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Nuovo cinema horror iberico - The Orphanage e dintorni
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In occasione della messa in onda in prima visione televisiva sui canali free di The Orphanage, una piccola ricognizione senza pretese su cosa sia oggi il cinema dell’orrore in terra di Spagna.

 

 

I primi dieci anni del nuovo millennio hanno visto imporsi giovani agguerriti talentuosi filmaker, a cui va il merito di essere riusciti a varcare i confini nazionali e farsi conoscere nel resto dell’Europa e oltreoceano. Dettando anch’essi le nuove regole del genere, facendosi seri antagonisti del sempre prolifico (nel bene e nel male) horror movie made in U.S.A.

Registi, quasi tutti, esclusivamente militanti nel thriller fantastico/horror gotico soprannaturale, i quali mettono a punto uno stile capace di rispettare la grande tradizione del genere e al contempo di assimilare i più nuovi linguaggi visivi.

Volendo fornire una più precisa definizione, si potrebbe definirlo una suggestiva riuscita fusione di fantasy, fascinazione classica e (in alcuni rari casi) iperviolenza.

La Spagna, proprio in questi anni zero, compie una decisa inversione di tendenza rispetto alla sua stessa recente passata produzione, che con la caduta del regime franchista, seconda metà degli anni’70, faceva dell’esplicito e della violenza la propria cifra stilistica e suo imprescindibile stendardo. E rispetto, altresì, alla direzione imperante presa dal genere dopo il dramma dell’11 settembre, che pare proprio aver conferito all’horror un carattere più crudo cinico e spietato che mai.

Basti pensare agli americani Rob Zombie (La Casa del diavolo), Eli Roth (Cabin fever, Hostel), ai francesi Alexandre Aja (Haute tension), Pascal Laugier (Martyrs), Xavier Gens (Frontiers), ai britannici Neil Marshall (The Descent) e Christopher Smith (Severance) o all’australiano Greg McLean (Wolf Creeck), giusto per citare quegli autori di un ribollente calderone che hanno ottenuto risonanza attraverso i canonici canali di distribuzione -la sala cinematografica-, mezzi rimasti decisamente parecchi passi indietro rispetto al capillare, minuzioso, gigantesco, perenne, necessario, ‘politicamente scorretto’ lavoro di continuo aggiornamento compiuto dalla rete.

Oppure, ed è il modesto parere di chi scrive, questa nuova (contro)corrente iberica preferisce un approccio apparentemente meno aggressivo, meno diretto e più blando nel modo di esprimere comunque gli orrori della nostra realtà, puntando però, a ben guardare, dritto al cuore del ‘problema’, scardinando dal di dentro la base su cui si fonda la società civile, l’istituzione familiare. Ecco che allora si fanno sensate alcune affermazioni come la seguente:

“Questi nuovi registi del brivido paiono ossessionati da una tematica complottistico-familiare tale da realizzare pellicole-fotocopia indistinguibili fra loro che paiono essere assopiti su cliché oramai inefficaci, noiosi e cerebralmente contorti”

in riferimento ad alcuni film che, al di là degli oggettivi difetti e pregi, hanno dato forma e anima al cinema horror ispanico degli anni zero. (Nameless, Second Name e Darkness).

 

 

 

 

 

Partiamo, allora, con il talentuoso Alejandro Amenabár, il più eclettico regista di questo manipolo di irriducibili della mdp, il quale, sbarcato in terra hollywoodiana, si dedica a quella che è forse la sua pellicola più conosciuta e amata, The Others (2001), sotto l’egida del divo Tom Cruise ---rimasto così folgorato dal suo Apri gli occhi da farlo rifare alla maniera yankee (ovvero con molti più soldi ed una maggiore cura -patinata?- stilistica) da Cameron Crowe, che lo aveva già diretto in Jerry Maguire--- scrivendo, dirigendo e musicando questa dolente favola gotica, in cui dà eccellente prova delle sue capacità da cineasta.

The Others è la rarefatta storia di un isolamento imposto, il lacerante baratro di tristezza in cui è sprofondata una madre e i suoi 2 bimbi, inconsapevolmente imprigionati nel magmatico limbo di una dimensione altra.

 

 

Sapiente gestione della tensione (ne aveva dato già prova con l’esordio Tesis del 1996) per una pellicola fortemente intimistica, che dosa bene i tempi e si avvale di uno dei migliori inattesi finali, forse di sempre, nella storia della settima arte, ottenuto semplicemente spostando/alterando la tradizionale prospettiva data alle storie sui fantasmi, per adottare un punto di vista differente, diametralmente opposto, una narrazione ‘in soggettiva’ tale da indurre lo spettatore a immedesimarsi nei personaggi, credendoli esseri umani abbandonati a se stessi, sopraffatti dal loro insanabile dolore. Spingendolo a vedere e sentire e muoversi come loro vedono sentono e si muovono, fornendogli l’illusione di essere dal lato giusto della barricata, ignaro della sua condizione di ‘diverso’.

 

 

 

 

Jaume Balaguerò. Discontinuo autore specializzato in horror soprannaturali, a suo agio tra culti misterici, spiriti inquieti e ombre malvagie che bazzicano case isolate come vecchi ospedali, ma capace di impregnare d’orrore anche moderni condomini con appetibili case in affitto, vere e propri contenitori di atavica incontenibile follia, che nelle sue mani, e in altre circostanze, finisce per sfociare/mutare in una improvvisa sconosciuta infezione, che si saprà poi, di natura demoniaca.

 

 

 

 

 

 

 

Non si lascia scappare una sorprendente incursione nel thriller con Mientras duermes (2011) da noi Bed time, storia poco probabile (per la piega esasperata che prendono gli eventi) ma sicuramente non impossibile -proprio no- di un portiere di condominio, all’apparenza uomo perbene e servizievole, ma sotto quella maschera di placida rassicurante benevolenza che gli abitanti del palazzo pretendono di sapere autentica, si nasconde l’anima malvagia di uno spietato guastatore delle vite degli altri.

 

 

 

A seguire, Francisco Paco Plaza, che con Balaguerò ha tracciato un percorso in parallelo: entrambi hanno tratto un lungometraggio ciascuno dai romanzi dello scrittore dell’orrore, il britannico Ramsey Campbell.

Second Name (2002), appunto, reca la sua firma. La vicenda ruota intorno alla antica setta religiosa degli Abramiti, la cui usanza era quella di sacrificare a Dio la vita del proprio primogenito. Da molti considerata la sua prova migliore.

Racconto di Natale, come Se Renta (Fittasi) di Balaguerò, è invece una delle 6 Peliculas para no dormir (mediometraggi per la televisione, una sorta di Masters of Horror spagnoli, se vogliamo) con protagonisti un gruppo di bambini alle prese con il loro personale Babbo Natale.....

 

 

 

 

È chiaro e inevitabile che i 2 registi finiranno per unire le forze e agguantare il successo su scala mondiale con [Rec] (2007), tellurico zombie-movie virale della porta accanto, calato in un ambiente urbano con epicentro un condominio come se ne vedono tanti in una qualsiasi città sulla faccia della terra.

Pellicola perturbante forte di una direzione volutamente amatoriale tra le più riuscite dello stile mockumentary, impostosi in questi anni con tale prepotenza, grazie al successo planetario di The Blair witch projet (1999), da divenire la colonna portante del contemporaneo cinema di paura che riesce ad arrivare (obbligatoriamente) nelle sale e ricevere consensi da un'ampia fetta di affezionato pubblico.

 

 

Per bissare il successo due anni dopo con [Rec]² (2009).

 

 

Nel 2012 Plaza si è lanciato nella direzione solista del terzo capitolo, prequel che illustra come il virulento contagio abbia avuto gustosamente inizio. Stavolta la traballante camera a mano lascia il posto alla più classica e stabile macchina da presa.

Mentre Balaguerò ha già in cantiere l’apocalittico numero 4.

 

 

 

Juan Carlos Fresnadillo e il suo Intacto (2001), thriller fantastico, racconto di un uomo scampato a morte certa che si trova coinvolto in un giro clandestino di scommesse o ‘gare’ insieme ad altre persone che hanno condiviso la sua stessa esperienza di sopravvissuto, dove la posta in gioco è (nuovamente) la propria vita.

Sfidare la morte con 'prove' dall’elevatissimo margine di rischio (e di insuccesso) come correre bendati nel bosco e attraversare un autostrada trafficata, sempre rimanendo bendati, o sottoporsi alla roulette russa ad oltranza, come a voler convalidare e rafforzare la convinzione della propria invulnerabilità e/o esorcizzare un trauma che ha segnato nel profondo.

Il tutto immerso in un’atmosfera di malsana ineluttabilità capace di calamitare l'attenzione dello spettatore. Il giovane regista iberico riesce a costruire un film singolare e seducente, in cui il quotidiano si frastaglia in impazzite schegge di inquietudine.

 

 

La scena della corsa tra i boschi ispirerà il videoclip Voodoo People (Pendulum Remix) del gruppo techno(dalle venature)punk The Prodigy, che nel corso degli anni ha fatto dei contenuti forti ed estremi il suo affascinante inconfondibile tratto distintivo.

(clicca qui sotto traccia 64)

 

 

Fresnadillo sarà poi chiamato a girare 28 settimane dopo (2007) sequel del fortunato 28 giorni dopo (2002) di Danny Boyle, lavoro adrenalinico, inquietante e a tratti disturbante, ottimi il sonoro ‘sotto pelle’, concitato l’utilizzo della camera a mano, per un racconto post-apocalittico di rara efficacia visivo-emozionale.

 

 

 

 

 

 

 

Degna di nota ma meno nota in territorio straniero, l’interessante personalità di David Carreras Solè, di cui ci è pervenuto un unico lavoro, il vagamente argentiano Hipnos, un thriller psicologico a incastro, una ghost story dell’anima, dalle seducenti atmosfere oniriche, in cui il piano della realtà e quello dell’immaginazione (o sogno o falso ricordo) si fondono e confondono con navigata maestrìa, rivelando la grande abilità tecnica e immaginifica di un artista le cui tracce paiono essersi fermate a questa pellicola datata 2004, per chi scrive, sottostimata e da recuperare.

 

 

 

 

 

 

 

Imprescindibile maniacale attenzione alla forma, meticoloso lavoro sulla fotografia, sulle inquadrature e scenografia, ritmi lenti funzionali alla costruzione di atmosfere pregne di cupezza e di turbata quietudine sono alla base del ‘new horror iberico’, che mostra il suo tallone di Achille nelle sceneggiature non proprio di ferro. Ma ciò nonostante il trascinante appeal della messa in scena rende tali opere certamente da vedere e validi modelli (principalmente estetici) a cui guardare, di cui far tesoro, da cui attingere.

 

 

E, infatti, al 2009 risale una (non proprio felice) coproduzione italo-spagnola, probabilmente l’unica recente a memoria d’uomo e forse la sola ad aver visto la luce della sala cinemtografica, Imago mortis, per la regia dell’italiano Stefano Bessoni, pupillo di Avati.

 

 

Se il titolo è intrigante, e la trama è debole e pretestuosa, notevole invece è l’apparato tecnico. Un impianto visivo che sfoggia un elegante, raffinato gusto per il macabro, visibile nel film solamente a tratti -purtroppo- e sfruttato prevalentemente per il tam tam promozionale, provvisto com’é di un accattivante carnet di immagini (locandine, cartoline) con impresse diverse situazioni/pose di morte, tutte intelligentemente giocate sul sottile labile confine tra l’attrazione e la repulsione di chi (le) guarda.

Un caso unico per l’Italia (almeno nel contemporaneo), un’operazione memorabile per la cura e la perizia con cui è stata concepita e condotta, tale da far rimembrare il sopraffino impeccabile lavoro sull’immagine ‘mostruosa’ autocostruitasi dalla nuova icona horror del rock (la migliore di sempre) Marilyn Manson, in riferimento, nella fattispecie, al certosino eccezionale progetto-concept grafico riservato alla copertina (facciata e retro) e booklet interno all’album Holy Wood dell’anno 2000.

 

 

 

 

Holy wood

 

 

 

 

 

 

E per ultimo, ma non ultimo, Juan Antonio Bayona e il suo film d’esordio The Orphanage (2007).

 

 

Prodotto dal ricettivo ed entusiasta Guillermo Del Toro, regista sceneggiatore e scrittore messicano dalla fervida immaginazione, che nel contesto horror ispanico occupa un ruolo trasversale ma fondamentale per l’arruolamento di nuovi registi e la divulgazione fuori confine delle loro opere.

Produrrà, infatti, nel 2010 Non avere paura del buio del fumettista Troy Nixey e nel 2013 il toccante La Madre di Andreas Muschietti.

 

Dal canto suo, ha contribuito alla causa iberica con 2 pellicole a metà tra il fantasy e il genere storico, fra le più apprezzate della sua filmografia, La spina del diavolo (2001) e Il labirinto del fauno (2006), ambientate rispettivamente nella Spagna della guerra civile in atto e successivamente dopo. Come a dire, si guarda al passato per parlare del presente.

 

 

 

Lavoro di cesello, questo The Orphanage, a partire dai titoli di testa, capace di trasformare una storia che racchiude tutti, o quasi tutti, gli stilemi della letteratura e del cinema horror in un piccolo capolavoro di struggente rara bellezza.

 

 

Niente di nuovo, tutto già visto e risaputo ma utilizzato secondo modalità e tempi perfetti.

Storia di fantasmi ---della memoria, del passato, del tempo andato che il presente in perpetuo movimento fatica a comprenderne e interpretarne la presenza, di come la vita s’incammini su un battuto preciso invisibile sentiero, lanciandosi in giri immensi per tornare poi al punto di partenza--- che poggia le sue solide basi sull’abile script del sodale Sergio Sánchez , dando forma ad un magnetico racconto impregnato del senso asfissiante della tragedia ineluttabile, che fu, che sarà, che è stata.

Scosso da brividi autentici -raggiungendo vette da pelle d’oca- e percorso da una tensione sotto pelle come poche volte è capitato di avvertire.

Vestito di atmosfere dense d'angoscia, riflesse negli scenari naturalmente spettrali del mare d’inverno delle Asturie (a nord della Spagna, caratterizzate da spettacolari coste frastagliate alternate da ampie spiagge oceaniche), dove non(c')è il sangue a motivare la paura, strisciante, sotterranea, insidiosa, raggelante.

 

 

 

 

Carismatica la protagonista Belén Rueda ---già vista in Mare Dentro, intenso dramma morale sulla dignità della morte e prima ancora della vita, di A. Amenábar--- nel toccante ruolo di Laura, una donna sensibile e amorevole, cresciuta in un orfanotrofio, a pochi passi dal mare, dove vi fa ritorno in età adulta, insieme al marito e al figlio adottivo malato di aids, per rimettere in sesto l’edificio abbandonato da anni e farne una casa famiglia in cui ospitare bambini disabili bisognosi di cure.

Laura s’immerge -e noi con lei- in un mondo fatto di vecchi, cari mai sbiaditi ricordi, mentre il presente le alita minacciosamente sul collo, per poi infrangere impietoso ogni sua speranza di felicità in quell’epilogo emotivamente insostenibile. E che la chiama a compiere una scelta. Quella estrema.

La crudele feroce tragica realtà della vita in atto -un oggi e un domani unicamente dolenti- contro un passato carezzevole che ha le fattezze della dolce, rassicurante e rasserenante, non necessariamente maligna, dimensione dell'aldilà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          

           * il corsivo indica:

            sparpagliate citazioni dal web

           Undying per il Davinotti.it

          ‘Intacto’ Luca Baroncini - Spietati.it

 

 

 

 

 

 

 

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