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Federico Fellini e il vagabondaggio
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<<…Ecco dunque che prendo il largo, partendo dalle colonne d’Ercole, e diretto verso Occidente, col vento in poppa, m’inoltro nell’Oceano. Motivo e scopo del mio viaggio, la curiosità intellettuale, il desiderio di novità, la voglia di scoprire dove finisca l’Oceano, e quali siano le popolazioni che vivono da quelle parti…>> [Luciano, Storia vera, trad. Massimo Vilardo]

 

 

Narrando in prima persona, Luciano annuncia lo scopo della sua partenza: oltrepassare le colonne d’Ercole. Come oltrepassare la ?β?ις, il senso stesso del limite, probabilmente il senso stesso della cultura greca. Durante il suo viaggio attraverserà popolazioni infinite, come il popolo della Luna e del Sole, le tribù che vivono dentro una balena, i Beati (ovvero i più noti defunti) su un’isola, e ancora infinite genti al di là del mondo fino ad allora conosciuto. Il tutto è all’insegna dell’asistematicità e della parodia. Non è più il viaggio omerico di Odisseo ad interessare, il “viaggio” con uno scopo ben preciso, una destinazione, in quel caso l’isola di Itaca. Il viaggio che adesso interessa è quello privo di scopo, o meglio inconsapevole di quale sia il proprio scopo, perché lo si scoprirà soltanto effettuando praticamente quello stesso “tragitto”. Un vagabondare dunque senza meta ma con cognizione di causa, allo scopo della “curiosità”, per scoprire qualcos’altro: una riproposizione del secondo leggendario viaggio di Odisseo, quello effettuato per scoprire cosa ci fosse oltre le colonne d’Ercole. Un viaggio concepito in questo modo, senza una destinazione ma destinato alla “conoscenza”, è quello pensato da Luciano. Ma quale conoscenza? Siamo davvero sicuri che lo scopo sia la costruzione di un nuovo vero sapere?

 

<<Quando le opere di questi autori mi capitarono fra le mani, non me la sentii di criticarli più di tanto, per le loro bugie, visto poi che tale vizio ce l’hanno anche quanti dichiarano di menar vita da filosofi;di essi, però, mi parve incredibile che, scrivendo menzogne, pensassero di farla franca! Anch’io, pertanto, m’impegnai, per civetteria, a lasciare qualcosa di mio ai posteri…[…]...almeno su un punto dirò la verità, se dichiaro che sto mentendo! Credo di poter evitare così le accuse che alcuni mi potranno fare, se di mia iniziativa ammetto che non sto dicendo un’acca di verità. Scrivo, dunque, di cose che non vidi, non mi capitarono, non seppi da nessuno, e che per di più non esistono affatto, né a priori possono accadere. Chi si trovi a leggerle, non ci deve assolutamente credere!>> [id.]

 

Diversamente da come potranno fare autori successivi come Cervantes, Manzoni o addirittura Svevo, Luciano non indica, nell’introduzione, la presunta verità di ciò che descriverà, ma ne confessa l’artificiosità, la finzione, la pura e semplice elaborazione fantastica. E attraverso un curioso artifizio letterario annuncia questa sua operazione, in totale rottura con l’intera produzione culturale greca fino ad allora elaborata, come qualcosa assolutamente in linea con gli autori del passato, citando Giambùlo, Omero e <<…molti altri>> che <<…seguendo lo stesso criterio, scrissero di viaggi e peregrinazioni come se li avessero fatti di persona, descrivendo bestie enormi, uomini crudeli e strani modi di vivere…>>. Da profondo conoscitore della cultura greca, Luciano mira alla destrutturazione e alla frammentazione della stessa, ponendo questa stessa destrutturazione come scopo ultimo del viaggio raccontato come della sua opera in generale. Così facendo Luciano darà inizio al racconto del suo viaggio, che sarà, più che un vero e proprio viaggio, un vagare senza meta fra stimoli di varia natura: battaglie, strane creature, bizzarre presenze, fino alla fine mancata, in cui annuncia che continuerà a narrare nei libri successivi, che mai in realtà scrisse.

Da questo e da altre sue indicazioni, come l’accusa implicita nei confronti del mondo della filosofia, si può ben capire che il suo viaggio non ha niente di sistematico, niente di funzionale, niente di prefissato, ma è una successione irregolare e asistematica di prodotti della fantasia o di elucubrazioni mentali, tese al raggiungimento di una sola verità, che poi è anche quella annunciata nel prologo: non c’è nessuna verità. A trionfare, nella Storia vera, è la mancanza della conoscenza, l’impossibilità della conoscenza, l’antidogmatismo, e dunque la demolizione di tutti i presupposti che la leggenda, il mito e la cultura in generale avevano posto fino ai tempi di Luciano, declassandoli come “meri prodotti di fantasia”. Questo discorso è facilmente rintracciabile anche in una delle ultime situazioni che Luciano descrive verso la fine della sua opera, quando racconta di Erodoto come di un defunto punito per “non aver detto le cose come stavano”. D’altro canto, “di tutte le punizioni le peggiori in assoluto erano riservate a coloro che erano vissuti nella menzogna”, come a dire che Luciano in questo suo assoluto cinico scetticismo si mette in gioco del tutto, mettendo in serio dubbio la fondatezza stessa del suo racconto e della sua storia (<<vedendoli, ebbi buone speranze per l’avvenire, perché, in coscienza, io, so di non aver mai detto neanche una bugia!>> [id.].

Dunque è l’arte stessa, nella Storia vera, a perdere scopo, e a diventare una successione slegata di stimoli ed eventi, scollegati ma protesi comunque verso un non-scopo. Il vagabondare ellenistico di Luciano è quindi identificabile come un vagare tra realtà e finzione, e soprattutto negli abissi della finzione.

Nella demolizione totale di tutte le strutture, la Storia vera è riconducibile addirittura al nichilismo novecentesco e alla frammentarietà dell’Età dell’Ansia, così come l’ha chiamata W.H. Auden, ovvero a quel periodo poco lontano in cui tutto è stato messo in dubbio e in cui addirittura l’Io ha cominciato a risultare frammentato, deforme, irregolare. E sicuramente, a fianco dei notevoli esempi letterari cui si farà riferimento in seguito, l’arte cinematografica ha dato esempi straordinariamente eloquenti e significativi.

 

Federico Fellini, per tematiche, contenuti ed estetica, può essere considerato come il padre del vagabondare cinematografico. Fin da La dolce vita – ma anche prima – l’autore riminese ha sempre sradicato qualsiasi intenzione meramente narrativa dai suoi film, all’insegna della suggestione immediata, dello stimolo immanente, della trovata geniale. Ma i suoi film non sono semplici sfoghi sconclusionati, il suo cinema è un succedersi irregolare ma anche straordinariamente coerente e armonico di fatti, eventi, immagini e meraviglie, tanto che si può anche sostenere che sia stato in grado di tradurre in immagini la natura frammentaria e confusionaria che caratterizzava il Novecento, che caratterizzava l’epoca del boom economico e dei grandi dolci sogni, che caratterizza la vita dell’essere umano. Se con Dante, Omero e altri la vita stessa, con il suo dispiegarsi, poteva essere riconducibile all’andamento regolare di una narrazione, con uno scopo (certe volte anche etico), con gli autori della cultura mitteleuropea (Joyce, Proust) e anche i loro diretti discendenti (Svevo) la vita è diventata divisa, inesorabilmente stroncata, da analizzare nella sua problematica complessità. Molti di questi autori infatti elaborano un processo di identificazione con i propri protagonisti (importante ma non unico, il Leopold Bloom dell’Ulysses) tale da trasformare qualsiasi semplice successione cronologica (proprio la giornata dublinese di Joyce) in una sequela di riflessioni, associazioni mentali, cosicché la realtà diviene vittima di memoria latente (Proust) e di uno stream of consciousness apparentemente inconcludente e proveniente dall’inconscio umano.

Joyce’s novel Ulysses is a clear and remarkable example of an undefined journey, which is without any direction. It deals with a normal day in the life of the Jewish Leopold Bloom, who has to face a funeral, encounters with strange people and many other events that directly concern the Joyce’s style of writing. In fact this whole day becomes longer and longer because we follow thoughts and mental associations of Leopold, such as Molly Bloom’s (his wife) and Stephen Dedalus’s ones. This reveals the great attention by Joyce on the formal aspects of his work, and on the real role of the “word”, according to the idea that we follow conceptions and abstract considerations, and not objective and “normal” events. This also creates a great contradiction between the inside of the book and its aesthetic side: Joyce is more keen on presenting his characters than telling a story. In fact we have not a linear series of episodes, but an irregular one, because in the reality Bloom can just watch “epiphanies”, sudden images which are linked to his memory or to something else tied to his own consciousness. The story passes through Bloom himself, there aren’t other points of view (except from other characters inside novel: there isn’t the explicit author’s point of view), so that we are in the depths of Bloom’s mind, not in the actual reality. We are in a “mental reality”. And this causes isolation and distance between Bloom and the outside world, a common condition of loneliness and incommunicability in the entire mankind, such as Harry Levin points out: “streets intersect, shops advertise, homes have party walls and fellow-citizens depend upon the same water supply; but there is no co-operation between human beings. The individual stands motionless, like Odysseus becalmed in the doldrums”.

The references to myths and legends are not a mere literary joke, and they aren’t just stressed to express the distance between an old world in which there were common values and a new one, in which common values disappear, but is a sort of dream by Joyce to go away from the so-called “paralysis” of Ireland. In this way, differently from Luciano, mythology becomes an element to hold as model against the “tyranny of abstract ideas” [Arnold Kettle, “The Consistency of  James Joyce”]. Ulysses, in this way, is the epic tale of modernity, as big as Homer’s play but without the same order.

In Hava Aldouby’s “Federico Fellini: Painting in Film, Painting on Film”, the author stresses out a link between Fellini’s cinematography and Ulysses by Joyce. In a removed scene from Toby Dammit in the valise of the main character (after he had a walk in a very strange and apocalyptic airport, in which he feels sensations and has thoughts in a irregular, “stream-of-consciousness” way) we find a copy of Ulysses by Joyce. This reveals the link between this two authors, and their common views about post-structuralism and avant-garde experiences. And to show they are not very distant, we can consider the ending of Ulysses, the moment in which Molly Bloom say repeatedly “yes, yes, yes”, accepting in this way her chaotic life  and anticipating the same decision of Guido Anselmi in 8 ½: the chaos and the confusion are the most peculiar aspects of our lives, and they give us our own identity. It is not resignation, but a new push towards life.

 

Svevo, nel vagabondare psicanalitico del suo Zeno, rivela come l’essere umano risulti, nella sua costituzione psicofisica, prodotto dell’influsso dell’inconscio e delle dinamiche storico-economiche. Pregna di queste suggestioni è proprio La dolce vita di Federico Fellini, del 1960. In pieno boom economico il protagonista Marcello, interpretato da Marcello Mastroianni, attraversa una Roma storica/barocca/cattolica subendo da ogni dove suggestioni ed avvenimenti, come feste, conoscenze, amorazzi, conducendo una discesa agli Inferi in cui i gironi non sono assolutamente sistemati e regolari, ma deformi e improvvisi, evidenti solo in alcuni momenti scostanti. Così, tra finti miracoli, atterraggi di grandi star, il rapporto non proprio stabile con il padre, il rapporto tormentato con la fidanzata, feste affollate in ville eleganti o moderne e l’intesa intellettuale con il misterioso Steiner, il protagonista si ritrova catapultato in un universo in cui, come nella Storia vera lucianea, c’è una progressione asistematica di situazioni e soprattutto di stimoli culturali. Se Luciano cita tantissimi fra i suoi predecessori, Fellini mette in gioco gran parte della letteratura occidentale, oggettivandola nella ricchezza artistica e architettonica di una Roma elegante e decadente, in cui non è sicuramente l’intento folkloristico l’interesse principale.

Marino Biondi, professore fiorentino studioso del cinema di Fellini, individua nella Dolce vita un “concerto culturale, un collettivo di memorie e culture”, e infatti una delle operazioni più interessanti del suo La dolce vita: un sogno italiano è quella di associare il fermento culturale di quegli anni all’immenso bagaglio culturale felliniano e al “grande sogno” del popolo italiano di quell’epoca, di cui Fellini riprende l’estetica lussuriosa, massimalista, appunto decadente. L’operazione felliniana consta infatti di un’immersione etica ed estetica nel mondo da lui rappresentato, un mondo in cui la decadenza diviene immanenza nel susseguente presentarsi degli eccessi e dei sintomi di un Male generale e molto diffuso. Uno sforzo, quello di Fellini, della forma inerente il soggetto, che riprenderà con buoni esiti il Sorrentino de La grande bellezza (2013) e aveva, in letteratura, fatto Verga nelle sue opere realistiche e, ancora prima, il Petronio del Satyricon (e non è un caso se Fellini proprio il Satyricon lo adatta per un suo film nel 1969). Una forma inerente al soggetto che, evidentemente, sottende uno sguardo critico (dell’autore) che non coincide necessariamente con lo sguardo del regista (o del narratore) in atto: come pensare di criticare un mondo fatto di illusioni riprendendo, per esempio, con tanta grazia ed eleganza (tanto da ipnotizzare), il ballo di Anita Ekberg sulla musica di Adriano Celentano? In questa dolce confusione di stimoli, di memorie e di frammenti culturali Fellini si addentra, e vi rimane dentro anche a costo dello sconvolgimento.

Come per esempio si rimane sconvolti nell’episodio di Steiner, intellettuale misterioso e solitario che cerca sempre di circondarsi di uomini di cultura e di “amici straordinari”, insieme alla moglie affettuosa e ai figli ignari di tutta la finta dolcezza, chiusi anche loro nella loro innocenza. Dopo due lunghi dialoghi fra Steiner e Marcello è evidente che in Steiner trionfi un certo quieto pessimismo, un disturbo che Biondi identifica come un “male sottile che insidia la vita, la corrode dall’interno, la porta a distruzione”. Inspiegabilmente infatti Steiner si suicida eliminando anche i propri figli, come una “Medea moderna” (Biondi). La moglie, colta dai giornalisti mentre passeggia nel quartiere dell’EUR, viene avvertita. Marcello, come in un incubo sconvolgente (secondo l’opinione di Antonio Costa l’intero episodio potrebbe anche essere un sogno del protagonista), entra nella casa e vede i cadaveri di Steiner e dei suoi figli. Quest’episodio, soggetto a numerosissimi studi e riflessioni di molti fra i più importanti recensori dell’epoca e del contemporaneo, fu spesso criticato, accusato di sensazionalismo fine a se stesso, dotato di troppi difetti di sceneggiatura, fin troppo ambiguo. Ma la realtà è che nell’episodio felliniano sopravvive l’archetipico dubbio di cosa possa aver scoperto Steiner di talmente vero e terribile da suicidarsi. I vari studiosi hanno identificato numerosissimi riferimenti letterari cui Fellini può aver fatto riferimento, dall’esistenza stessa di Cesare Pavese, morto suicida negli anni ’50, la cui espressione “il sangue è sempre versato irrazionalmente” lascia intendere molto, fino alle riflessioni sulla condizione dell’intellettuale nel primo Novecento ad opera di Virginia Woolf, un intellettuale, insomma, che vive su una torre pendente incapace di comunicare e sul punto, imminente, del crollo. Il paragone che invece Biondi propone, a dimostrazione del bagaglio culturale e delle infinite suggestioni culturali che il cinema felliniano, con il suo vagabondare, presenta, riguarda l’operetta morale leopardiana La scommessa di Prometeo. In qualche modo anche lì c’è un vagare senza meta precisa di Prometeo e Momo in tre luoghi in cui possibilmente Prometeo possa dimostrare come la razza umana e la sua civiltà siano superiori a qualsiasi altra cosa. Alla luce dunque di questa scommessa, i due raggiungono due luoghi relativamente selvaggi, in cui si praticano cannibalismo o sacrifici umani secondo istinto brutale, e infine raggiungono un luogo civilizzato dell’Occidente, dove entrano in una casa dove è appena avvenuto un omicidio-suicidio straordinariamente simile a quello elaborato da Steiner. Biondi riporta una parte del dialogo fra Prometeo e un famiglio che gli spiega l’evento:

<<Prometeo Oh che è mai cotesto! Qualche grandissima sventura gli doveva essere accaduta Famiglio Nessuna, che io sappia. Prometeo Ma forse era povero, o disprezzato da tutti, o sfortunato in amore, o in corte? Famiglio Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo stimassero. Prometeo Dunque come è caduto in questa disperazione? Famiglio Per tedio di vita, secondo che ha lasciato scritto.>>

 

Ecco dunque un parallelo assolutamente plausibile e accettabile, che rivelerebbe la straordinaria vicinanza fra il cinema di Fellini, la letteratura e, in particolare, le operette morali di Giacomo Leopardi. Un film, La dolce vita, che va ben oltre la critica alla mondanità, e fa un resoconto disincantato di un’umanità soggetta a illusioni, finta eleganza e false speranze.

Neanche tanto lontano, tematicamente, apparirebbe il Dialogo di Tristano e di un amico, in cui Tristano critica all’amico proprio la presunzione degli intellettuali del suo tempo (di Leopardi) e l’idea illusoria che tutto vada verso il progresso (“la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimo nono”). L’ironia usata da Tristano non sarebbe neanche tanto distante da quella forma inerente il soggetto che adopera Fellini, un umorismo caustico che sprizza satira e distrugge le false certezze. L’illusione del progresso ottocentesco non è tanto lontana dall’illusione del boom economico degli anni ’60.

Il legame fra Fellini e Leopardi però non si esaurisce qui. Un altro vagabondaggio caratterizza un personaggio dell’opera leopardiana, quello dell’Islandese che, da un continente all’altro, cerca di sfuggire a una Natura che sembra procurare continua infelicità. Il risultato è che in un luogo imprecisato dell’Africa l’Islandese ha un dialogo con un’imponente figura di donna che rappresenta, appunto, la Natura. L’Islandese chiede perché mai la Natura tratti così male i suoi figli, e la Natura gli risponde con toni che somigliano non poco alla frase che il vescovo fa a Guido Anselmi nel film 8 ½ nella sauna, una sequenza straordinariamente onirica che rappresenta la pars destruens  più incisiva della pellicola. La domanda stessa che Guido fa al vescovo, sul significato profondo della vita, non è diversa da quella che l’Islandese pone alla Natura. E la Natura risponde:

 

<<Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvertisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei>>.

 

Non troppo diverse le parole del vescovo:

 

<<Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?>>.

 

Fellini, come Leopardi, fa porre ai suoi personaggi quesiti esistenziali la cui risposta, quasi sempre, sembra vertere su un pessimismo cosmico e agghiacciante. Gli esiti esistenziali del cinema di Fellini, e dello stesso 8 ½, però porteranno a ben altre situazioni.

Non è un caso, infine, che Andrea Muniz, nel suo Viaggio al termine dell’Italia, riporti a capo del capitolo sulla Dolce vita una citazione del Leopardi:

 

<<La noia è dipinta sul viso di tutti i mondani di Roma>>.

 

E proprio Andrea Muniz conferma come La dolce vita, nell’atroce senso di vuoto di tutto il suo apparire, risulti ancora attuale e ancora in grado di nutrirsi non tanto dell’effetto scandalistico che ebbe sui censori del 1960, quanto dello scandaloso nichilismo che lo attraversa, alimentato ulteriormente dalla recente Grande bellezza sorrentiniana. Proprio queste due parole usa Paolo Sorrentino in una dichiarazione riportata da Muniz, per riferirsi al vuoto dorato in cui Fellini immerge Marcello, il protagonista, come in una foresta di simboli svuotati di significato e dotati di un significante che aleggia nel suo fittizio splendore. Le tematiche della Dolce vita, e tutto ciò che riguarda la contestualizzazione storica, stanno a monte, sono quasi scontate: Fellini si immerge con Marcello. E come Marcello Fellini e noi spettatori siamo coinvolti in “un impotente girovagare senza meta dentro una città che si autocelebra nei suoi rituali annoiati” (Muniz). I vari pezzi di realtà si succedono, si contrappongono, lasciano intravedere una chiave di lettura che possa andare ad interpretare questo confuso flusso di stimoli, e in questo senso va ricordata “quella parte di realtà che non si trasforma in spettacolo cioè in consumo, perché, appunto, è autentica” (Moravia, in riferimento al mostro marino pescato alla fine del film), quel frammento in cui il clown Polidor interviene nel night club e interrompendo i vari numeri delle ballerine lascia intravedere un drammatico senso di malinconia (episodio riportato sempre da Muniz), come anche la sequenza in cui i fotografi chiedono ad Anita Ekberg di tornare indietro sulla scaletta per scendere di nuovo così da trovare “l’inquadratura giusta”. Nello smascheramento della società dello spettacolo, su cui Moravia insiste tanto (“tanto vale l’immagine del miracolo quanto quella dell’arrivo di Anita Ekberg”), in questo “dietro le quinte della Roma cinematografica e mondana” (Muniz), Fellini vagabonda fra bellezze e la ricostruzione di quelle bellezze, fra verità e finzione, come faceva Luciano però con intenti completamente diversi, non più per girovagare e minare alla base il senso della cultura, ma per destrutturare e frammentare il senso stesso dell’immagine e della sua fruizione (alla fine non c’è troppa differenza, Luciano da un lato e Fellini dall’altro mirano a svelare gli arcani reconditi dell’elaborazione artistica nell’ambito dei propri linguaggi artistici, Luciano dicendo di diffidare dalla finzione che sta pronunciando, Fellini dicendo implicitamente come si fa a pronunciare, e a mostrare, quella finzione).

Federico Fellini adattò, nel 1969, il Satyricon di Petronio Arbitro per un suo film, Fellini-Satyricon, in cui gli eventi e le situazioni si succedono senza una linea cronologica precisa, ma concedendo molto al caos e al disordine. In questo caso l’andamento generale è fedele all’opera dell’autore latino, e ne rispetta anche lo stile barocco, sebbene Fellini ne stravolga l’approccio realistico. Se l’opera di Petronio si configura come un vagabondaggio fra i vizi reali della Roma neroniana, con ampie osservazioni riguardanti la situazione sociale e il decadimento morale, il film di Fellini si agita in un non-tempo in cui tutto è immerso in un’atmosfera onirica. Fellini – Satyricon sfrutta l’epoca storica come pretesto per proseguire con un’analisi introspettiva di vizi universali, senza luogo e senza tempo, mai giudicati esplicitamente da Fellini ma sempre tanto stranianti da risultare fastidiosi, ridondanti e grossolani. Penetrando nei luoghi e nelle atmosfere nebbiose e “sporche” degli interni e nell’afa asfissiante degli esterni, Fellini passa da una situazione all’altra con inserti onirici e senza un ordine ben preciso, cambiando anche la cronologia degli eventi del romanzo di Petronio e sfruttandone la frammentarietà. Perdendo chiaramente l’espressività formale che poteva avere la parola scritta (Petronio gioca con il passato letterario rifacendosi a svariati generi e dimostrando l’inevitabile crollo di valori e di stilemi nobili a favore della volgarità a lui contemporanea, vacua e insignificante, piena di ridicole illusioni), il film di Fellini si rifà a un’estetica surreale che confonde sogno e realtà, ricordi e vita vissuta, verità e illusione artistica, barcamenandosi tra l’una e l’altra sponda senza regolarità di sorta. Così come Petronio passa da un genere all’altro, dalla prosa alla poesia, fondendoli in un testo che rivela la sua complessità proprio nella mancanza di un fine ben preciso (sempre che non ci fosse in uno dei frammenti andati perduti). Nella sua forte adesione alle realtà che racconta, Petronio sembra quasi anticipare la “forma inerente al soggetto” di stampo realistico-ottocentesco, operando una resa formale che da un lato persegue la volgarità e dall’altro ne rivela l’evidente assurdità, tanto da criticarla implicitamente. La stessa operazione fa Fellini, ma non tramite uno sguardo realista, quanto piuttosto tramite uno onirico. Il regista riminese cerca di penetrare nella mente del giovane Encolpio per mostrare il suo totale spaesamento (spesso questi interpreta un ruolo che non gli si addice, ma è meno erudito e vanitoso del suo referente letterario), e finisce per analizzare esteticamente la sua interiorità, tramite liberi accostamenti scenici non troppo distanti dall’idea dello stream of consciousness. Oltretutto finisce incompleto anche il film, con una frase di Encolpio interrotta in tronco, a rivelare l’ammirazione e la conoscenza della natura frammentaria del testo petroniano. Interessantissimi, in questo senso, i frammenti pittorici ripresi da Fellini alla fine del film: essi si trovano su un promontorio, a ricoprire le pareti semidistrutte di un edificio crollato. Così Fellini, come aveva fatto Petronio, immagina simbolicamente il destino dell’arte e della cultura nella Roma imperiale, così come nel suo presente.

 

Simile discorso sul destino dell’arte è elaborato da Paolo Sorrentino nel suo film La grande bellezza. Egli non solo riprende la Roma contemporanea riempiendola di situazioni e di eventi paradossali slegati fra di loro, riprendendo esplicitamente i virtuosismi visivi felliniani, ma considera implicitamente lo stesso cinema di Fellini (con il suo andamento onirico, girovago e straniante) come opera d’arte di cui considerare il destino (e la sorprendente attualità). Il risultato è un insieme di sguardi e di visioni degne della tradizione surrealista (la flanerie, sopra tutte le altre, siccome lo stesso Jep, protagonista de La grande bellezza, è definibile come un “flaneur”, che passa da una visione all’altra senza ordine di sorta), sebbene strettamente adeso al presente e ai suoi vizi evidenti e preoccupanti, tallonati senza alcun tipo di moralismo. Così come in 8 ½ però il vagabondaggio ha una sua conclusione, e un suo senso ultimo, una qualche dimensione costruttiva, quasi a risolvere l’incomunicabilità e la frammentarietà dell’Età dell’Ansia novecentesca. Non si parla di semplice accettazione, ma della consapevolezza che proprio la frammentarietà crea l’opera d’arte in tutto il suo splendore (più o meno pessimistico), sia in senso generale sia in riferimento all’individuo, che potrà individuare nel caos e nel disordine le fattezze stesse della sua identità, ponendo idealmente (come fa proprio il protagonista del film di Fellini) una colonna sonora alla “giostra della vita”, che instancabile prosegue all’infinito con la vitalità di uno spettacolo da circo.

 

<<E’ una festa la vita, viviamola insieme>> (Guido Anselmi, interpretato da Marcello Mastroianni, in 8 ½ di Federico Fellini).

 

Ho presentato questo testo da me scritto come tesina per gli esami di maturità, in data 1 luglio 2014.

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