. Per farlo, il cinema horror riprende anche inconsapevolmente la figura del ritornante e le conferisce nuove caratteristiche. Non più orrori lontani ed esotici che comunque torneranno più avanti quando il cinema si massificherà, bensì orrori domestici e attuali. Orrori che escono dalla nostra terra, dalle nostre cantine e seminano morte e distruzione all’epoca del benessere per tutti. È in questo contesto che tra il 1974 e il 1984 nascono le nuove maschere del terrore seriale supportate non solo da un immaginario immortale, ma anche da autori capaci di intervenire sul profilmico e sul filmico con cognizione di causa.

La prima maschera del terrore è la faccia di pelle umana di Leatherface. Quattro anni dopo è il turno del volto del Capitano Kirk di Star Trek reso apatico e inespressivo dai truccatori di Halloween (1978) che andrà a coprire il viso ancora oggi sconosciuto di Michael Myers. Seguiranno la celebre maschera da hockey di Jason e il volto sfigurato dalle fiamme di Freddy Kruger. Ovviamente dai ’70 ad oggi altre sono state le maschere che hanno arricchito il genere horror, ma quasi nessuno ha saputo uguagliare l’appeal archetipico di queste mostruosità partorite in un decennio particolarmente adatto ad invenzioni e creazioni durature.

Precursori. Come si sa, in arte e quindi anche nel cinema, non si inventa nulla dal nulla, vige una profonda e silenziosa e continua intertestualità per cui il visto comprende il già visto, modificato, variato, a-variato, sedotto dai tempi, attualizzato e così via. Impossibile non vedere nel killer mascherato di Michael Myers un chiaro richiamo al Leatherface di Tobe Hooper, ma se escludiamo le “maschere” del terrore di Dracula, Frankenstein, Uomo Lupo e Mummia per ovvie ragioni – sono sì maschere, ma sono anche il vero volto del mostro – il primo assassino mascherato risulta sempre essere l’assassino di nerovestito introdotto da Mario Bava nell’immaginario cinematografico con Sei donne per l’assassino (1964), di cui si ricorderà poi Dario Argento nel 1971 girando L’uccello dalle piume di cristallo: il serial-killer mascherato è ormai sdoganato ed entrato prepotente nell’iconografia del genere.

Ma le anticipazioni non finiscono qui. Nel 1976 Charles B. Pierce dirige La città che aveva paura – The Town That Dreaded Sundown, di cui nel 2014 è stato realizzato il primo sequel con il ritorno dell’assassino dopo ben sessantacinque anni dai primi delitti, visto che il film è sì del 1976 ma è ambientato nel 1946. Interpretato anche da Ben Johnson il film propone la figura di un uomo di grossa stazza, incappucciato con un sacco bianco e armato di un grosso coltellazzo che uccide giovani coppiette. Ricorda qualcuno? Un incrocio tra Michael Myers e Jason Voorhees, oltre che il Mostro di Firenze, of course.

Ma le sorprese non finiscono qui: è il 1971 e Mario Bianchi, alias Frank Bronston dirige uno spaghetti-western ancora oggi tra i più invisibili, interpretato da Craig Hill: In nome del padre, del figlio e della colt. La vicenda narra, tra le altre cose, di un misterioso assassino mascherato che durante la notte di Halloween compie i suoi delitti. Ora, che Carpenter conoscesse questo film è molto improbabile visto che la pellicola non circolò nemmeno in Italia se non in poche copie a causa di una distribuzione praticamente inesistente, ma sicuramente è un tassello interessante lungo la strada che da Bava porta prima a Leatherface e poi a Michael Myers.

La saga di Halloween. È il 1978 e John Carpenter e Debra Hill scrivono e producono con l’aiuto esecutivo anche di Moustapha Akkad Halloween, scritto in dieci giorni e girato in tre settimane con solo 300.000 dollari di budget. Gli aneddoti e le curiosità sul film sono moltissimi e basta leggere qualsiasi scheda informativa del film per poterle trovare. L’aspetto più interessante della fase produttiva credo essere la sinergia e lo spirito da indie movie che ha permesso a Carpenter e soci di lavorare in piena autonomia e libertà creativa. Il risultato è sotto i nostri occhi, ovvero un film costato 300.000 dollari e che ne ha guadagnati 55 milioni; un film che ha definito le regole dello slasher movie abbozzato e avviato con successo seminale da Bava e Argento, impostando comunque tutta una nuova sensibilità, molto più americana, sull’oggetto e il soggetto del terrore; un film che senza spargere una sola goccia di sangue è diventato il modello degli slasher a venire, più o meno violenti, più o meno splatter; è uno dei film indipendenti che più ha guadagnato nella storia del cinema e nel 2006 è stato scelto dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti come pellicola da conservare al National Film Registry; per non parlare di alcuni elementi del film oggi ampiamente citati in ogni mezzo creativo, dal cinema alla letteratura ai videogiochi e all’arte grafica, come la maschera indossata da Michael Myers, il tema musicale composto dal regista, Michael Myers stesso che da quel giorno farà sempre rima con la festa di Halloween e viceversa; e ovviamente i brani del film citati intertestualmente in altre pellicole come Dissolvenza in nero (1980), Tutto quella notte (1987), Perché proprio a me? (1990) e ovviamente Scream (1996).

L’ambientazione dello slasher-drama è dovuta alla co-sceneggiatrice e produttrice Debra Hill, nata e cresciuta proprio ad Haddonfield che nella realtà è una cittadina del New Jersey vicina a Philadelphia, e non dell’Illinois come risulta nell’universo diegetico della serie. Il film inoltre non venne girato né in Illinois né nel New Jersey, bensì a South Pasadena, California, dove è ancora possibile trovare la casa dei Myers, oggi un centro chiropratico sito al 1000 di Mission Street. Originariamente la casa era sita al 707 di Meridian Avenue, viale della città in cui furono girate quasi tutte le scene in esterni. Rischiava di essere abbattuta, ma l’hanno saggiamente ricollocata e ridato nuova vita (2). Mentre per la saggia intuizione della festività di Halloween bisogna ringraziare Moustapha Akkad, produttore storico della serie fino all’ultimo – è morto nel novembre del 2005, due anni dopo aver prodotto l’ultimo capitolo della serie ufficiale, The Resurrection (2002).

Se consideriamo questa situazione indie dove ognuno apportava qualcosa di proprio in totale libertà e l’atmosfera collaborativa che regnava sul set, come il fatto che gli attori dovevano procurarsi da soli i loro abiti, senza dimenticare tutte le citazioni di Carpenter sparpagliate all’interno del film – per esempio il nome Michael Myers arriva da un vero amico del regista che gli distribuì in Europa il suo precedente successo Distretto 13 (1976) oppure Sam Loomis, nome ormai leggendario abbinato per sempre al volto di Donald Pleasence, era il nome del marito di Janet Leigh in Psycho (1960), e guarda caso Janet Leigh è la madre di Jamie Lee Curtis e parteciperà pure al settimo episodio interpretando l’anziana segretaria di Keri Tate che le fa anche un po’ da mamma… – se consideriamo tutto questo non sarà difficile capire come mai un film tanto semplice e lineare, anche con alcune incongruenze, abbia potuto diventare la pietra angolare del cinema horror contemporaneo nella sua declinazione slasher fino a scadere anche nel teen-horror edulcorato, patinato e sterile del post-Scream.

Gli episodi totali sono dieci. Sette sono quelli originali legati al primo capitolo più o meno da una sorta di plausibile continuity e sono Halloween (1978), Halloween II – Il signore della morte (1981), Halloween 4 – Il ritorno di Michael Myers (1988), Halloween 5 – La vendetta di Michael Myers (1989), Halloween 6 – La maledizione di Michael Myers (1995), Halloween – 20 anni dopo (1998), che è il settimo episodio e Halloween Resurrection (2002) che è quindi l’ottavo. Il capitolo tre, diretto da Tommy Lee Wallace nel 1982, pur utilizzando il titolo della serie, essere prodotto da Moustapha Akkad, Debra Hill e Carpenter stesso ed essere ambientato durante la notte di Halloween, non solo non coinvolge nessun personaggio dei precedenti due episodi, ma non cita nemmeno il titolare del franchise, l’emblema della serie: Michael Myers. La sceneggiatura è firmata sia da Tommy Lee Wallace che da John Carpenter: la deviazione per tanto era voluta e a nulla serve la citazione intertestuale con il primo episodio che viene reclamizzato alla televisione in previsione del suo passaggio televisivo la notte di Halloween. Il terzo capitolo, Halloween III – Il signore della notte (1982) – in originale Halloween III – Season of the Witch - devia quindi clamorosamente dalla trama originale.

I restanti due episodi, Halloween – The Beginning (2007) e Halloween II (2009) sono dei reboot che volevano rivitalizzare la serie grazie all’apporto originale di uno dei migliori registi del terrore degli anni Zero, Rob Zombie che non solo sbaglia senza mezzi termini l’operazione “resurrezione”, ma anche nei suoi film successivi continua a girare su se stesso con una visionarietà finto-demoniaca, personaggi sciatti che santificano il metal way of life e si credono pure fighi e ribelli, una politica posticcia che non va più in là della linguaccia e un’arroganza pseudo-autoriale nello sfoggio delle citazioni, dello stile e di una violenza sì insana, ma non funzionale. Difatti il pubblico boicotta in massa il secondo reboot di Rob Zombie: da poco più di 80 milioni di dollari in worldwide del film del 2007 ai 38 milioni e qualche spicciolo di quello seguito due anni dopo (si parla di un terzo capitolo che dovrebbe beneficiare del 3D, Halloween 3D, il gioco è pure facile, ma sembra fortunatamente che Rob Zombie non ne voglia proprio sapere (4) ).

Come tutte le serialità cinematografiche, a parte quelle che nascono già pensando agli episodi successivi, devono fare i conti con la possibilità di nuovi capitoli e dover escogitare stratagemmi per coinvolgere vecchi personaggi magari morti oppure fare i salti mortali per far tornare sempre i conti, i buchi di sceneggiatura e i twist narrativi più improbabili. Così succede anche ad Halloween che dal primo capitolo fino all’ultimo della serie ufficiale ha dovuto a più riprese prendere direzioni diverse, a volte negando se stessa e l’idea di partenza, resuscitare i morti e fare davvero i conti con i morti visto che il grande Donald Pleasence morì proprio durante le riprese del sesto capitolo (5). Ecco che se tentassimo di percorrere il sistema dei personaggi, le trame e le ambientazioni, ma anche l’universo diegetico di tutta la serie potremmo incontrare alcune difficoltà, alcune incongruenze, bizzarrie e altre anomalie.

Vediamo quindi come sono evoluti il sistema dei personaggi e i vari intrecci nei sette episodi ufficiali. Nel 1978 Michael Myers torna a casa, ad Haddonfield per continuare quello che aveva lasciato in sospeso dopo aver ucciso la sorella Judith. All’appello manca la sorella minore, Cynthia Ann, che dopo quell’orrendo delitto nella notte di Halloween del 1963 viene adottata dagli Strode e prende nome Laurie. Prima incongruenza: i genitori? I signori Myers perché non sono mai rientrati nella serie? Non erano anche loro un ipotetico obiettivo di Michael?

Laurie Strode sopravvive al primo massacro del ’78 e sarà di nuovo minacciata dal fratello nella stessa notte, all’ospedale in cui è ricoverata. Poi sparirà nel nulla, cambierà identità, se ne andrà lontano, dall’Illinois alla California e si farà chiamare Keri Tate e avrà un figlio John. Ma non è tutto così semplice. Infatti, prima di ritrovare la sorellina, Michael ha passato dieci anni a inseguire la nipotina, Jamie Lloyd, figlia di Cynthia/Laurie, difesa strenuamente da Rachel Carruthers che con la sua famiglia l’aveva presa in affidamento dopo la finta morte della madre.

Scampata anche la piccola Myers al nuovo massacro, Michael ritorna un anno dopo per tentare nuovamente di ucciderla. Non ci riuscirà. In compenso nella mattanza perderà la vita Rachel Carruthers. La piccola nipotina di Michael viene però rapita da un uomo vestito di nero che la terrà segregata per anni fino a che, giunta in età feconda, la farà accoppiare con il diabolico zio, da cui avrà un bambino, Steven. Jamie Lloyd adulta riesce comunque a scappare dal covo di questa terribile setta che ha nel culto di Thorn la venerazione per il male puro rappresentato da Michael Myers. Non le servirà fuggire, lo zio la troverà e la ucciderà, senza però riuscire a prendere il bambino suo figlio che arriverà nelle mani di Tommy Doyle uno dei bambini accuditi da Laurie Strode nella notte del 1978. Tommy è tornato a vivere davanti alla casa dei Myers, ora abitata da alcuni parenti degli Strode, e aspetta il ritorno di Michael ignaro di vivere nella stessa casa di una appartenente alla setta, la vecchia signora Blankenship che consegnerà di nuovo il bambino all’uomo vestito di nero che altri non è che il dottor Wynn, vecchio amico del dottor Loomis e direttore del manicomio in cui ha vissuto a più riprese Michel, lo Smith’s Grove Sanitarium.

Da questo punto in avanti, del piccolo figlio di Michael Myers, di Tommy Doyle e Kara Strode non sapremo più nulla. Sappiamo solo che il dottor Loomis muore nel suo ultimo incontro con Michael. Successivamente la continuity si riallaccerà al presente con Cynthia/Laurie/Keri direttrice di un college privato californiano, il Hillcrest Academy High School. In seguito la serialità ufficiale sembra chiudere ogni ipotesi di continuità non solo facendo morire Cynthia/Laurie/Keri, ma lasciando anche che alla fine dell’ultimo massacro ad Haddonfield nella notte di Halloween del 2002 bruci completamente la casa dei Myers.

Quindi Michael “the shape” Myers insegue nella sua vita Laurie Strode, Jamie Lloyd, il figlio nato dall’incestuoso rapporto con la nipote, e infine di nuovo la sorella tanto desiderata che si fa chiamare Keri Tate.

Personalmente credo che gli episodi migliori della serie, quelli che più rispettano l’idea originale e che preservano l’elementarità dell’archetipo siano, oltre al primo capitolo diretto da John Carpenter, Halloween II e Halloween 4. Dopodiché bisognerà aspettare il 1998 per rivedere un capitolo che riporti la serie all’idea di partenza pur non riuscendo appieno nella resa stilistica del film. È il capitolo sette, Halloween 20 anni dopo di Steve Miner. Purtroppo i due capitoli precedenti, il quinto e il sesto, nonostante la continuity zoppicante con il quarto e riuscitissimo capitolo sono incentrati sul culto della spina con riti druidici che se è vero che non arrivano dal nulla visto che nella prima novelization di Halloween scritta da Curtis Richards nel 1979 l’autore ne parla ampiamente, sicuramente inquinano e disturbano la semplice linearità archetipale del primo film (3). Inoltre Michael, da questi capitoli in avanti, compresi i reboot inutili di Rob Zombie, sembra essere dotato di una certa coscienza. Riflette, indaga, opera scelte di depistaggio, è furbo, ragiona e pondera ogni cosa. In lui non c’è più “l’ombra della strega”, ma sembra essere un uomo reale, grande, grosso e muto, vestito da meccanico con la maschera del Capitano Kirk.

Come si può ben vedere, il primo e il secondo capitolo sono strettamente connessi, mentre dopo il salto del terzo capitolo, con il quarto arriva una nuova storyline incentrata sulla figura della figlia di Laurie Strode, Jamie Lloyd, protagonista del quarto e del quinto episodio, mentre nel sesto appare adulta solo nell’incipit prima di essere uccisa dallo zio. In quest’ultimo episodio, della serie detta degli “apocrifi”, i protagonisti non sono personaggi che vantano legami di sangue con Michael Myers, semplicemente cercano di impedire al mostro di uccidere suo figlio. È il peggiore della serie. Guardabile, ma privo di appeal.

Va anche detto che il sesto episodio gode anche di una Producer’s Cut, cioè una versione fortemente voluta dallo storico produttore Moustapha Akkad insieme al figlio Malek Akkad, qui all’esordio in produzione. Questo taglio originale del sesto episodio prevedeva toni hitchcockiani, ritmi più lenti, una suspense più in linea con i primi episodi al posto di quella sterile, patinata e telefonata dei primi anni ’90. Inoltre prevedeva un’indagine più approfondita e puntuale del rito celtico del culto della spina e della setta capeggiata dal dottor Wynn. Purtroppo i test screenings non andarono bene. La Miramax decise, risultati dei test alla mano, che il film era troppo noioso, con poco sangue e pochi sbudellamenti, e lo trasformò nell’episodio più patetico della serie, allietato solo da delitti ben coreografati e con un buon splatter-appeal (6).

È con il successivo che la storia si riallaccia all’originale presentandoci Laurie Strode a venti anni esatti dal primo massacro. Così abbiamo il primo, il secondo, il settimo e l’ottavo capito collegati tra loro in una credibile linea di continuità, mentre il capitolo quattro, cinque e sei, pur non negando totalmente l’universo diegetico di partenza, si sviluppano in un altro senso apportando sostanziali cambiamenti alla serie di cui in seguito non verrà più tenuto conto. Molti parlano di questi tre capitoli come di “apocrifi”, ma credo sbaglino. Una percezione di continuity plausibile c’è: si parla dopotutto della figlia di Laurie Strode e anche il sesto capitolo le è intimamente connesso. Inoltre vi è la presenza del dottor Loomis interpretato sempre in ogni capitolo da Donald Pleasence, garante quindi della serialità del franchise oltre che collante di tutti gli episodi.

 

 

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