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72 anni, forse 71
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"I never drive here. Il Cairo is too dangerous: that's why I chose a SUV. And you need to pay attention, my dear! Too much attention, for me. I prefer a professional driver" K. ha un inglese un po' stentato grammaticalmente, ma la pronuncia è ottima. Sorrido: SUV, autista privato: non se la passano poi così male, qui! Usciamo dal centro città, la strada - perennemente interrotta da lavori in corso - si fa un po' meno trafficata. Tra le case e le fabbriche sparpagliate qua e là lo si intravede. Lui. Il deserto. Grigio, sassoso. " This road is direction Alexandria. I have a house there, for holidays". Pure! "But I know Italians love Red Sea. Red Sea is very Italian!" Ride. "But, you know, it' too Italian now, for us! Too crowded, too noisy. And too far from big towns: just touristic villages, everywhere. Ahhh" Ride ancora. Non so che rispondere, perchè io, sul Mar Rosso, non ci sono mai stata. Chiedo incuriosita se sia dunque Alessandria la meta estiva della borghesia egiziana. "Yes, but as well Ma?r?? Governorate" "I know Marsa Matrouh, K.! There are wonderful beaches and great sea there. Some friends of mine spent a week in that area, couple of years ago." "Mars? Ma?r?? is such a charming place! But beaches and sea in the area of al-'Alamayn are much better. Unforgettable!" "Are you talking about El Alamein? Is it a town? ... I suppose" "Yes, not a big town, really. About 100 kms from Alexandria. Nice place to stay." Guardo fuori dal finestrino: Il Cairo è in piena espansione, penso. Nuovi insediamenti abitativi puntellano il paesaggio, in una sequenza ininterrotta di camion di cemento, impalcature, gru. Che strano, dunque El Alamein è oggi un resort per egiziani ricchi. Certo, a me viene in mente altro: "Come folgore dal cielo ... ": solo un paio di volte, l'avevo sentita canticchiare. Guarda caso, in genere a cadenza decennale: fu dopo la sua morte, che seppi di quel paio di rimpatriate tra mio padre ed un ex commilitone toscano incontrato in caserma a Pisa nel 1967. Lo ricercò anche l'anno dopo la sua scomparsa: una telefonata, la notizia.  Mi stupì lo smarrimento immediato, la costernazione addirittura, di quello sconosciuto. Sull'opera in due volumi, avuta in regalo per il congedo, alla voce "El Alamein" fotografie in bianco e nero un po' sfocate, la cronaca giornaliera fatta di testimonianze, dispacci, grafici della disposizione, note sui movimenti. Non mi è mai sembrato ci fosse nulla di deplorevole ("fascista!") nel riconoscere il valore degli individui ed il buon operato di un gruppo. Fatta salvo la mostruosità - in senso assoluto ed indiscutibile - della guerra. Un soldato non fa politica: a lui si chiede di agire, di ubbidire, di comandare, di decidere secondo etica. Militare certo. Certo, alla base i valori, i principi e le norme etiche e morali, fondamentali della vita umana. Onore. Una parola fuori moda nel 2014. Ed un discorso troppo complesso per me, per le mie scarse conoscenze e le mie misere rielaborazioni. Ma quel nome, "El Alamein" sempre mi ha riportato a galla ricordi d'infanzia, scampoli di libri, racconti fantasiose. Con il tempo, diventati leggenda.

 

 

Come si può raccontare la leggenda se la leggenda non è riconosciuto tale? Se ancora dopo settant'anni non si sono chiusi i conti con il passato, con il nostro passato fatto di guerre civili mai dichiarate, di pulizie etniche non denunciate, di epurazioni interne e nostalgie pericolose? "Episodio scomodo" nell'Italia del dopoguerra: così viene spesso liquidata "El Alamein". Si può avere il coraggio, cinematograficamente parlando, di affrontare una lettura storica dell'evento? Che sia storica però, anche contro la "linea di pensiero infuocata" che ci ha attraversati - tutti, chi più chi meno - dal 1945 ad oggi?

 

 

La risposta sta tutta nel blando film di Monteleone: no. Finanziato con soldi pubblici più che mai, "El Alamein" avrebbe dovuto "narrare" un crocevia di accadimenti fondamentali per lo svolgimento successivo dell'evento bellico. Non solo, ma avrebbe dovuto "narrare" un "non-mito" italiano: taciuto (diciamo, ignorato) dal Fascismo prima (a tutti gli effetti fu una sconfitta cocente), taciuto (diciamo ignorato) dall'Italia del dopoguerra poi (a tutti gli effetti fu una sconfitta troppo "onorevole" per un esercito "fascista"). Talmente "non-mito" che alla fine, per alcuni, è divenuta leggenda: senso del dovere e coraggio. A ben guardare, che per lo spettatore sia "mito" o "non-mito" da Monteleone si sarebbe pretesa, almeno, appunto, la "narrazione". Che purtroppo non c'è! Pochi sicuramente conoscono o ricordano (rimembranze scolastiche) gli accadimenti concreti, in quel lembo d'Africa nel 1942. "El Alamein" non si impegna a riportarceli alla memoria. Il quadro d'insieme non esiste. Quel poco che pochi italiani trattengono è forse una suggestione lontana nel tempo e nello spazio, dall'odore di terra e di umori, e dal sapore di saliva asciugata dalla arsura prolungata: l'onore delle armi alla 185esima Divisione Paracadutisti "Folgore", l'incontro fra il generale Hughes ed  il generale Frattini. Nel film, non se ne parla. E allora? E allora Monteleone si limita a confezionare un prodotto italiano tipico: lo sguardo è dal basso, lo scorcio rasenta l' intimista, la sceneggiatura si riempie di dialoghi, il pubblico è chiamato all'immedesimazione (dal racconto in prima persona) o forse anche alla critica facile ma poco alla comprensione profonda. Come si ottiene tutto ciò? Muovendo bene gli attori: stupisce Emilio Solfrizzi (che il grande pubblico conosce per tono assai più leggeri), non stupisce Pierfrancesco Favino che se ben diretto (arginato?) fa scintille. Sufficienza risicata (molto, molto risicata) per Paolo Briguglia, assai meglio Scarpa e Trabacchi. Ma la scrittura scricchiola, tra luoghi comuni (non riuscire a sparare ad un cavallo, la corsa nel mare) e qualche effetto speciale. I cigolii aumentano sinistramente sul finale: il nemico resta invisibile in questo deserto che non è dei Tartari; solo i titoli di coda delineano un orizzonte lasciato aperto sulle dune sassose. Troppo poco per un destino che fu militarmente e storicamente "chiuso", senza appello. Poco conta "la verosomiglianza": il dispiego di mezzi economici e tecnici - buone le scene notturne, buona l'ambientazione - l'apprezzamento che alcuni reduci diedero all'opera ("fu veramente così", pare avessero esclamato alcuni, ma la fonte di tale notizia non è controllata, non ne rispondo). La guerra è tremendamente incomprensibile ed inaccettabile, mi pare ovvio. Il dolore indescrivibile per chi l'ha vissuta e la ricorda: nelle trincee dell'Africa del nord come nelle steppe sconfinate della Russia. Nella sete del deserto come nella fame di un lungo assedio. Ma è un monito troppo generale: il titolo è "El Alamein" qui: se il fine era "didattico" o "educativo", come i finanziamenti motiverebbero, la sconfitta è completa. Se il fine era "spettacolare" o "concettuale" la nebbia permane. Se il fine era "narrativo" peggio che mai. Quando lo schermo si annerisce mi chiedo sempre che cosa abbia spinto avanti un progetto; cosa abbia convinto le persone ad impegnarcisi tanto: cosa, e se, esso possa avere aggiunto al puzzle personale di ogni singolo spettatore. Per questo film, non trovo risposte. Una opportunità troppo grossa per non essere sfruttata appieno. Peccato.

 

E' strano come i fatti della Storia possano entrare nella nostra vita inaspettati. Qualche parola scambiata sul sedile posteriore di un'auto nel traffico caotico de Il Cairo. Saranno 72 anni tra poco (fine di ottobre-inizi novembre) da quegli eventi tragici nei pressi di al-'Alamayn, come pronuncia K. Oggi luogo di villeggiatura.

Fu un bene perdere, combattendo con onore.

 

 

Oggi, 25 settembre 2014. Sono 71 anni oggi, lo sono stati ieri, lo saranno domani. Da quel settembre tragico, che adombrò il sole in una giornata di giugno. La pineta si stende aggrovigliata e odorosa, il verde più cupo a contrasto con i riverberi scintillanti sulle acque blu del mare greco. Che bello qui! al riparo dalla calura e dai venti forti che soffiano nella zona del faro. Il cartello ci fa deviare a sinistra, la strada stretta ma ben curata. Si inerpica appena sulla collina, un canto di grilli insistente ci accompagna. Il monumento è nascosto lì, subito fuori la Fanari Road che da Argostoli porta a Lassi. Mi prende una suggestione: quanta bellezza, tutt'attorno! Gli alberi secolari, il cielo attraversato da nuvole tranquille, le spiaggie silenziose appena lasciate. Ci raccogliamo un istante davanti all' epigrafe: vuoi leggendo, vuoi recitando una breve preghiera. Mi scende una lacrima: onore ai caduti. Ai nostri caduti. Scattiamo un paio di fotografie, poi ci spostiamo più in basso, alla fossa che una indicazione sbiadita ricorda essere stata una delle tombe degli ufficiali italiani (i cui corpi vennero poi recuperati, credo) trucidati in quei giorni lontani. Le parole del vecchio Niko giù al ristorante, l'italiano ancora se lo ricorda: "li conoscevamo tutti per nome, quelli della guarnigione a L. Di duecentocinquanta, se ne salvò uno, lo nascondemmo qui" mi rimbombano in testa. Non suonava il mandolino, quel sopravvissuto. Sorrido commossa. Forse mi aspetto troppo: il cinema è cinema. A Hollywood il Capitano Corelli, in Italia Rizzo-Favino. Solo, è tremendamente importante ricordare. Solo, è tremendamente importante capire. Solo, è importante ringraziare: di essere stati risparmiati da quel dolore, da quella sofferenza.

Fu un bene combattere, perdendo con onore.

 

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