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Storie Italiane: Beppe Viola
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Esattamente trent’anni fa moriva, stroncato da emorragia cerebrale a soli 43 anni in uno studio tv, Beppe Viola.

Chi ha qualche annetto in più sulle spalle, come me, lo ricorda bene. Non è mia intenzione qui parlare di calcio: non è la sede e, del resto, non ne ho la competenza. A me interessa l’uomo e ritengo sia giusto scriverne qui perché Beppe era anche sceneggiatore.

Se dovessi dire chi ha inventato un nuovo linguaggio sportivo, dopo l’ubriacatura di retorica e fraseggio aulico ed arcaico, direi Gianni Brera. Gianni aveva, oltre alla formazione culturale, una vivacità intellettuale anticonformista che gli permise di difendere tesi discutibilissime (quasi razziste) con il piglio sicuro di chi conosce l’argomento trattato. Sue sono le invenzioni linguistiche come i neologismi, suoi gli azzardati accostamenti  (“gli abatini” le “masturbazioni” intese come gioco che non predilige la verticalità).

Viola era invece un autodidatta. Era nato a Milano e  abitava dalle parti di via Lomellina, vicino di casa di Enzo Iannacci, che diventò un suo grande amico. Non aveva compiuto studi regolari; non aveva neanche un diploma di media superiore. Era un autodidatta. Ma aveva la curiosità,l’intelligenza ed un talento innegabile. Sapeva scrivere. Non avendo come modelli i classici, il suo punto di riferimento era la gente, il “popolo”. Infarciva quindi la sua prosa con i detti popolari, il colore, i dialettismi, gli accostamenti pittoreschi. Tutto questo aveva il potere di innervare il suo linguaggio, arricchendolo oltre i limiti consentiti dalle severe norme lessicali. Tutto questo ne faceva un “creatore” di linguaggio altrettanto valido.

Si distingueva dalla compita diligenza dei suoi colleghi quando, con onestà intellettuale notevole, capiva che non era il caso di scrivere o mandare il solito “pezzo” di routine, maledicendo in cuor suo, il "mestiere" che lo obbligava a farlo. Un esempio? Nel novembre del 1969, si giocava un derby meneghino (Inter-Milan credo). La partita fu così brutta che Beppe, al momento di darne conto alla Domenica Sportiva serale, preferì proporre agli stupiti telespettatori un servizio andato in onda sei anni prima dopo un derby degno di questo nome. Grande!

Ma non scriveva solo di sport. Scriveva canzoni (tra cui TIRA A CAMPA’ e STATU QUO in coppia con Iannacci). Ma quella che tutti ricordano senz’altro è QUELLI CHE (scritta nel 1975 con Iannacci e che Fabio Fazio, da persona sensibile e intelligente, ha scelto come sigla per l’omonima e fortunata trasmissione pomeridiana domenicale.

Per il cinema, ha collaborato alla sceneggiatura con Monicelli per ROMANZO POPOLARE  e con Ugo Tognazzi per CATTIVI PENSIERI. Nel primo, egli fa anche una breve e gustosa apparizione come addetto al controllo dei biglietti in un cinema milanese.

Gustoso è il battibecco tra lui e Ugo Tognazzi che vorrebbe far entrare sua moglie ancora minorenne ma incinta. Beppe si dimostra inflessibile dicendo di ripassare quando la moglie sarà maggiorenne.

Ma scrisse anche parecchi testi per quei simpaticoni di comici che si esibivano al celebre cabaret milanese Derby Club, tra cui Teo Teocoli, Massimo Boldi, Cochi e Renato, Felice Andreasi, Paolo Villaggio ecc.

Io lo ricordo come uomo pieno di ironia, portato spesso a sdrammatizzare e magari anche a sfottere elegantemente certi campionissimi, beccati magari in atteggiamenti o prove tutt’altro che esaltanti.

Perché il bisogno di ricordarlo? Credo che, quando un Paese o una società attraversano un delicato momento di transizione o una stagione per molti aspetti da dimenticare, sia importante proporre esempi di onestà intellettuale, forte tensione morale e un talento vero, virtù tutte queste

proprie di Beppe Viola.

Per concludere questo piccolo ricordo, propongo alcune righe di un commosso articolo di Gianni Brera, pubblicato su LA REPUBBLICA del 19 ottobre 1982:

 

  (…) Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli. (…) Povero vecchio Pepinoeu! Batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato sulla corsa; tirava mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita. Aveva un humour naturale e beffardo: una innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente, per aver chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io, che soprattutto per questo lo amavo, ora ne provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore... »

 

 

 

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