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IL CASO STEVE McQUEEN - Seconda parte
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 Raccolgo in questa seconda parte tutte le segnalazioni e i contributi giunti in questi giorni ad integrazione del tema trattato.

Ragioni di spazio e peso del post hanno reso necessario riservare un'area dedicata che possa essere esplorata con l'agilità necessaria.

I commenti dovranno essere pertanto rivolti agli intestatari delle singole parti, che ho ordinato secondo un criterio basato sulla data di invio.

S'intende che il post rimane sempre aperto ad ulteriori contributi, e ringrazio gli utenti che hanno voluto arricchirlo con  preziose integrazioni che, mi auguro, stimolino un dibattito sempre più ampio.

Segnalo, come novità, l'ultimo, eccellente contributo di maurri63,  un autentico post nel post, che fa il punto sul cinema di Mc Queen e  Aronofsky, matrici comuni e differenze, con ampia ricognizione, integrata da video, anche su tante altre voci del cinema mondiale.

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 I nomi degli utenti-collaboratori:

Lorebalda

AtTheActionPark

mck

Snaporaz68

maurri63

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                                        INTEGRAZIONI

1. Opinioni in database

2. Segnalazioni

Lorebalda segnala links sull'attività di McQueen video maker:

http://issuu.com/anarachel/docs/giardini_book

http://www.academia.edu/1185969/Steve_McQueen_Giardini

http://issuu.com/britishcouncil-collection/docs/steve-mcqueen---giardini-notebook-_20100526_194948

http://issuu.com/taxidrivers_magazine/docs/td_dossiermcqueen2

Mck segnala links su Hunger Shame:

http://overland.org.au/blogs/against-reality/2012/08/northern-ireland-and-the-cold-eye-of-steve-mcqueens-hunger/

http://www.schermaglie.it/mondovisioni/1855/hunger-shame-steve-mcqueen

http://www.doppiozero.com/materiali/odeon/steve-mcqueen-hunger

http://clubdeicuorisolitari.blogspot.it/2012/01/museo-del-fotogramma-6.html

 

3. Punti di vista

Sezione  aperta a tutti gli interventi sui due film di McQueen che abbiano la consistenza di flash di analisi, messa a punto, confronti.

Sono presenti, inoltre, un commento a Shame del critico Bruno Fornara segnalato da lorebalda e parte di un dibattito con lui sul film, entrambi reperibili sulle pagine di facebook di cui si segnalano i links.

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Lorebalda (prima integrazione)

Hunger

In Hunger (Caméra d’Or al Festival di Cannes, assegnata a McQueen da Bruno Dumont presidente di giuria, che sentenzia: «Saluto la nascita di un nuovo grande regista») si sente tantissimo l’influenza del cinema d’autore più radicale degli ultimi anni: per l’insistenza con cui l’autore britannico descrive la violenza; per la ricerca programmatica del pugno allo stomaco; per i silenzi quasi assordanti che scandiscono l’ intera partitura del film.

Un’influenza che chiaramente subito è rielaborata e filtrata dal gusto performativo, artisteggiante (leggi “museificante”), da visual artist, di McQueen: che infatti subito trasforma i muri imbrattati delle prigioni del blocco H di Maze in splendidi murales, e segue il deperimento di Bobby/Fassbender con un’attenzione, e un compiacimento, sospetti – quasi che lo sciopero della fame del protagonista si trattasse, per l’artista Turner Prize, di una straordinaria performance di body art

McQueen può dirsi soddisfatto: il risultato non lascia indifferenti, e la prova attoriale dell’allora sconosciuto Michael Fassbender, che dimagrisce orribilmente per la parte, è folgorante.

Hunger impone subito il suo autore come regista di talento, dalla forte personalità.

Ma il consenso che il film ottiene non è unanime.

Accanto a chi esalta l’opera per le sue alte qualità formali e morali, c’è invece chi proprio queste mette in dubbio.

Per alcuni, infatti Hunger è un film traboccante di pietas, rispettoso della Storia e del personaggio di Bobby Sands; per altri, il lavoro di McQueen sarebbe compiaciuto, tacciabile di voyeurismo e (addirittura) disonestà intellettuale.

Ancora una volta, la questione che più preoccupa lo spettatore è la morale dell’opera, quando invece sarebbe più significativo, nel caso di McQueen, concentrarsi sulla forma.

Che, e in pochi l’hanno notato, ha più a che fare con un concetto di cinema, che con il cinema stesso.

 

Shame

Dovremo aspettare Shame, secondo lungometraggio di McQueen, perché la questione si ripresenti.

Ambientato a New York, recitato nuovamente da uno strepitoso  Fassbender, il film ha un impianto più tradizionale, tanto che alcuni critici si sono chiesti perplessi che cosa fosse successo allo sguardo pittorico, violento, del primo film: e anche chi aveva apprezzato Hunger, esprime un giudizio meno entusiastico. Il film è addirittura tacciato di moralismo, omofobia, tronfio estetismo.

Accuse risibili, soprattutto in un film come Shame, dove lo sguardo estetizzante, e la fascinazione repulsione per gli oggetti, il décor, gli ambienti puliti e perfetti, sono il vero grande tema del film, fin dalle primissime immagini.

Brandon/Fassbenderperformer senz’opera e senza spettatori, vive una prigione di ritualità e ossessiva ripetizione – ma proprio per questorassicurante.

Eppure questa sicurezza costruita minuziosamente è fragilissima: bastano infatti l’arrivo della sorella, performer di esplosiva emotività che cerca il pubblico (al contrario del riservatissimo fratello), e la sua straordinaria prova artistica (New York New York versione languidamente blues), per creare un complesso nel fratello, una vera e propria frattura – rompere le certezze, e ricordare un passato oscuro, fatto probabilmente di sofferenze e traumi inenarrabili…

Ma già quest’apertura all’interpretazione, questa mancanza di spiegazioni, può suonare artefatta, così come artificiali erano d’altronde le luci pittoriche, la violenza esibita, e le rivendicate durate di Hunger.

Come se McQueen avesse preso e trasposto sullo schermo una serie di codici facilmente identificabili dal cinéphile e perciò immediatamente  rivendibili.

Non si dimentichi infatti che in Shame il sesso mostrato non è mai hard, e che la questione sessuale non è mai affrontata con il radicale rigore di produzioni europee analoghe (se dobbiamo fare un paragone, siamo più dalle parti di Bertolucci che della Breillat).

Eppure, non è questo il punto.

Shame segna un avvicinamento di McQueen alla narrazione tradizionale, ma conferma anche un’irriducibile distanza del regista dal cinema cinema, dalla sua sostanza più intima.

Questo Shame, ancor più del precedente Hunger, è come attraversato da uno strano virus: così denso di geniali invenzioni cinematografiche (un vero tour de force: pianisequenza, montaggio alternato, performance live), ma anche così poco cinematografico, in fondo.

Perché McQueen in Shame (ancor più che in Hunger) esibisce i muscoli del cinema, del grande cinema, ma anche la vanità di tutta questa forza, così concettualmente e freddamente esposta.

“… viene fuori un fatto significativo dal tuo lavoro, e che voglio sottolineare nuovamente: come appunto il cinema fosse già nel "bagaglio" artistico diMcQueen, prima di Hunger e Shame.

Un cinema "minimalista", espressivo, che mischia un realismo furioso con un'astrattezza concettuale raffinata e profonda. In una parola, sperimentale. E proprio qui mi fermo.

Se quanto commentano i critici d'arte da te citati corrisponde alla verità (e probabilmente è così), allora già Shame e Hunger sembrano allontanarsi dal passato dell'artista britannico: perché McQueenora fa i conti con la narrazione e, soprattutto in Shame, non la stravolge in modo netto, chiaro.

La diversità rimane, ma è nascosta, camuffata, appartiene più alla sensibilità, a un tono, un colore generale, dei suoi film... E' quel che sta dietro la patina, la bella forma, secondo me - l'aspetto concettuale.” 

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AtTheActionPark

Non penso che il cinema di McQueen sia così urticante o anticonformista.

Penso, invece, che il suo cinema sia una sorta di saccheggio stilistico (in particolare, Hunger) finalizzato a (non) supportare storie, inadeguate alle (in)capacità del regista stesso.

Il risultato è palese in Hunger, in cui il regista scimmiotta (svuota) soluzioni stilistiche già sperimentate, per puntare alto, altissimo: ad una cristologia contemporanea, chic kitsch, che in realtà non ha nulla da dirci.

Magari in una galleria d’arte, a girare “a vuoto” potrebbe ben starci: sarebbe così perfettamente evitabile, nella sua inutilità. Purtroppo per me [non per “noi”, ovviamente] invece si tratta di cinema. Quello che mi viene da concludere, dunque, è che, se quello di mcQueen è “cinema”, allora è il nulla 24 fotogrammi al secondo.

 Per me, già quello che dice Crespi è senza senso, perché Hunger non è affatto un film politico, ma post-ideologico, come potrebbe esserlo - scusa il paragone pessimo - Berlusconi in politica. McQueen prende un tema facilmente politicizzabile, e lo svuota, creando un film-patina refrattario a qualunque approfondimento che non sia di tipo stilistico: totalmente bidimensionale.

Ma questo scontrarsi con il tema (politico) è inevitabile - è il tema del film - e da qui nasce un cortocircuito qualitativo - per me, tutto in negativo.

Sì, tu hai usato molto bene il termine "replicante", che mi piace, anche se per me è "saccheggiante", forse poi sono solo due facce della stessa medaglia.

La cristologia non la tiro fuori io "dal cilindro", ma, piuttosto, McQueen, tratteggiando il suo personaggio come il più celebre dei martiri, e citando coi tableau vivant dipinti e affreschi celebri della vita di Cristo (mi viene in mente il Cristo morto di Mantegna).

Poi ovvio che non c'è dietro alcun approfondimento in senso religioso, come ho già scritto, questo film è il nulla.

Sarebbe meglio, per me, che i suoi (inutili) film fossero trasmessi in una galleria, così potrei "saltare" con più facilità, così come si sorpassa fisicamente un quadro o un'installazione che non ci interessa, ma (ahimè) è un film e questo """obbliga""" una certa continuità della/nella visione, distribuendosi, per forza di cose, nel tempo.

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maurri63 (prima integrazione)

 Per parlare tutti allo stesso modo, dovremmo chiarirci sul concetto di "video-arte": la parola "Arte" come noto in latino deriva da "Are" e in greco da "tecno-tecnica".

Dunque, le arti sono, in senso stretto, teatro/fotografia/cinema-musica-pittura/scultura- danza - poesia- letteratura-architettura.

Orbene, la videoarte deve necessariamente rientrare in queste categorie: allora, se non riteniamo lecito l'operato del regista che incide sulla sceneggiatura-fotografia-montaggio-musica-sonoro, dobbiamo (purtroppo) evitarne la catalogazione.

Tra i registi, infatti, lo sperimentatore per eccellenza è Godard: ma i suoi lavori extra cinema (assimilabili all'ipotetico concetto di videoarte) non sono catalogati, proprio perché sprovvisti della sostanza "cinema".

Appare dunque inverosimile catalogare in tal modo Mc Queen, che, invece, lavora comunque (o suo malgrado) sulla sceneggiatura.

Tuttavia, At ha ragione nel sostenerne l'indifendibilità se egli cerca una terza via: sarebbe folle (o immoralmente presuntuoso, no? ) sostenere di aver "inventato" un nuovo modo di fare cinema. Forse, per giudicarlo, sarebbe necessario aspettare, magari anche a distanza di qualche mese.

In fondo, per criticare un'opera basta chiedersi "se sta nella vita".

Se essa "è necessaria", per usare le parole di Truffaut, la sua autenticità si mostrerà a distanza, e lo spettatore ricorderà agevolmente le inquadrature.

Altrimenti, sarà una storia come un'altra, usa e getta.

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Snaporaz68

Il ponte che lega il percorso della video arte di McQueen con i due lungometraggi Hunger Shame è proprio il corpo come parafulmine del tormento.

Che sia una risposta alla violenza del Sistema (Hunger) o che nasca da una ossessione interna che poggia le sue radici in un passato tenuto celato (Shame), il corpo di Fassbender diventa lo specchio di diversi conflitti (interno-esterni) in cui la somatizzazione è un meccanismo di difesa portato all'estremo, iperbolizzato fino alla morte (Hunger) o alla psicosi (la sindrome onanistica - vojeuristica di Shame).

Il corpo viene esibito non per eccesso di estetica ma per produrre il significato di questa lotta perenne tra diverse forze in campo.

In Hunger vi è una venatura cristologica che avvicina l'operazione ai martiri corporali di Aronofsky anche se in questo caso la componente sado masochistica sembra prendere il sopravvento, in una sorta di auto flagellazione consapevole (The wrestler) o subconscia (Il cigno Nero).

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Lorebalda (seconda integrazione)

Snaporaz, il paragone che avanzi con Aronofsky mi sorprende piacevolmente.

Ammetto che, personalmente, ho sempre visto Shame Black Swan come due film molto vicini fra loro, pure nelle diversità: per il tema performativo (in fondo il sesso per Brandon è una dolorosa ma necessaria "prova artistica"), per l'ossessione del corpo, e per lo sguardo più o meno estetizzante di entrambi gli autori.

Anche se, e qui si inserisce la più grande delle differenze fra i due, - e faccio un confronto perché secondo me aiuta molto nel comprendere l'opera dell'artista britannico - in McQueen l'aspetto estetico rimane in fondo problematico, come hai pure notato...

Lo sguardo attrae e respinge in egual misura, e i suoi film rimangono una bellissima prigione, dalla quale è impossibile uscire - Shame in fondo potrebbe finire e ricominciare all'infinito (ecco un altro aspetto poco cinematografico dei suoi film; oltre, secondo me, all'assenza di un fuoricampo "creativo", ovvero non creato concettualmente, richiamando torbidi passati).

Mentre in Aronofsky, queste contraddizioni, in Black Swan soprattutto, sono oltrepassate, e il film "finisce" - e che fine! McQueen, morale o moralista?, ci nega la catarsi, Aronofsky, amorale, estetizzante davvero, la realizza sullo schermo... Ancora: Brandon, che si pone un problema di morale, e si chiede se sia giusto o no cedere alla sua dipendenza, perde, è costretto a una dimensione terribilmente orizzontale, a un'eterna coazione a ripetere; Nina, che si lascia andare completamente alla sua psicosi, alla fine se ne va col sorriso fra le labbra...

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Terzo rapporto da Venezia 2011

il punto di vista di Bruno Fornara

https://www.facebook.com/notes/bruno-fornara/terzo-rapporto-da-venezia-2011/280736535286321

 

Shame di Steve McQueen

Ancora insieme il regista Steve McQueen e l’attore Michael Fassbender (già Jung, qui a Venezia) dopo l’acclamato (un po’troppo) Hunger.

Brandon ha poco più di trent’anni e vive a New York. La sorella Sissy gli invade spesso l’appartamento e lo perseguita al telefono. Lui ha una vita sessuale scombinata e ossessiva. Solo ed esclusivamente sessuale: dove il sesso non deve avere nessun risvolto amorevole, sentimentale, umano. Sesso e basta. Da solo, con una donna, con due donne. A letto, per strada, in bagno, direttamente contro i finestroni che danno sulle strade giù in basso. Fare sesso, mostrare sesso, farsi guardare mentre si fa sesso: l’importante è sempre e comunque non lasciarsi catturare dall’altra, dalla donna con cui si sta.

Quando Brandon finisce a letto, dopo un lungo e gentile appostamento, con una giovane donna nera che lo accarezza, lo desidera ed è quindi altamente pericolosa, lui, dopo qualche sbandamento iniziale – nel senso che sembra corrispondere alle affettuosità – scappa via di corsa e fa la figura dell’impotente pur di non fare la parte dell’uomo che desidera una donna e potrebbe lasciarsi andare ad amarla.

Questo il nocciolo della questione. Bene. Ognuno si sceglie il modo di usare il proprio corpo e la propria sessualità come gli pare e piace (anche magari, come succede qui, facendo del male a se stesso).

Il fatto è che poi il film vuole redimere questo povero Brandon e portarlo sulla retta via fino alla scena finale con lui, sotto l’acqua, su uno spiazzo vuoto, piangente, che invoca Dio e cade per terra. Deve aver capito che non poteva più tirare avanti in maniera sessualmente autistica.

Ambienti molto chic, bella mobilia, lavoro ben pagato, un capo sposato ma anche sessualmente attivo in ambiti extraconiugali (“Si sarebbe offesa se non ci avessi provato”), la sorella Sissy che ha già provato una decina di volte a tagliarsi le vene (ha cicatrici dal polso all’incavo del gomito) ma Brandon dev’essersene sempre sbattuto… Insomma: il ritratto di un ossesso per via di un’infanzia infelice (così sembra da un veloce accenno di Sissy) che finisce sul bordo dell’abisso.

Brava Carey Mulligan che canta una versione molto particolare di  New York New York. Voto 2.

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Un dibattito su Hunger fra Bruno Fornara ed L.B., utente di facebook

https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=10150874999330625&id=85215515624&comment_id=23860774&off

 

B.F. Visioni. “Hunger” di Steve McQueen**. Primo film del regista-artista di “Shame”. Irlanda del Nord, 1981. Bobby Sands - Michael Fassbender, leader dell'IRA, in prigione. Sciopero della fame, fino alla fine. La vita, il corpo, la morte. Film artisteggiante, provocatorio (e parecchio dandistico). Muscoli, sofferenza, carne (e voyeurismo?).

 

L.B. Il 2° film di McQueen potrà piacere o meno, ma trovo abbastanza curioso che parte della critica più tradizionalista (Cineforum) non abbia proprio afferrato il senso di Shame, vedendo soprattutto cose che nel film non ci sono (penso al pezzo di Bocchi su Filmidee).

Omofobia? Demonizzazione del sesso? Affresco generazionale? Riflessione sul maschio moderno? Mah. Non so se alla loro epoca film di Ferrara comeThe Addiction o Blackout o Bad Lieutenant ricevevano le stesse accuse, ma le chiedo, Fornara: davvero Shame fa della morale sul sesso solo perché mostra un uomo che ne è nevroticamente ossessionato?

So che non ha amato quest'opera di McQueen (e il regista in generale: de gustibus...), e di certo non voglio farle cambiare idea: ma mi chiedo se lei pensa realmente che la vergogna del titolo sia per il sesso in sé...

Davvero non ha visto per 100 minuti un uomo disperato perché ossessivamente costretto a ripetersi, immobile (è questo il punto) pure nella furia degli amplessi?

Certo, per Brandon il sesso è diventato vergogna, ma da qui a dire che il regista condivida il punto di vista del personaggio c'è un abisso... è come dire che un libro narrato in prima persona da un personaggio razzista e omofobo è scritto da un autore altrettanto razzista e omofobo... o no?

E poi lei dice che alla fine del film Brandon dovrebbe redimersi, in quella scena "orribile" in cui lasciatosi a terra piange...

Non pensa che questo sia invece un gesto di impotenza, e di infinita debolezza?

Dov'è il moralismo? Perché un uomo piange se stesso? E non dimentica forse il vero finale del film, terribile nella sua fatalità? Perché scendere o non scendere dal treno, che differenza fa ormai per Brandon? Le chiedo di pensarci su: un conto è dire "non mi piace", un altro è stravolgere il senso di un'opera, applicandole una superficialità che non le appartiene...

 

B.F.: Dovrei scrivere troppe cose. Metto qui quella che è per me la più importante. E non riguarda la debolezza, il sesso, il personaggio, la sua nevrosi... (libero ognuno, su questo terreno di pensarla come vuole). Riguarda il modo di filmare qualsiasi cosa, uomini, strade, interni, da parte di McQueen.

È la sua costante inclinazione a filmare secondo modelli estetizzanti, da designer, da arredatore chic, da osservatore che trasforma tutto in cosa da guardare, da trasformare in oggetto estetico. Questo mi sembra il guaio peggiore di McQueen (e non è il solo, tra i registi artisti, videoartisti, installatori, a soffrire - per me - di questo grave malanno).

 

L.B. Allora Fornara le chiedo gentilmente se un tale fattore stilistico può determinare in modo così netto il giudizio critico.

Ovvero, lei trova lo sguardo di McQueen puramente "estetico", e pertanto lo giudica fastidioso, morboso e addirittura voyeuristico. Magari per altri questo è uno sguardo artistico, appunto formale, ma non fine a se stesso, capace piuttosto di dare senso al film, e di arricchirlo - ovvero il giudizio a tal riguardo si riduce alla fine a una questione di sensibilità. Tanto che magari questo aspetto "morboso" in McQueen può essere visto come un'ambiguità ulteriore, un'attrazione non banale verso il corpo dell'attore.

Ma lei giustamente può dirmi il contrario, anche se non penso di sbagliare se dico di notare una sua personalissima insofferenza verso questo tipo di cinema appunto formale.

Le chiedo, però, se e perché tale tipo di cinema, tale modo stilistico, meriterebbe un rifiuto così netto, e sarebbe un tal guaio.

Certo, può piacere o non piacere, ma non è una questione di gusto?

Ovvero: quanto questa questione di gusto (non certo da poco) può però determinare un giudizio critico così netto che sì dovrà tener conto delle preferenze personali ma a rigore dovrebbe pure essere capace di distaccarsene? La ringrazio in anticipo per la risposta

 

B.F. Posso aggiungere che lo sguardo di McQueen non mi sembra soltanto artistico o formale: uno sguardo così ce l'hanno tutti i grandi registi, non si può fare bel cinema senza rimettere in forma il mondo, le storie, le cose, i corpi... La questione per me centrale è che lo sguardo di McQueen ha una maniera di esprimere la forma e lo stile che scivola subito in un atteggiamento che - secondo il mio personalissimo parere - è compiaciuto e che - peggio ancora - nel caso del film su Bobby Sands, estetizza la tortura e la sofferenza, e nel caso di  Shame estetizza una nevrosi autodistruttiva. Questo mi sembra appesantisca il film e gli tolga ogni verità (o almeno: io non riesco a credergli).

 

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maurri63 (seconda integrazione)

Steve Mc Queen Darren Aronofsky: un confronto

Steve Mc Queen è conquista recente per il cinema: del suo essere un cineasta diverso e poco legato alla struttura tradizionale del cosiddetto mainstream sono viva testimonianza le opere Hunger e soprattutto Shame.

Resto ancora dell'idea che un film si giudica meglio se valutato nel tempo, soprattutto se esso è, come sembra il caso, parte di una opera più grande, che include una filmografia ancora inespressa.

Tuttavia, Mc Queen ha uno stile differente dal tradizionale occhio cui siamo abituati: perciò, si possono trarre i primi giudizi.

Nella mia idea di critica, non c'è la necessità di valutare in positivo o negativo una storia; corre semmai l'obbligo di analizzare soprattutto sotto il profilo emotivo le immagini su  grande schermo. Sia nella prima, folgorante visione di Hunger che, seppur in modi diversi, di Shame, mi è apparso chiaro che la struttura del suo cinema ha lo stesso peso della forma che ne avvolge la vicenda.

Mi spiego meglio: per alcuni registi, e penso per esempio a Tarantino, la ripresa sporca, magari in campo lungo, con la macchina a mano (come nel cinema di Katarine Bigelow), non inficia la storia che scorre sullo schermo, anzi, essa pare funzionale allo spettacolo, laddove se ne ravvisi l'urgenza.

Al contrario, per altri cineasti, quali Bresson e, in misura minore, Bergman, cui Woody Allen resta debitore per il peso dell'inquadratura, è la forma che contiene la storia: il dicibile, allora, prende corpo rispetto al pensiero dell'autore.

Non importa ciò che stiamo raccontando, ma ciò che cerchiamo di far passare in quello che stiamo scrivendo, sembrano dirci i loro film.

Il modo di girare (appesantito da ingombranti carrelli) è prioritario rispetto al racconto: non è certamente fine a sé stesso, ma rappresenta (nell'ottica che li riguarda) l'unico modo per raccontare quella storia.

Mc Queen, consapevole della storia cinematografica, studia i prototipi, e sceglie una via di mezzo: raccontare storie differenti, il cui fulcro sarà sempre “abituale” (perché è ciò che gli interessa di più), utilizzando una patina – una “vernice” ? - che avvicina il suo occhio ad una ripresa artistica, in senso più compiuto.

Quanto questa scelta influirà sulla storia è presto per dirlo, ma l'interrogativo si pone: è poi lecito trasfigurare il degrado corporale in immagini esteticamente compiacenti (e mai compiaciute)?  

Al di là del lecito, resta la materia : essa è funzionale, almeno in apparenza, alla sua struttura.

La sua concezione del cinema, infatti, parte dal provinciale, mi si passi il termine, per dilatarsi sull'universale. In senso più ampio: siamo abituati a storie che, trattando di temi alti – siano l'Olocausto, la guerra, il confronto generazionale, la dittatura, e così via – compongano una storia che abbracci l'epica.

Questo, secondo il mio punto di vista, è il tradizionale senso di ripresa di un regista. Se osserviamo la filmografia di Kubrick o quella di Fellini, noteremo che essi hanno più o meno rispettato (perfino omaggiando il peplumsimili argomenti: hanno costruito affreschi, e non vicende minime.

Va da sè che il degrado per Fellini è “generazionale”, mentre per Kubrik è collettivo: egli, infatti, aspira a rompere le “strutture”, a restare nelle rovine, mentre nelle stesse rovine Coppola sembra risorgere.

 

Certo, il cinema odierno ha dovuto correre verso l'aspetto minimale, ma, almeno negli Stati Uniti, non si può dire che Eastwood, il giovane Anderson  (si veda su tutti Il petroliere) e anche Spielberg non abbiano proseguito trattando tali temi.

Anche l'opera di Malick, in fondo, trova le sue radici in momenti storici mondiali, quando non epocali (l'odissea, pur inventata, di Pocahontas).

Così non è per Mc Queen: nato in Gran Bretagna, si è dedicato principalmente alla mostra d'arte, per così dire, per poi riportare le sue esperienze in Hunger, dove, ponendo al centro della pellicola Bobby Sands, attivista politico nordirlandese, esplora con evidente ma non compiaciuto ricorso alla violenza, le sofferenze che un corpo può subire quando sottoposto al trattamento carcerario usato dalle guardie britanniche.

Proprio nell'esplorare il denutrimento, dovuto allo sciopero della fame, il dimagrimento, la difficoltà di restare in piedi, Mc Queen si avvicina, entomologicamente, a ciò che più gli interessa: la sofferenza.

E l'uomo, in fondo, pur combattendola, per vincerla, deve accettare tale sofferenza.

Ma, ad un certo punto, egli sembra chiedersi:

Quanto un uomo può sopportare ?

E lo fa con occhio laico, in modo ancora ortodosso.

Quella stessa ortodossia scompare nel successivo lavoro, Shame, dove il disfacimento corporale è indotto dall'eccessivo abuso sessuale, inteso come forma di dipendenza, cui la sottrazione stessa è causa di ulteriore sofferenza.

L'uomo, secondo Mc Queen, si avvita nella sua sofferenza: la Via Crucis, dunque, non è calvario unico ma percorso comune e irripetibile. In tal senso, egli appare l'anti-mimesi di Martin Scorsese, le cui piaghe corporali hanno una ragione (e un fondamento) religioso. Per il cineasta italo-americano, infatti, la vita è ragione di essere tale proprio perché accetta il Calvario. Smette di vivere, in fondo, chi gode del suo mondo, ma non è questo il mondo vero, cioè quello che ci aspetta.

 

Per ritrovare, dunque, un sentire laico, e accostare il cinema di Mc Queen a qualcosa che lo ha generato, dobbiamo rifarci a Darren Aronofsky.

Nato nello stesso periodo (entrambi, dunque, sono figli della post-beat-generation, la cosiddetta seconda metà degli anni sessanta), esponente della nuova corrente di cineasti indipendenti statunitensi, ma di origine armena, Aronofsky fonda la sua universalità sulle esistenze misconosciute, motivo che inizialmente lo accostò a Cassavetes.

La sua carriera, proprio perché nasce dalla famiglia e non dagli studios, è stata molto tortuosa.

Il primo film, PI greco – Il teorema del delirio, pone al centro della storia un matematico sofferente di emicrania per aver guardato direttamente il sole all'età di 6 anni, ma, più specificamente è un  film sull'uomo ed il superamento dei suoi limiti.

Girato in bianco e nero, con grandissime difficoltà, nonostante invenzioni  figurativamente impeccabili, non sviluppa meglio il senso pieno del disfacimento corporale, che, così come in Mc Queen, pare essere il prioritario argomento di interesse di Aronofsky.

E' probabile che, influenzato dalla necessità, egli abbia provato a incrociare temi alla Godard con motivi d'interesse del primo Ridley Scott (Euclide, il super computer con cui Max, il matematico divide l'appartamento è un evidente richiamo a Blade runner).

E' dopo Requiem for a dream, in particolare con il più commerciale The Wrestler, che finalmente Aronofsky può sciorinare meglio la sua tematica: proponendoci il corpo sfatto di Mickey Rourke sotto una macchina da presa mobile (una Arri A-minima, che è la stessa usata dai fratelli Dardenne  per Rosetta, film che gode di non pochi punti di contatto con l'opera americana) e allo stesso tempo implacabile, alimenta fino in fondo il sogno americano, oggi inverso rispetto ai prototipi di Capra, che però è destinato a scontrarsi con universo di decadenza.

Sin qui, tuttavia, nulla di nuovo: quale che sia la sorte di sventura, sin dai tempi di Welles l'uomo prova, cercando di indorare (vedasi lo Scarface  di De Palma, per il motivo comune) il proprio mondo, a risorgere, dopo un periodo di brutale abbattimento.

Ciò che però connota (in parallelo, come se il motivo matematico non dovesse mai abbandonare Darren) il tema chiave di Aronofsky è lo stesso di Mc Queen: più dell'anima (in palese contrasto con il dogma di Wenders, dunque), può il corpo.

 

Noi, sembrano univocamente suggerirci i due, siamo carne, materia, stato delle cose (ed è latente il richiamo a Fassbinder), più ancora che pensiero.

C'è, a mio parere, quasi un rifiuto delle dritte psicanalitiche che spesso hanno condizionato l'uomo nel Novecento.

In verità (e basta guardare appena più in là, all'opera di Van Sant, per esempio), il cinema ha da molto tempo abdicato all'evocazione psicanalitica: basti pensare a come Demme tratta la materia nel poco conosciuto Rachel sta per sposarsi; probabilmente, essendo la mdp macchina onirica per eccellenza, il rifiuto (alla maniera di Lynch) di ogni sorta di programmatica spiegazione tende a divenire speculazione.

Vivere di sogni, infatti, permette di soprassedere alla comprensione degli stessi (in fondo, non si può accettare che la propria vita, per quanto fortemente costruita, sia comunque soggetta a delle ineluttabili variabili casuali ? E se ciò è vero, perché dare un senso al sogno, quando l'equazione si capovolge?).

Certo, oggi il cinema, in particolare quello europeo, prova a darsi una dimensione più aderente al reale, alla Antonioni: un altro britannico come Loach potrebbe rabbrividire di fronte a Mc Queen, non riconoscendone la matrice anglofona; eppure, già Powell e Pressburger  avevano proposto l'idea che la componente corporale indirizzasse (Scarpette rosse) tutti i nostri desideri verso l'essere.

Non è Shame una variante dell'impossibilità di fare a meno della propria vocazione?

Perfino Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) aveva evocato il sopraffare del corpo rispetto alla ragione, scia sulla quale, a suo modo, Pasolini (che potrebbe essere l'epigono anti di Mc Queen, a ben pensarci) aveva costruito con Salò la perfetta e mostruosa dittatura della sopraffazione.

Certo, oggi le possibilità espressive (quali le digitali, incluse le macchine a caricamento pellicolare ribaltato – Alexa -) offrono una nuova possibilità, e semplificata.

Come diceva Bergman: “Era difficile diventare bravi, all'epoca. Non lo ero neppure io”, proprio perché i mezzi erano più complessi da gestire – il che aumenta la nostra riconoscenza verso Hawks,  Wilder, FordHughes  e Turner, ma anche verso autori popolari quali De Sica,  Rossellini  Chaplin).

Ma, allora, perché altri autori, come il balcanico Kusturica, ottengono lo stesso effetto (Underground, quale elogio della carcerazione preventiva, pur se non completamente risolto, dimostra come si può ridurre l'uomo in schiavitù senza ricorrere alla forza) senza forzare l'immagine e, viceversa, perfino maestri come Bertolucci sentono il bisogno di mostrare tutto il visibile?

In tal senso, soprattutto con la seconda opera, e non appaia paradossale che un autore appena noto possa sentirsi corollario di tanta genìa, Mc Queen  risponde con il suo voler bene ai personaggi e lo stesso fa Aronofsky: la parola adatta è l'empatia.

Paolo Sorrentino sostiene che è difficile fare “un film con personaggi totalmente negativi, perché, dovendoli amare così tanto prima di metterli in scena, non ci si può abbandonare senza qualche ritegno alle loro cattiverie”.

Proprio per questo il cinema talvolta si è accartocciato, risultando, più o meno goffamente, indietro rispetto alla cronaca. 

Ne hanno beneficiato autori di genere (Cronenberg, pur ridimensionato dalle ultime opere, è ancora modernamente e straordinariamente attuale, ma lo sono anche “nonno” Romero e, ma parliamo di cinema commerciale,  Sam Raimi).

Così, in quella nicchia lasciata vuota, grazie all'ausilio del piano-sequenza, si inserisce Mc Queen: diventa ridondante per scene e colori, che appaiono talvolta in contrasto con il racconto, e partorisce piani di violenza inaccessibile, fosse pure solo masturbatoria.

Si può ben dire però che non è rimasto indifferente alle visioni di Refn e, ancor di più, di Kim-ki-duk ( Ferro 3 docet).

Se per il britannico, tuttavia, il piano-sequenza si concretizza in una mdp ferma, immobile, per lo statunitense essa segue l'oggetto filmico senza lasciarlo.

In tal senso, lo si può considerare a ben diritto un europeo (e non appaia inadeguato il confronto con i fratelli Dardenne), giacché il mondo hollywoodiano non può fare a meno di stacchi montati su basi matematiche esatte (15”, 40”, 1' 15”).

Orbene, se è vero che è il corpo il tema principale del cineasta di origine armena, esso si differenzia dal britannico perché rifiuta la catarsi, lasciando il personaggio preda di un destino già scritto.

In Mc Queen, e questa mi sembra la parte più rilevante, i personaggi, al contrario, lottano contro il proprio destino.

Ecco la necessità dell'orpello, su cui ha finito per prevalere la parola “video arte”: per trattare di una lotta, comunque impari, il londinese deve patinarne (ma non si consideri questo un termine dispregiativo, semplicemente una constatazione) la vicenda.

Egli è partecipe dei suoi personaggi, mentre Aronofsky, ad un certo punto, se ne distacca.

Le sue immagini sono meno pure, più sporche.

A questo punto, però, sarà utile ricordare che, prima di entrambi, era stato il cinema di Danny Boyle ad aver costruito intorno al disfacimento corporale e al ribellarsi contro questo disfacimento, le sue opere.

Tutto il cinema di Boyle (ed anche i suoi lavori meno riusciti, quali The beach, che un giorno sarà rivalutato) ha al centro la lotta dell'uomo contro la sofferenza del proprio destino.

Così come il primo Aronofsky e oggi Mc Queen, Boyle si è legato (alla maniera di  Leigh) con un attore simbolo: è, in effetti, l'unico modo per spingere all'estremo la storia compenetrandosi senza interpretarla. Il litigio con Mc Gregor (un altro britannico) a favore dello sciapo Di Caprio compromise per sempre questa unica esplorazione.

Conscio di questa unicità, Mc Queen chiede a Fassbender di seguirlo, in ogni dove.

Sarà solo con The millionaire, con l'India, dove cioè il corpo è, per gli strati bassi della società, qualcosa di non-posseduto, una merce da barattare, che Boyle riprenderà (anche se per sommi capi) le sue antiche tematiche con maggior rispetto per il corpo, restituito alla brutale terra cui proviene.

Ma siamo certi che la stessa cosa accada nell'occidente civilizzato? (civilizzato?).

Secondo Aronofsky e Mc Queen, sì: certo, su entrambi ha influito anche la pregressa esperienza lavorativa (il primo dopo aver fatto parte di un gruppo di graffitari, il secondo dopo aver avviato una numerosa serie di installazioni artistiche), che li ha scagliati di prepotenza nella vita vissuta (per quanto non usuale) che ha favorito il formarsi di una coscienza individuale ma ha impedito quella collettiva.

Il loro tema di fondo non è scoperta del momento (vedasi l'ultimo Almodovar) sbandierata in modo opportuno, ma scelta consapevole e prioritaria. 

Appare però, almeno a chi scrive, singolare che in due continenti differenti, due autori, la cui unica cosa davvero in comune è avere studi artistici alle spalle (se si ignora la reale provenienza familiare di entrambi, con Aronofsky che è ebreo ucraino) sposino, con forme diverse, magari, le stesse tematiche, ciascuno per proprio conto.

Fatta salva la buona fede, pertanto, resta una domanda: più che alle storie, oggi, il cinema è interessato all'individuo ?

Allora, si tratta di un super-uomo, resistente e indomito.

E, ci scuserà Nanni Moretti, sarà la morale che rimarrà sconfitta.

Ma, collegandosi al concetto di critica esposto nelle prime righe di questo scritto, il momento emotivo sarà una fonte minima di allargamento enorme dei propri personali e comunque ristretti orizzonti: un cinema estemo.

Che cambia il mondo: da estremità irraggiungibile ad estremo percorribile.

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