Espandi menu
cerca
Brevi appunti sulle origini dell’espressionismo cinematografico (da "Il gabinetto del Dottor Caligari a.......)
di spopola
post
creato il

L'autore

spopola

spopola

Iscritto dal 20 settembre 2004 Vai al suo profilo
  • Seguaci 507
  • Post 97
  • Recensioni 1197
  • Playlist 179
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

Locandina originale

Il gabinetto del dottor Caligari (1920): Locandina originale

 

Credo che si possa tranquillamente affermare senza tema di essere smentiti, che l’espressionismo sia stata la corrente artistica che più ha influenzato il cinema con effetti che si sono tramandati fino all’oggi, pur modificandosi sostanzialmente rispetto alle premesse iniziali e mutando in pratica costantemente le sue forme di pari passo con l’evoluzione anche tecnica della settima arte (parlo dell’illuminazione, della costruzione delle inquadrature, dei contrasti cromatici, del gioco delle ombre e a volte persino della “forzatura espressiva” di certe performances e dell’uso del trucco, come - per parlare del presente – succede per esempio in certo cinema spagnolo contemporaneo tipo Ballata dell’odio e dell’amore di Alex De la Iglesia).

 

Andando un poco in retrospettiva, basta comunque pensare all’imprescindibile contributo che ha dato nel rendere grandi (e inquietanti) i capolavori del noir del secolo scorso per comprenderne l’importanza (e soprattutto la sua trasversalità) in parte credo mutuata proprio dal fatto che si è trattato fin dalle sue origini di un movimento multidisciplinare che ha interessato praticamente tutte le arti (non solo il cinema, ma anche la pittura, il teatro, la musica, l’architettura, la letteratura stessa, e così via) connotando profondamente con le sue cupe atmosfere e i presagi angoscianti che cominciavano a scavare dentro l’anima nera che si nasconde in tutti noi per portarli definitivamente in superficie, al di là dei mostri che è andato effettivamente a rappresentare.

 

 

Spesso se ne utilizza persino arbitrariamente il termine, perché per (ri)conoscerlo a fondo e sapere di che cosa effettivamente si parla, bisognerebbe essersi approcciati - cinematograficamente parlando - per lo meno ai due studi fondamentali e contrapposti di Siegfrid Kracauer (Da Caligari a Hitler) e di Lotte H. Eisner (Lo schermo demoniaco) o, per una conoscenza più generale della corrente, aver anche semplicemente “sbirciato” L’espressionismo di Ladislao Mittner a suo tempo pubblicato da Laterza.

Difficile dunque essere sintetici dovendo partire così da lontano poichè per comprendere appieno la portata (artistica e storica) di questo straordinario movimento che scosse dalle sue fondamenta la Germania (e l’Europa tutta), bisogna ritornare alla particolare situazione in cui si trovava quella nazione agli inizi del novecento: proverò a farlo per sommi capi delineando per lo meno le linee generali di partenza, le origini insomma e i primi sviluppi pratici applicati al cinema.

 

zf?

 

Alcuni fanno risalire la nascita di questo movimento verso il 1910: in realtà quella è solo la data in cui fu coniato il termine per definire le nuove tendenze artistiche che in effetti avevano già cominciato ad attecchire sul finire dell’ottocento, con una graduale, impercettibile trasformazione già pienamente avvertibile negli ultimi romantici che ne covavano il seme.

L’espressionismo (o per meglio dire una delle molte correnti di quell’”arte nova” che rivoluzionò le modalità espressive nei primi anni del secolo scorso) nacque come una naturale reazione contro l’impressionismo.

L’opposizione infatti è già nei due termini che indicano due modi opposti di intendere la creazione

artistica, a seconda che vi prevalga la soggettività dell’espressione o l’oggettività dell’impressione.

Anche se la parola “espressionismo”, quasi un grido di guerra dichiarato (ce lo ricorda appunto proprio il Mittner) divenne rapidamente un termine tecnico per definire e catalogare quelle nuove correnti artistiche, del quale ormai non possibile fare a meno,è necessario ammettere che non è facilissimo (anzi, quasi impossibile) “dire – esattamente - che cosa propriamente significhi tale termine. Essa non designa infatti né la realtà storica di una scuola o di un gruppo comunque definibili nella loro unità o almeno uniformità” e si configura di conseguenza già à in partenza come una comoda “approssimazione, una specie di minimo comune denominatore che permette di collegare fra loro e assemblarli in un’unica voce, quei sommovimenti artistici in cui appunto l’individualità dell’artista (in qualunque campo operi) non ricerca più l’affermazione di un estetismo nell’equilibrio oggettivo dei rapporti formali (dei quali sostanzialmente ne rispetta le regole di fondo) come accadeva nell’esperienza impressionista, ma al contrario, lavora invece dall’interno, e quelle regole le stravolge dall’interno anche semplicemente alterando le forme o i colori, fino a trovare la sua principale ragione di esistere e di farsi arte, nell’intimo della coscienza soggettiva, in una disperata ribellione a ogni valore tradizionale della vita.

Non è dunque un caso che l’espressionismo sia nato in quegli anni e in Germania, e che abbia poi attecchito su così vasta scala influenzando praticamente tutti i campi dell’arte, portando con sé i germi di un effettivo rinnovamento artistico e culturale che è stato significativo per una maturazione della coscienza di un popolo che poi doveva essere apertamente sconfessato anche da se stesso, con le inevitabili, disastrose conseguenze dell’affermarsi del nazismo che si ripercossero su tutta l’Europa e sfociarono per la seconda volta nella tragedia della guerra.

Era insomma, con tutte le sue variegate sfaccettature, un “fermento” naturale che finalmente era giunto a compimento, ma che era già parte integrante dello spirito germanico di quel periodo, lo sbocco finale di una crisi latente che covava sotto la cenere e che la guerra del 1915-18 fece precipitare.

Effettivamente la struttura dello stato tedesco, la sua rigida tradizionalità esterna, la sua coerente e intransigente organizzazione politica e industriale (ma anche militare), avevano dato origine a un largo moto di “sofferenza” sul piano dei valori etico-estetici che alimentava il potenziale esplosivo di una rivolta morale e artistica che aveva bisogno solo di un pretesto per manifestarsi e finalmente deflagrare in tutta la sua potenza.

Già nel 1916 Hermann Bahr, aveva provato a definire la corrente come “l’arte che vede con gli occhi dello spirito, cioè il ritorno dell’uomo al suo io più intimo, predominio assoluto del sentimento assoluto del sentimento come fattore etico e creativo” mentre Kasimir Edschurial ne parlava come di un movimento in cui: “la realtà deve essere creata, e non ci si deve accontentare del dato di fatto creduto e fissato. L’immagine del mondo deve essere rispecchiata nella sua purezza non deformata, ma questo è solo dentro di noi. L’artista non rappresenta ma vive, non riproduce ma plasma, non prende ma cerca; ogni cosa acquista rapporto con l’eternità. Sparisce l’individuo, vi è la creatura la cui esistenza è regolata non dalla meschina legge della logica e della casualità, ma dalla grandiosa unità di misura del suo sentimento.”

L’espressionismo, in ultima analisi, fu quindi lo specchio di una crisi, la crisi in cui si dibatteva la coscienza di un intero popolo che esteriorizzava in gesti esasperati i propri sentimenti, la propria paura, mettendo a nudo i lati più oscuri dell’anima, liberando la bestia che si annidava nei più riposti angoli della coscienza di ciascuno e cercando così una purificazione che però non si riusciva a raggiungere.

Queste matrici mostruose infatti, liberate, rigenerate e “degenerate”, cominciavano a vivere indipendenti e incontrollate, trovando la via per insinuarsi nuovamente (e questa volta in negativo) nella coscienza di ogni singolo individuo, che subiva questo nuovo processo di condizionamento, senza rendersi conto del reale pericolo a cui andava incontro (l’avvento del nazismo e l’ascesa al potere di Hitler.)

 

 

L’espressionismo cinematografico, ne fu una inevitabile e preziosa conseguenza “convergente” diventandone alla fine forse l’emblema più universalmente conosciuto, addirittura ancor più della pittura, del teatro e della musica e questo per la sua capacità aggregativa e di fascinazione quasi subliminale dovuto al carattere affabulatorio e “popolare” fortemente attrattivo che possedeva in quegli anni e che avrebbe mantenuto attivo ancor per moltissimi decenni..

Il cinema per altro, essendo un’arte composita, riusciva ad assommare in sé le soluzioni e le tecniche di molte discipline artistiche, teatro e pittura in primis, segmenti questi che probabilmente potevano così raggiungere proprio attraverso il nuovo strumento di comunicazione altamente divulgativo, il più alto risultato di sintesi “espressionista” (il perpetuarsi di un attimo, fissato per l’eternità) in un’atmosfera di sfacelo allucinata e macabra che rendeva il tutto ancor più suggestivo e “impressionante”.

 

 

Il primo film dichiaratamente espressionista, fu “Das Kabinett der Doktor Caligari” (Il gabinetto del Dottor Caligari) di Wiene (1919): //www.filmtv.it/film/2973/il-gabinetto-del-dottor-caligari/recensioni/503035/#rfr:film-2973  ma anche in questo caso non si può parlare di un completo, quanto improvviso, rivoluzionamento del sistema. E’ pur vero che nel “Caligari” di Wiene per la prima volta fu usata psicologicamente una scenografia prettamente espressionista, dipinta e deformata, con false prospettive e linee sghembe, ma è altrettanto certo che già qualche anno prima, in film come “Der Student von Prag” (Lo studente di Praga) di Rye e Wegener (1913) www.filmtv.it/film/6914/lo-studente-di-praga/recensioni/692724/#rfr:film-6914 e “Homunculus” di Rippert (1916), si trovano evidenti tracce di matrice espressionista.

Erano casi isolati che anticipavano quasi tutti i temi, eppure passarono quasi inosservati, almeno da questo lato, probabilmente perché mancava ancora una adeguata “preparazione psicologica” che probabilmente avvenne solo a seguito della tragedia del primo conflitto mondiale, tanto che già nel 1919, e quindi a pochissimi anni di distanza, l’intera nazione riuscì a riconoscersi completamente e inequivocabilmente, negli allucinati personaggi del film di Wiene (e da qui evidentemente nasce l’equivoco in cui cascano molti, nel considerare l’espressionismo cinematografico estrema conseguenza del rivoluzionamento morale e psicologico portato dalla guerra).

Alla base di tutto c’era, secondo Kracauer, la loro ribellione contro le crudeltà della guerra e contro l’autorità simboleggiata dal Dottor Caligari.

C’è da osservare, comunque, che questa ribellione, potenzialmente viva, non trovò mai la forza di sprigionarsi veramente nel popolo, che rimase indeciso e titubante, quasi terrorizzato dall’essersi riconosciuto in quei personaggi mostruosi.

Il fascino e l’importanza di questo film, derivano essenzialmente dalla sua esasperata stilizzazione, in un gioco che si avvicina a quello della pantomima, perfezionato dalle ricerche sceniche dell’avanguardia.

“I film devono diventare dei disegni viventi” proclamava allora Hermann Warm, e in fondo proprio in questa frase sta la chiave dell’estetica del “Caligari”.

Il film, essenzialmente opera degli scenografi Warm, Rohrig e Reimann (del gruppo “Der Sturm”), fu realizzato dal regista Robert Wiene su una sceneggiatura originale di Mayer e Janowitz (soggetto di Janowitz) arbitrariamente rimaneggiata senza il consenso degli autori, con un totale ribaltamento di significato, e una conseguente notevole diluizione della carica polemica..

In fondo però questo film, con le sue luci dipinte sulla tela, i suoi quadri animati e il suo ritmo sincopato, non era altro che teatro fotografato, ed è quindi logico che le soluzioni adottate in fase di realizzazione, non soddisfacessero completamente gli altri registi dell’epoca, che avrebbero preferito cercare nuove soluzioni visive e espressive, anziché dover assoggettare la loro arte e il loro mestiere a mere esigenze scenografiche e riducendo così la loro funzione a semplici coordinatori dei vari elementi per ottenere un risultato finale omogeneo e conseguente.

C’erano poi da tener presenti anche i fattori “recitazione” e “movimento cinematografico”: per armonizzare col fantastico delle tele dipinte, gli attori venivano vestiti con costumi eccentrici e stravaganti, imbrattati con truccature eccessive e immobilizzati in pose contorte e ricercate.

I risultati, sorprendentemente impressionanti sotto il profilo visivo, furono evidenti però soprattutto nelle fotografie tratte dai film.

Il movimento cinematografico infatti, minacciava di annullare la composizione voluta dagli autori, in quanto non poteva cristallizzarsi, come nella pittura, nell’esclusivo attimo della sua creazione.

Per questa ragione, gli attori erano costretti ad agire in funzione dei fondali dipinti, affrettando i loro movimenti quando si trovavano fuori dalle linee dominanti e staticizzandosi invece quando le loro pose armonizzavano con la scenografia.

 

Questa mancanza di unità di ritmo, rappresentava senz’altro un forte handicap, e conseguentemente nessuno rimase a dormire sugli allori, ma tutti si adoperarono per cercare nuove soluzioni che potessero svincolare definitivamente il cinema espressionista dallo stretto legame che lo univano al teatro e alla pittura, e che potessero renderlo completamente autonomo, attraverso una “scrittura” che doveva essere esclusivamente “cinematografica”.

Robert Wiene comunque, cercò ancora di insistere sulla formula che aveva decretato la fortuna del “Caligari”, nella vana speranza di poterne ripetere il successo, con “Genuine” (1920), avvalendosi nuovamente della collaborazione di Carl Mayer e di Reimann (questa volta coadiuvato da Klein), ma i risultati furono piuttosto deludenti: il film mancava innanzi tutto di plasticità, e la storia stessa fu ritenuta poco adattabile allo stile espressionista.

Questo insuccesso non costituì comunque una battuta d’arresto nell’evoluzione del linguaggio del cinema espressionista, ma fu semmai un ulteriore stimolo nella ricerca di nuove strade, innovative ma coerenti con il concetto di base, in quanto la corrente aveva ormai galvanizzato tutti i registi dell’epoca, influenzandone direttamente l’opera. Si arrivò così alla realizzazione di film come “Der mude Tod” (Destino o anche Le tre luci,1921) //www.filmtv.it/film/9065/le-tre-luci/recensioni/587696/#rfr:film-9065   e “Doktor Mabuse, der Spieler” (Il Dottor Mabuse, 1922) //www.filmtv.it/film/2313/il-dottor-mabuse/recensioni/536012/#rfr:film-2313 di Fritz Lang; “Nosferatu, eine Symphonie des Guauens” (Nosferatu il vampiro, 1922) //www.filmtv.it/film/4741/nosferatu-il-vampiro/recensioni/506129/#rfr:film-4741 di Murnau; “Das Wachsfiguren Kabinett” (Il gabinetto delle figure di cera, 1924) //www.filmtv.it/film/33189/il-gabinetto-delle-figure-di-cera/recensioni/421340/#rfr:film-33189 di Paul Leni; etc, etc., mentre Carl Mayer divenne il principale teorico e soggettista di una particolare corrente di pretta derivazione espressionista, detta del “Kammerspiel” (letteralmente: “Teatro da camera”) che contribuì alla realizzazione di alcuni dei più vitali prodotti cinematografici di quel periodo, fra cui: “Der letzte Mann” (L’ultima risata, 1924) di Murnau //www.filmtv.it/film/42863/l-ultima-risata/recensioni/598946/#rfr:film-42863 ; “Sylvester” di Lupo-Pick (1923) e alcune parti di “Die Strasse” (La strada, 1923) di Karl Grüne //www.filmtv.it/film/49737/die-strasse/recensioni/594662/#rfr:film-49737.

Anche in questi film, l’uomo appare schiacciato dal destino, e la conclusione è invariabilmente tragica (anche se molte volte, per esigenze commerciali, viene aggiunto alle pellicole il lieto fine in extremis), ma non abbiamo più mostri fantastici e terribili estremamente stilizzati e idealizzati, ma uomini scelti fra la gente comune, e quindi una maggiore e più diretta identificazione con le reali problematiche del popolo tedesco.

 

Mentre Lang continuava a portare avanti il suo personale discorso sfornando capolavori su capolavori (I Nibelunghi, 1927 //www.filmtv.it/film/28111/i-nibelunghi/recensioni/488019/#rfr:film-28111 e Metropolis, 1928 //www.filmtv.it/film/19839/metropolis/recensioni/570841/#rfr:film-19839 ,

Robert Wiene cercò successivamente di riconquistare il successo perduto, con la realizzazione di “Raskolnikov”, //www.filmtv.it/film/42719/raskolnikov/recensioni/481686/#rfr:film-42719 esperimento solo parzialmente riuscito, di superamento dell’espressionismo: “Anche qui il regista (il film è del 1923) fa uso di scenografie stilizzate, dipinte su fondali, ma riesce a dargli un’effettiva consistenza plastica. Inoltre la loro funzionalità si mostra assai più efficiente, poiché ambienti divelti e contorti non sono usati indiscriminatamente, ma ad hoc, cioè quando l’azione drammatica effettivamente lo richiede”: (R. Mazzoletti – scheda Cineclub Primi Piani – Firenze, 4 aprile 1955).

Con questo film, pur nella deformazione delle scene, si rasenta quasi il realismo.

Fu in questo clima di stimolante ricerca che nel 1922 il regista Robison concepì e realizzò il film “Schatten” (Ombre ammonitrici), //www.filmtv.it/film/40335/ombre-ammonitrici/recensioni/504962/#rfr:film-40335 che ancor oggi rappresenta una delle più alte vette raggiunte dal cinema espressionista e che darà un’ulteriore svolta alla corrente.

 

Al suo apparire, comunque, il film (che è attualmente considerato, oltre che uno dei maggiori capolavori di quella particolare corrente, anche uno dei punti fermi della storia generale del cinema e della sua evoluzione) non suscitò grande scalpore e aspre polemiche, come era accaduto tre anni prima col “Caligari”.

In un commento retrospettivo sul film, l’operatore F. A. Wagner dichiarava: “……Trovò rispondenza soltanto presso gli esteti del cinema; sul grosso pubblico non fece alcuna impressione…”. Effettivamente il pubblico lo ignorò quasi completamente, e solo una parte della critica ne seppe valutare l’esatta importanza.

P. Rotha, nella sua “Storia del cinema”, a proposito di questo film dice fra l’altro: “La sua concezione puramente psicologistica (…) la sua perfetta unità di tempo e di azione, sono cosa nuova pere il cinema (…) lo sviluppo del tema, la concatena-zione delle sequenze, la graduale rivelazione dei caratteri, dei pensieri erano realizzati senza un errore.”, mentre Kracauer, collocandolo fra i capolavori del cinema, rileva che questo dramma straordinario, nato da un gioco di ombre e di luci, è sorretto dallo stesso spirito dei poemi cinematografici di C. Mayer, nel rifiuto della didascalia esplicativa.

Nel complesso comunque, considerata l’importanza del film, è doveroso rilevare che esistono veramente pochi saggi e contributi critici che possano aiutarci per una valutazione più approfondita dell’opera e del suo grado di novità.

Una delle caratteristiche innovative più importanti del film, sta nell’utilizzo dell’illuminazione: Robison infatti, seppe sfruttare completamente per la prima volta, e con ottimi risultati, le possibilità “espressionistiche” offerte dalla luce.

Anche qui si partì comunque da un’esperienza precedentemente acquisita in teatro, dove da sempre, oltre che con gli scenari e la recitazione degli attori, si faceva dell’espressionismo con l’illuminazione, appositamente studiata per raggiungere determinati effetti: improvvisi coni di luce che squarciavano l'oscurità, urlanti nel loro netto contrasto, in un gioco fantasmagorico di luci e di ombre che non sfumavano, ma che rimbalzavano nette nei loro contorni definiti, incrociandosi e disperdendosi, erano sufficienti a creare un’atmosfera da incubo più che elaborate scenografie di cartapesta.

L’importanza di questo fattore era stata sentita anche ai tempi del “Caligari”, ma il modo di intendere l’illuminazione del set cinematografico, aveva impedito il completo realizzarsi di quei contrasti violenti, tanto che per raggiungere gli effetti desiderati, si era ricorsi in più di un’occasione al compromesso (se così si può chiamare) di dipingere direttamente le luci sui fondali.

Quindi Robison, per primo nel cinema, seppe sfruttare completamente la luce come elemento determinante per la riuscita del prodotto, allargando notevolmente le possibilità espressive di questa nuova arte.

Avendo acquisito questa importante arma, poté rinunciare ai fondali dipinti, diventando di conseguenza il vero creatore del film, non essendo più condizionato nel piegare il suo linguaggio alle esigenze della scenografia.

Anche gli attori, fra i quali campeggiava Kortner, poterono così dare il meglio della loro arte, raggiungendo punte veramente alte che possono costituire un saggio esemplare di cosa significhi “recitazione espressionista”.

Come ben seppe puntualizzare Arduino Agnelli,: “la figuratività di ‘Ombre ammonitrici’ viene ad assumere un suo preciso ruolo nello sviluppo dinamico della narrazione, diventa movimento, in una concatenazione perfetta con la lentezza della recitazione particolarmente appesantita.”

In effetti, ancora oggi il film risulta di una coerenza narrativa e di un ritmo omogeneo veramente rari per il cinema di quel periodo. Non ci sono movimenti di macchina, se si eccettuano due impercettibili carrellate, ma l’uso del materiale plastico all’interno dell’inquadratura, riesce a dare un movimento cinematografico unitario a tutto il film.

Le pareti del castello che fanno da sfondo alla vicenda, sono spesso completamente bianche, ornate solo da pochi indispensabili oggetti, e si ravvivano grazie ai sapienti giochi di ombre e di specchi che costituiscono il vero montaggio all’interno dell’inquadratura del film, e che riescono a ricostruire in maniera esemplare i classici incubi espressionisti.

Sono i personaggi e le loro ombre che, muovendosi, creano l’atmosfera: la recitazione è fissata nei gesti esteriori e nelle reazioni interiori, con uno scrupolo indagatore impressionante.

Rivelatrici degli intenti del regista, risultano le prime scene, dove si assiste alla presentazione dei vari personaggi con lo stesso schema del teatro dei burattini: l’immagine della persona fisica viene assorbita dalla sua ombra, riprodotta però sullo schermo in proporzioni gigantesche, semplice proiezione della coscienza deforme e degli istinti perversi che si annidano nell’animo di ognuno.

E infatti poi il film ci fa rivivere un dramma (quello della gelosia) non nei suoi normali sviluppi, ma in un’esperienza ricreata nell’ambito della coscienza dei singoli personaggi, che comunque potranno poi tener conto degli insegnamenti così acquisiti.

Interessanti, a questo proposito, risultano le sequenze dell’inizio del “sogno”, quando i protagonisti della storia annullano le loro ombre, che rientrano gradualmente nella loro matrice. Di conseguenza, pur nell’illusione creata dal giocoliere (“l’unico mago benefico e per giunta bonariamente umano di tutto l’espressionismo”, come dice Ladislao Mittner su “Espressionismo” – edizioni Mondadori), vivono anche fisicamente il dramma di sangue già presente e vivo nella loro anima, come estrema conseguenza del loro comportamento, e le sequenze della fine del “sogno” quando i personaggi “liberano” nuovamente le loro ombre per riprendere la loro vita, coscienti però dell’esperienza fatta.

I risultati di questa pacificazione interiore, portano poi, conseguentemente, a una visione più oggettiva del mondo, magistralmente simboleggiata dall’ultima inquadratura, quasi naturalista (e in completa antitesi con tutto il resto del film) proprio per necessità stilistica e narrativa.

In una sola scena il regista usa ancora i fondali dipinti: nella scena in cui il marito geloso immagina la moglie in giardino, attorniata dagli sguardi colmi di desiderio dei corteggiatori (che vengono introdotti nella sequenza in sovrimpressione).

Anche questa differenza di stile è legata indissolubilmente all’economia del film, per sottolineare che si tratta di una semplice immagine della fantasia, deformata dalla gelosia, e per questo meno “vera”.

Tuttavia, qui si avverte un certo squilibrio, e questa sequenza risulta, a mio avviso, fra le più deboli, nell’ambito della struttura del film (insieme alla scena delle corna del cervo che sovrastano l’ombra del marito tradito che, seppure efficace, risulta grossolana e gratuita).

Sotto il profilo dell’utilizzo delle luci comunque, specialmente la prima scena è estremamente interessante: la sorgente luminosa è collocata sotto l’inquadratura, e di conseguenza, certe parti dell’immagine subiscono un’accentuazione violenta e acquistano forti ombre, che servono a dare rilievo plastico, mentre ne velano altre; staccano alcune linee, altre ne scorciano, creando durezze e contrasti violenti.

Uguale trattamento viene usato dal regista per alcuni primi piani degli attori, specialmente di Kortner, ottenendo buoni risultati. Basta infatti che il suo volto scomposto irrompa per un attimo di sbieco in primo piano, con i tratti alterati e resi più evidenti dall’illuminazione, perché tutta la sequenza raggiunga un’intensità espressiva veramente sorprendente: la bocca, le mascelle, tutta la faccia si contrae in un grido muto, in un urlo senza voce fissato nell’estasi immobile di un gesto scandito per sempre.

La psicologia dei vari personaggi ci viene rivelata gradualmente dal regista, specialmente nella parte del “sogno”, attraverso le mille sfaccettature della loro personalità, con un’indagine condotta minuziosamente sui volti, sugli atteggiamenti esteriori e senza bisogno di ricorrere alle didascalie, che sono qui ridotte al minimo indispensabile.

Alla fine del “sogno”, i protagonisti del dramma si trovano ormai liberati dai propri incubi e dalle proprie tentazioni (si tratta in fondo di un processo di psicanalisi che trae le sue origini dalla diretta applicazione delle teorie freudiane), completamente rigenerati e pronti iniziare una nuova vita.

E’ proprio tenendo conto di Freud e della psicanalisi che, concordando con quanto scrive Kracauer, ritengo il finale del film completamente positivo, almeno per i due sposi.

La possibilità del tradimento è sventata nella donna, come è scomparsa nell’uomo ogni traccia di gelosia: solo ora sono pronti per trascorrere la loro vita uniti, e si affacciano fiduciosi alla finestra del castello, mentre sopraggiunge il nuovo giorno a fugare definitivamente le ombre della notte.

Il cavaliere avvilito e triste che si allontana, non è altro che l’ultima tentazione che se ne va, definitivamente sconfitta. Ora gli sguardi dei due sposi, finalmente rasserenati, possono spaziare sulla piazza sottostante, felici e innamorati, mentre il

giocoliere, che forse è esistito solo nel loro subconscio, può lasciarli definitivamente.

 

 

 

 

 

Ti è stato utile questo post? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati