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La Ruggine non dorme mai. Al cinema con Neil Young
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Se c'è un personaggio che ha attraversato la storia del rock ed è riuscito, ben al di là dei suoi propositi e persino contro di essi , a diventare il padre putativo per generazioni di musicisti a venire, ebbene quello è proprio Neil Young.
Uno davvero fuori da ogni schema, un pilastro della scena rock di ogni tempo senza essere mai stato una rockstar, un uomo afflitto da insicurezze e fragilità eppure, o forse proprio per questo, un musicista straordinario capace di attraversare il rock nelle sue mille sfaccettature, passando dal country e dal folk a sonorità più consone all'hard rock, per non parlare di heavy metal (con l'album Re-ac-tor, 1981).

 


Nato a Toronto nel 1945, figlio di un giornalista sportivo, cresce in un villaggio dell'Ontario. Da subito denota una personalità introversa, acuita forse da una malattia (la poliomielite) che lo aveva colpito da bambino e che gli lascerà qualche strascico anche nell'età adulta. Una persona chiusa e solitaria, un loner come si è definito egli stesso in una delle sue prime canzoni.
Ripercorrere una carriera così complessa come la sua è pressoché impossibile in poche righe, e del resto è facile reperire biografie dettagliate ed esaurienti anche sotto il profilo critico (in particolare in questa sede ci sentiamo di consigliare questa: http://www.ondarock.it/songwriter/neilyoung.htm)
Diciamo solo che Neil Young è considerato un precursore del punk e, soprattutto, il padre morale del grunge, il genere che dalla Seattle della seconda metà degli anni 80 si impose all'attenzione del mondo. L'influenza del musicista canadese sul genere venne in qualche maniera “certificata” nel 1995 dalla pubblicazione di Mirror Ball, realizzato insieme ai Pearl Jam.

 


E partiamo proprio dal 1995 per parlare dei rapporti tra Neil Young ed il cinema. Sono numerosi i pezzi del cantautore canadese che fanno parte di colonne sonore, ne ricordiamo qualcuno a partire da Philadelphia, canzone scritta per l'omonimo film per cui Tom Hanks vinse l'Oscar, e poi Everybody knows this is nowhere e Cortez the Killer in Quasi famosi – Almost Famous di Cameron Crowe, straordinario affresco semi-autobiografico sul rock degli anni '70, Old Man che compare sia in Space Cowboys di Clint Eastwood che in Lords of Dogtown di Catherine Hardwicke , World on string in Jerry Maguire ancora di Cameron Crowe, con Tom Cruise, e concludiamo la carrellata con Don't let it bring you down che fa parte della soundtrack di American Beauty.
E non parliamo dei film dedicati a Neil Young (su tutti, almeno a parere di chi scrive, Rust never sleeps che catturò il canadese in concerto con i Crazy Horse alla fine degli anni '70 ).

 


Torniamo invece a quel 1995 quando la strada di Neil Young si incrociò con quella di Jim Jarmusch, un incontro fra due talenti puri nel creare visioni alternative. Da un contatto simile poteva venire fuori o una grande bufala oppure un capolavoro straordinario, e Dead Man è senza dubbio inquadrabile nella seconda categoria.
Narrando la storia di William Blake (Jhonny Depp in una delle sue migliori interpretazioni), contabile di Cleveland dall'ingombrante nome, che si reca in una cittadina dello sperduto west per un lavoro che non riuscirà ad avere e si ritrova coinvolto in una disperata cacci all'uomo dagli esiti tragici, Jarmusch racconta di un viaggio nelle angosce dell'uomo.
Blake che fugge in un allucinante bosco reso tale dal bianco e nero scelto dal regista, trova aiuto in un filosofico pellerossa dall'omerico nome di Nessuno, un personaggio talmente surreale da farci pensare che sia solo una creazione della mente del povero contabile braccato. Ma tutto il film è contraddistinto da un tono onirico, tale da far dubitare che tutto il viaggio sia in realtà un sogno (o un incubo).

 


Western assolutamente atipico, tanto che più di un critico ha rilevato come sia corretto parlare di “western” solo per l'ambientazione, per il resto ci si trova di fronte a una disamina sull'animo umano e le sue distorsioni. Una sorta di viaggio agli inferi, come forse lo spettatore più avveduto può intuire già dalle immagini iniziali, quando il macchinista alla guida dello sferragliante treno che porta l'ignaro protagonista verso i luoghi in cui si consumerà il suo destino, introduce con una serie di frasi dall'apparenza sconnessa il povero Blake, e con lui lo spettatore, alla vicenda.


Neil Young si immerge in profondità nella storia e crea una colonna sonora che va ben oltre l'accompagnamento musicale, le note straziate della sua chitarra penetrano nelle immagini e aggiungono significato a quello che scorre sullo schermo.
La chitarra di Young più che suonare qui pare “parlare” dei paesaggi deliranti in cui vaga Blake nella sua fuga, gli accordi avvolgono lo spettatore come gli alberi del bosco in cui il protagonista smarrisce la sua via e forse la sua anima.
Dead Man non è solo un film di Jim Jarmusch, è più corretto dire che è un film di Jarmusch e di Neil Young.

 


Che tra i due sia scaturito un notevole feeling lo dimostra il fatto che di lì a poco il regista realizza un documentario sull'attività live del musicista canadese accompagnato dai Crazy Horse, film uscito nel 1997 con il titolo Year of the Horse.

 

Concludiamo con salto nel tempo ritornando per un attimo al 1979 e a quel palco su cui Neil Young, proprio insieme ai fidati Crazy Horse, scagliava sul pubblico l'energia della sua chitarra e della sua musica.
E a quei versi........
It's better to burn out 'cause rust never sleeps
The king is gone but he's not forgotten.

 

 

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