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Venezia 2013: Diario dal Festival - Giorno 8
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Diario personale di un inviato al Festival — Impressioni, pensieri, opinioni

 

Da sempre al Festival di Venezia esiste una sorta di regola non scritta sull’accoglienza dei tre film italiani in Concorso. Da che si ricordi, questa regola impone di accoglierne con riserbo e incertezza uno, di fischiarne un secondo e di considerarne capolavoro il terzo. Negli ultimi due anni, per non andare troppo indietro nel tempo, i fischi sono stati riservati alle sorelle Comencini: nel 2011 toccò a Quando la notte, mentre nel 2012 fu il turno di Un giorno speciale. Quest’anno, contrariamente ad ogni previsione, tale sorte è stata riservata – anche ingiustamente – a Gianni Amelio e al suo L’intrepido, un film non certo perfetto, per alcuni versi confusionario e per altri presuntuoso con la sua lettura della società moderna e delle differenze generazionali. Considerando che Via Castellana Bandiera era stato accolto con diffidenza e dubbi, è lecito attendersi che il capolavoro annunciato di questa edizione sia il documentario Sacro GRA, che la stampa avrà modo di vedere già domani. Sul fatto che il film di Rosi sia già alla vigilia della proiezioni pompatissimo da certe testate (Repubblica in testa) fa riflettere sul modo in cui la critica si sia ormai ridotta ad effimera operazione mediatica, tesa a favorire questo o quell’amico. E lo dico con un pizzico di rimpianto per tutte quelle opere che nei prossimi anni faranno la fine di Anni felici, che Daniele Lucchetti – proprio per paura dei fischi e della partigianeria di certa stampa – ha preferito presentare al Toronto Film Festival.

 

Oltre che del film di Amelio, scalpore ha generato oggi il photocall del documentario Ukraine is not a Brothel, dedicato al movimento delle Femen, e il perché lo capite voi stessi dalle immagini.

 

È toccato proprio a L’intrepido aprire la nostra, mia e di Alan Smithee, giornata di visioni al Lido. Il film di Amelio, difettoso in partenza per aver puntato su un Antonio Albanese un po’ troppo maschera avvilita e avvilente di una certa commedia incapace di mordere effettivamente, ha nettamente diviso anche il pubblico. Al di là delle reazioni dei giornalisti (che fossero maleducati ve lo avevo già raccontato qualche giorno fa), il pubblico a fine proiezione è nettamente diviso e un segno di questa spaccatura e diverso giudizio lo potete già trovare di seguito, grazie alla visione lontana che io ed Alan abbiamo dell’opera. Fornendovi entrambe le opinioni, speriamo di aiutarvi a scegliere per una visione diretta in sala, possibile già da oggi grazie alla distribuzione immediata del film.

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locandina

L'intrepido (2013): locandina

 

RECENSIONE SPAGGY

RECENSIONE ALAN SMITHEE

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Finito di vedere Amelio, ci apprestiamo ad essere raggiunti dall’amica Yume, che decide di accodarsi alla nostra visione in programma di A promise, opera che il regista Patrice Leconte ha tratto dal romanzo Viaggio nel passato di Stefan Zweig, rendendolo un po’ polpettone indigesto. Il film però merita una visione (sarà in sala sotto Natale per Officine Ubu) dal momento che per molto tempo rimarrà l’ultimo del regista, che un po’ a sorpresa ha dichiarato di volersi riposare.

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Teaser poster

Una promessa (2013): Teaser poster

RECENSIONE SPAGGY

3 DOMANDE A… PATRICE LECONTE

 Cosa l’ha spinta a fare un film sul romanzo di Steven Zweig?

Jérôme Tonnerre, l’amico e co-sceneggiatore con cui scrivo di solito, mi ha consigliato di leggere “Viaggio nel passato” in quanto era certo che la storia mi sarebbe piaciuta. Diversi giorni dopo la fine del libro, mi sono accorto che continuavo a pensare alla storia. Infatti, sono stato profondamente toccato dalle emozioni e dalle sensazioni che mi ha provocato. Ho chiamato Jérôme per dirgli che avevo seguito il suo consiglio e che pensavo sarebbe stata una buona idea adattare la storia insieme per farne un film.

Nonostante Zweig mi piaccia molto come scrittore, non era tra i miei scrittori prediletti e non ho mai pensato che avrei adattato una sua storia per lo schermo. Decidere di adattare un libro è come avere una porta semiaperta: vedi una possibilità. E come con tutto quello che è successo durante la mia carriera, il mio incontro con questo libro è stato sia fortuito che cruciale, ha scaturito in me dei sentimenti che mi hanno particolarmente toccato al momento.

 

 Quale aspetto dell’opera l’ha colpito maggiormente?

 Non è stato tanto il fatto di sapere se l’amore avrebbe resistito al passare del tempo, ma piuttosto se il desiderio sarebbe sopravvissuto al passare del tempo.

C'è qualcosa di folle nel dichiarare il proprio amore con la promessa di viverlo solo successivamente. Ho trovato molto commovente il fatto che questi personaggi provino un desiderio così forte senza poterlo esprimere.

 

 Il suo adattamento è fedele al romanzo?

Lo spirito di Zweig è lì e le questioni emotive sono le stesse del libro. Ma per adattare un'opera bisogna sentirla. È necessario proiettarsi in essa, è necessario inventare. Al di là delle idee narrative che abbiamo avuto, l'unico notevole adattamento che abbiamo fatto è stato il finale.

Zweig, essendo sia uno scrittore e sia un uomo profondamente pessimista (come il suo suicidio ha dimostrato), ha dato al romanzo un finale estremamente disilluso. Nel libro, quando Charlotte e Friedrich si incontrano di nuovo, sono come estranei. È inverno, il desiderio è svanito e il loro amore è congelato. Per il cinema, senza voler un lieto fine, abbiamo dovuto dare al loro ricongiungimento un po’ di cielo azzurro, un barlume di speranza per il futuro.

 

 

 

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Riprendiamo il discorso di ieri sui film che il Festival proietta in questi giorni e concentriamo questa volta la nostra attenzione nelle sezioni collaterali – Orizzonti, Settimana della Critica e Giornate degli Autori – per scoprire che la situazione è ancora più buia di quella delle due sezioni principali. Pochissime, purtroppo, le opere al momento destinate ad arrivare in sala. Non volendovi tediare con la lunga lista di titoli che difficilmente vedremo sotto casa, ecco i soli titoli con distributore certo:

ORIZZONTI

 

  • Il terzo tempo: Filmauro
  • Still Life: BiM Distribuzione
  • La prima neve: Parthénos Distribuzione

 

 

GIORNATE DEGLI AUTORI

 

  • Giovani ribelli: Notorious Pictures
  • L’arbitro: Lucky Red

 

 

SETTIMANA DELLA CRITICA

 

  • Zoran, il mio nipote scemo: Tucker Film
  • L’arte della felicità: Istituto Luce

 

 

 

Mentre per tutto il pomeriggio il mio percorso filmico si separa da quello di Alan Smithee (corso a vedere L’Armée du salut e Rigor Mortis), la sera ci si riunisce alle 19:00 per assistere all’opera testamentaria di Tsai Ming-liang e per rimanerne affascinati da Stray Dogs per via di una struttura che coniuga storia originale, arte figurativa e poesia.

 

 

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locandina internazionale

Stray Dogs (2013): locandina internazionale

RECENSIONE ALAN SMITHEE

 

3 DOMANDE A… TSAI MING-LIANG

Provare a riassumere il suo Stray Dogs in pochissime parole è un compito difficile per paura di non riuscire a raccontarne senso e significato. Vuole essere lei stesso a parlarcene?

Io racconto una non storia. Hsiao-Kang, il protagonista, è un buono a nulla che si guadagna da vivere reggendo cartelli pubblicitari. Nelle strade sempre stracolme di veicoli e pedoni fuma e orina. Le uniche persone che ha nella vita sono i suoi due figli. Mangiano insieme, si cambiano insieme e dormono insieme. Non hanno acqua corrente né elettricità e dormono abbracciati sullo stesso materasso insieme a un cavolo.

L’intera città è diventata una discarica per cani randagi e il fiume è lontano, molto lontano. Finché, in una notte tempestosa, Hsiao-Kang decide di portare i suoi figli a fare un viaggio in barca.

 

Da cosa nasce la volontà di raccontare la storia di un uomo-sandwich?

Dieci anni fa, vidi un uomo per le strade di Taipei che reggeva un cartellone pubblicitario di un tour operator. Rimasi sbalordito a quella visione e mentre lo osservavo a un semaforo iniziai a pormi delle domande. Quanto tempo rimarrà lì in piedi? Quanto guadagnerà? Dove va se ha bisogno della toilette? Corre da parenti e amici? Si vergogna se li incontra? A che cosa pensa? È come un palo del telefono o un muro o un albero. Nessuno lo nota e a lui non interessa. Di lì a poco quel tipo di attività si è sviluppata enormemente e gli uomini-sandwich sono spuntati ovunque per pubblicizzare le proprietà immobiliari. Un numero crescente di persone aveva perso il lavoro e iniziato questa nuova professione per le agenzie immobiliari: era come se il loro tempo fosse diventato senza valore.

A quel punto ebbi un’idea: volevo che Hsiao-Kang incarnasse un personaggio così. Tre anni fa ricevetti una sceneggiatura sulla disoccupazione nella mezza età e sulla violenza domestica. Mi fece pensare a quell’uomo che avevo visto per la strada.

 

In Stray Dogs grande rilevanza ha una poesia. Cosa esprime tale componimento? E il dipinto che diventa parte centrale del racconto di chi è?

Agli uomini-sandwich è concessa una pausa di dieci minuti ogni cinquanta, durante la quale possono bere e andare in bagno. Lavorano otto ore al giorno reggendo un cartellone pubblicitario e durante il turno di lavoro non è concesso loro di fare altro. Ne ho visti alcuni borbottare tra sé e sé, ma non sono mai riuscito a capire cosa dicessero. Per questo, nel mio film, ho voluto che Hsiao-Kang cantasse Man Jiang Hong (letteralmente, un fiume pieno  di rosso), un poema patriottico scritto da Yue Fei, famoso generale della dinastia Song che difese il paese contro l’invasione della tribù Jin.

Il componimento esprime la profonda lealtà di Yue fei nei confronti del suo paese e la sua frustrazione per l’impossibilità di portare a termine la sua missione. A Taiwan, chiunqe abbia più di 40 anni conosce questa poesia e di fatto avevo già sentito Hsiao-Kang declamarla una volta in passato.

Nel corso dei sopralluoghi per le location, scoprii con grande sorpresa un grande affresco di paesaggio su un muro di uno di quegli edifici abbandonati in cui volevo girare. Era un’immagine molto mossa. Forse quel dipinto era l’espressione facciale della città solitaria della storia. O forse era uno specchio che rifletteva al tempo stesso l’illusorietà e la realtà della condizione umana. Scoprii solo tempo dopo che si trattava di un’opera dell’artista Kao Jun Hohn, che negli ultimi anni ha cominciato a dipingere in numerosi edifici abbandonati senza avere però intenzione di esporre i suoi dipinti, desiderando che la gente li scoprisse per caso. Ancora più interessante è stato scoprire che il dipinto da me scovato si basava su una vecchia fotografia scattata nel 1871 da un inglese e mostrava il paesaggio delle regioni meridionali di Taiwam di oltre un secolo fa. Nella fotografia originale, c’erano due bambini nativi taiwanesi che Kao decise però di eliminare. Per coincidenza, anche nel mio film ci sono due bambini che ruotano intorno all’edificio abbandonato.


 

 

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Non paghi, alle 22 assistiamo alla proiezione stampa di Walesa. Man of Hope, l’ultima opera del maestro polacca Wajda che ripercorre la biografia del leader di Solidarnosc. Ttra i vari eventi che segnano le tappe dell’ascesa di Walesa, vi è l’intervista che lo stesso concesse alla scrittrice e giornalista italiana Oriana Fallaci, interpretata superbamente da Maria Rosaria Omaggio (trovate qui un maggiore approfondimento sulle riprese del film).

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Teaser poster

Walesa - Man of Hope (2013): Teaser poster

RECENSIONE SPAGGY

 

 

 

 

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Intanto, visto che in tanti mi chiedete cosa ne è stato della mia valigia, a quattro giorni dal rientro a Palermo posso dirvi che Alitalia non ha ancora provveduto a pagare in alcun modo i danni provocati, nonostante più di una segnalazione. Se ne prevedono delle belle.

 

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