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Shine a Light - Breve osservazione sulla musica "colta"
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Neve Che Vola

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Ci sono molti film che parlano di pianisti, dell'apprendimento di un concerto (Shine docet), in maniera più o meno romanzata. La loro efficacia è spesso indiscutibile, basti pensare che il Terzo di Rachmaninoff – da allora, credo, ma non da prima, soprannominato il Rach 3, mentre io avevo sempre sentito chiamarlo The Rock Third, ne concludo dunque che potrebbe essere stata una trovata per il grande pubblico – vide un impennarsi delle vendite non solo discografiche, ma anche della musica scritta. - Non me lo chiedevano quasi mai, mi disse un amico venditore, ora sembrano impazziti per questo pezzo, anche se molti, dopo averne ispezionate le grandi difficoltà, lo lasciano in negozio.

Non solo l'edizione della OST vendette, ma anche edizioni ben migliori, come quella di Horowitz con Ormandy,(qui di seguitò, con Zubin Metha)

 

 

e quella inimitabile dello stesso Rachmaninoff. A proposito di quest'ultima, lessi su una rivista che le interpretazioni dello stesso compositore erano alle volte “esagerate, con troppo furore”, qualcosa di simile. Se non lo sapeva lui, pianista di risorse inimitabili, lo sa invece la critica come vada suonato questo Concerto?

 

Tuttavia, in questi film, manca quasi sempre il carattere “famigliare” di trasmissione del “sapere” musicale (certo, in Shine c'è la figura del padre ossessionante etc., ma io mi riferisco alla sostituzione della figura autoritaria con una autorevole ed amata). Secondo il mio parere, il fattore più importante nella trasmissione della musica colta sta nel poter contare su una figura che amiamo.

A tal proprosito, vorrei qui riportare una parte del racconto del grandissimo pianista Josef Hofmann sulla maniera in cui il grande compositore e pianista Anton Rubinstein (da non confondere con Arthur Rubinstein, uno dei più famosi pianisti del secolo scorso) – considerato all'epoca il rivale di Liszt, tanto per dare un'idea della sua statura pianistica, e del quale Rachmaninoff disse di non aver mai più sentito suonare così bene e con tale potenza da stare sopra l'orchestra che l'accompagnava – gli insegnò l'arte pianistica.

Anton Rubinstein.

 

Mi ha spinto alla pubblicazione di tale post la constatazione che spesso il grande pubblico del tutto a digiuno di musica classica sembra considerare – basta pensare alle dichiarazioni di Allevi sui conservatori, in verità non del tutto prive di fondamento – l'apprendimento della musica classica come un qualcosa di freddo e lugubre, distaccato dall'umanità che invece attribuisce – lo sa Dio perchè, forse per condizionamenti mediatici – alla musica pop/rock.

 

Josef Hofmann

 

In secondo luogo, leggere queste righe realmente accadute, senza sensazionalismo, può dare una idea al profano di come avvengano delle lezioni diverse dall'immolazione della ragazzina alla causa musicale di genitori asfissianti, il che potrebbe far ben capire la diversità di reazione.

 

Chaliapin sings Rubinstein "Persian Love song", No.9 from "12 Persian Songs" op.34

 

In terzo luogo, questo resoconto di Hofmann mi fece diventare amico di Rubinstein (il suo aspetto lo considero come la vera incarnazione del musicista!) prima ancora di aver mai sentito un suo brano, perchè non posso fare a meno di amarlo attraverso le sue parole, e gli sono molto affezionato perchè rappresenta per me un esempio di trasmissione “diretta” di un certo tipo di visione della vita. C'è un “vissuto” molto sentito, che è l'unico vero fattore decisivo capace di apprendersi sull'anima: quantomeno, sulla mia, ha fatto così.

 

Soprattutto, ai miei occhi rappresenta il rapporto maestro-allievo ideale, nel quale si condivide ben più che un semplice scambio di informazioni, nel quale le informazioni stesse assumono la caratteristica decisiva grazie al rapporto d'amore. Un rapporto che è caratteristico soprattutto del mondo orientale. Questo rapporto, in cui l'allievo prima lo cerca, e poi mostra gratitudine imperitura per il Maestro che l'ha messo sulla via dell'indipendenza tramite una forte comunione animica, è per me il fondamento di qualsiasi "sapere" "significativo".

La gratitudine dell'allievo per il Maestro dovrà essere espressa tentando, allo stesso modo, di restituire la fortuna ricevuta tramite la diffusione dell'insegnamento che deve essere teso alla liberazione della personalità dell'allievo, non al suo soffocamento.

Molte volte ho fantasticato di essere al posto di Hofmann con un Maestro che non necessariamente avrebbe dovuto essere Rubinstein, ma un Maestro vero, che rispondesse alla mia chiamata.

 

La traduzione dall'inglese è mia, decisa e fatta non più di due ore fa, in un impulso un po' alla Rubinstein, col quale condivido solo tale caratteristica, purtroppo!, dunque spero di non aver commesso errori.

 

 

Al di fuori degli studenti regolari del Conservatorio Imperiale di Musica di San Pietroburgo, Rubinstein accettò un solo allievo. La fortuna ed il privilegio di essere quell'allievo, fu mio. Andai da Rubinstein quando avevo 16 anni e lo lasciai a 18. Da allora ho studiato da solo; da chi mai sarei potuto andare, dopo Rubinstein?

(...) Non suonò mai per me, né mi permise di suonare sue composizioni davanti a lui. Parlava soltanto, ed io, capendolo, traducevo in musica le sue intenzioni. Alle volte, quando suonavo la stessa frase due volte consecutivamente (come dire in sequenza), mi diceva: "Col bel tempo puoi suonarla così, ma quando piove suonala diversamente".

Rubinstein era spesso preda della fantasia e dell'umore, e spesso si entusiasmava riguardo ad una certa concezione solo per preferirle un'altra il giorno seguente.

(...) Con un cenno della mano mi mandava al pianoforte all'angolo, un Bechstein che per la maggior parte del tempo era terribilmente scordato; ma alla condizione del suo pianoforte era sempre serenamente indifferente. Rimaneva alla sua scrivania studiando le note del lavoro mentre lo suonavo. Mi costringeva sempre a portarmi addietro gli spartiti, insistendo che suonassi esattamente come era scritto! Seguiva ogni nota che suonavo con gli occhi sulla pagina stampata. Era certamente un pedante, un accanito sostenitore della lettera - incredibilmente, se si pensa alle libertà che si prendeva quando suonava gli stessi lavori! Una volta attirai modestamente la sua attenzione su questo paradosso apparente, e lui mi rispose: "Quando sarai vecchio come lo sono io adesso, potrai fare come me - se potrai".

Una volta suonai una rapsodia di Liszt piuttosto male. Dopo alcuni momenti disse: "Suonare questo pezzo in tal modo potrebbe andar bene per la zia o la mamma." Quindi, alzandosi e venendo verso di me, aggiunse: "Ora vediamo come suoniamo noi cose del genere". Quindi inziai tutto da capo, ma non appena ebbi suonato poche battute mi interruppe e disse

"Hai inziato? Pensavo di non aver sentito bene --"

"Sì, maestro, ho inziato", risposi.

"Oh", disse distrattamente, "non me ne ero accorto".

"Che volete dire?", chiesi.

"Voglio dire", rispose: "Prima che le tue dita tocchino la tastiera devi cominciare il pezzo mentalmente - cioè devi aver bene chiaro il tempo, il tocco e, soprattutto, l'attacco delle prime note, prima che cominci a suonare veramente. E, a proposito, qual'è il carattere di questo pezzo? È drammatico, tragico, lirico, romantico, umoristico, eroico, sublime, mistico - com'è? Bè, perchè non parli?"

Usualmente, in tali casi, dicevo qualcosa di stupido a causa del timore reverenziale che mi ispirava. Finalmente, dopo aver provato parecchi dei suoi suggerimenti, coglievo nel segno. Allora diceva "Bene, alla fine ce l'abbiamo fatta! Umoristico, vero? Molto bene! E anche rapsodico, irregolare - eh? Ne capisci il significato?"

Rispondevo: "Sì."

"Molto bene, allora", replicava; "Ora provalo".

E quindi ricominciavo da capo.

Stava al mio fianco, e quando voleva un accento speciale su una certa nota, le sue dita potenti mi premevano sopra la spalla sinistra con tanta forza da farmi accoltellare i tasti fino a che il piano non avrebbe gridato al mio posto. Quando tutto questo non otteneva l'effetto che voleva semplicemente premeva la sua intera mano sopra la mia, appiattendola e spalmandola come burro sui tasti, bianchi e neri, creando una cacofonia spaventosa. Poi diceva, quasi con rabbia "Ma più chiaro, più chiaro, più chiaro", come se il disastro l'avessi combinato io. (…) Velocemente come si era infiammato, tornava alla calma, e quando il pezzo finiva, usualmente sentivo il commento "Sei un giovane davvero in gamba!", e come mi dimenticavo in fretta di tutta quella pena provata! (...) Una volta gli chiesi una diteggiatura per un passaggio piuttosto difficile.

"Suonalo col naso", mi rispose, "ma fa' in modo che risuoni bene!"

 

Quando fu deciso che avrei fatto il mio debutto ad Amburgo sotto la sua direzione col suo Concerto in re minore [il Quarto, op.70, n.d.r.], pensai che fosse finalmente venuto il tempo di studiare con lui una sua propria composizione... così glielo proposi, ma Rubinstein liquidò la cosa! Me lo vedo ancora davanti, come fosse stato solo ieri, seduto nel ridotto della filarmonica di Berlino durante una pausa (era un Sabato) che mi diceva: "Suoneremo insieme ad Amburgo, lunedì". Il tempo era breve, ma conoscevo il concerto e speravo di studiarlo con lui nei due giorni rimanenti. Gli chiesi il permesso di farglielo ascoltare, ma declinò la mia richiesta: "Non sarà necessario; ci capiamo l'uno con l'altro"

Anche in questo momento critico mi abbandonò alle mie sole risorse [come usava fare, n.d.r.]. Dopo l'unica prova il grande maestro mi abbracciò davanti all'intera orchestra, ed io - bè, non ero al settimo, ma all'ottavo cielo! Tutto andava bene, mi dissi, perchè Rubinstein, Rubinstein era soddisfatto! il pubblico avrebbe dovuto esserlo per forza! Il concerto andò splendidamente.

 

Josef Hofmann plays Anton Rubinstein's Fourth Concerto, First Mov.

 

Dopo quel debutto memorabile ad Amburgo, il 14 Marzo 1894, andai direttamente da Rubinstein, non immaginando neppure che i miei occhi l'avrebbero visto per l'ultima volta. Avevo portato con me un suo grande ritratto fotografico e, sebbene fossi perfettamente consapevole della sua invincibile avversione per gli autografi, il mio desiderio di possedere una sua firma prevalse sulla mia riluttanza ed avanzai la richiesta. Alzò ambedue i pugni e tuonò, mezzo arrabbiato e mezzo divertito: "Et tu, Brute?"

Ma il mio desiderio venne esaudito (...). Quindi gli chiesi quando avrei suonato ancora per lui, con mia grande costernazione rispose "Mai!".

Disperato, gli chiesi "perchè no?"

Egli, generoso che era, mi disse: "Mio caro ragazzo, ti ho detto tutto quello che so sul buon modo di suonare il piano e fare musica" - poi, cambiando un pochino il tono, aggiunse "e se ancora non l'hai imparato, diamine, vai al diavolo!"

Vidi fin troppo bene che che mentre rideva dicendolo, in realtà lo intendeva seriamente, e me ne andai.

 

Non rividi Rubinstein mai più. Subito dopo questo episodio, ritornò nella sua villa a Peterhof, vicino a San Pietroburgo, dove morì il 19 Novembre 1894. Non potrò mai dimenticare l'effetto che la sua morte ebbe su di me. Il mondo all'improvviso mi apparve completamente vuoto, privo di ogni motivo di interesse. La forza di quel dolore mi fece capire che il mio cuore non venerava in lui solo l'artista, ma anche l'uomo; l'avevo amato come fosse stato mio padre. Seppi della sua morte dai giornali inglesi mentre ero in tournee da Londra a Cheltenham, dove avrei dovuto tenere un concerto il giono venti. Il caso volle che nel programma fosse inclusa la Sonata in sib minore [op.35, n.d.r.] di Chopin, e non appena attaccai le prime note della Marcia Funebre l'intero pubblico si alzò dal posto come per comando e rimase con le teste chine durante tutto il pezzo - in onore del grande uomo scomparso.

 

 

Una singolare coincidenza avvenne il giorno precedente - il giorno della morte di Rubinstein. Quel giorno suonai per la prima volta in pubblico dopo il mio ritiro di sette anni (fatta eccezione per il debutto di Amburgo). Fu a Londra. In quel concerto suonai, come novità, una Polacca in mib minore che Rubinstein aveva scritto di recente a Dresda, e che mi aveva dedicata. L'aveva inclusa nel suo set Souvenirs de Dresde. Questo pezzo ha il carattere di una marcia funebre in tutto, a parte la divisione del tempo. Non immaginavo neppure, mentre la stavo suonando quel giorno, che gli stavo cantando l'accompagnamento al riposo eterno, perchè fu solo poche ore dopo che, nel lontano est europeo, il mio grande maestro scomparve, all'improvviso, per un infarto.

Due anni più tardi suonai la stessa Polonaise per la seconda ed ultima volta. Fu nell'anniversario della sua morte, a San Pietroburgo, dove in onore della sua memoria diedi un recital, i quali proventi destinai al Fondo Rubinstein. Da allora ho suonato questo pezzo solo una volta, a casa e per me stesso, escludendolo per sempre dal mio repertorio pubblico. Perchè, nonostante fosse dedicato a me, il tempo e le circostanze della sua prima performance mi fecero sempre sentire come se appartenesse ancora al mio maestro o , perlomeno, come se fosse qualcosa di personale e privato fra noi due.

Anton Rubinstein

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