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Il travet dagli occhi di ghiaccio
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Io, voi, noi tutti abbiamo conosciuto Wendell Corey. Era il tipo vestito sempre inappuntabile, assorto nella lettura del giornale, che sedeva accanto a noi in metropolitana. Oppure quel signore in giacca, cravatta e impermeabile che vedevamo ogni giorno uscire dalla porta di casa accanto alla nostra, sempre alla stessa ora e rincasare puntuale, senza mai fermarsi a bere un cicchetto al bar vicino al posto di lavoro.

Il classico travet, l’uomo in grigio (“in a flannel grey suit”) che abita vicino a noi, prende il bus con noi, che scambia poche parole, impegnato a leggere il giornale o, a volte, a fissare il vuoto.

Il classico tipo che un giorno leggi che ha ammazzato moglie e figlio e si è poi sparato alla tempia.

Il mondo è pieno di Wendell Corey.

Il mondo è pieno di individui all’apparenza insignificanti, tutto casa,lavoro e chiesa, poco inclini ad attaccare discorso, chiusi in loro stessi, sentimentalmente stitici, immersi nel loro piccolo mondo fatto di quotidianità banale, di sorrisi forzati, di frasi di circostanza, di amore per dovere, di priorità contabili, ragionieristiche, di assenze, di mancanze. Qualcosa, nella loro infanzia, li ha segnati per sempre. Forse la paura del padre, la soggezione, l’ansia di non deludere. I personaggi di Wendell Corey sono uomini grigi, senza slanci, senza entusiasmo che non sanno amare né odiare. Il loro è un mondo orizzontale, piatto e senza emozioni. E’ una pentola a pressione che, in taluni casi, arriva  a scoppiare. E quando succede, si aprono squarci di imprevedibilità, di prateria sconfinate dove arrivano folate di gelida e spesso lucida violenza, di psicopatia assoluta, di improvvisi salti nell’orrido dove nulla è negato, nemmeno gli atti più orrendi. Salvo poi, passata la folle folata, lasciare il posto al barlume di coscienza che, nonostante tutto, ha illuminato di luce fioca un’esistenza senza tepori, fredda e buia, generatrice di mostri interiori.

Ma in Wendell Corey, a redimerne il terreo volto dell’insignificanza, intervengono due occhi azzurri di ghiaccio, stupendi, come false promesse di felicità presente e futura, subito spente, tradite da una natura gregaria, passiva, conformista, timida e ignava.

La timidezza, ecco. La soggezione ha prodotto, generato il mostro timido che non vorrebbe esserlo, ma incapace di vincere la propria natura, proprio come lo scorpione che, cosciente di perdere la vita se punge la rana in mezzo allo stagno, è “costretto” a farlo.

La sua natura però è facilmente influenzabile, specie se si tratta di una persona di forte volontà. Il ricordo del padre continua ad agire su di lui e, davanti ad una donna che gli prospetta una possibile relazione, pur se pesantemente inguaiata con la legge, cede e finisce per autodistruggersi. E’ il caso di IL ROMANZO DI THELMA JORDAN (1949) di Robert Siodmak. La donna in questione non poteva che essere Barbara Stanwyck, icona dell’io femminile in perenne competizione con il maschio, simbolo (assieme a Bette Davis e a Joan Crawford) della donna virile, spietata e cinica, pur se capace, in altre occasioni, di immense prove di generosità e amore senza confini.

Il suo istinto di travet, la sua natura gregaria lo inducono ad accettare compromessi illeciti con qualcuno più sveglio e con meno scrupoli di lui. E’ il caso di Noll (Kirk Douglas) in LE VIE DELLA CITTA’ (1948) di Byron Haskin. Tuttavia, la sua natura di esecutore e piccolo e grigio contabile si riverbera nella sua sostanziale ingenuità, quando rivela a Noll che intende procedere contro di lui, firmando così la propria condanna a morte.

Questo suo carattere introverso, questa sua indole usa ad accettare umiliazioni e sconfitte, può, come si è detto, arrivare al punto di rottura, quando cioè la ragione della sua vita (la moglie) viene uccisa, anche se per errore durante uno scontro a fuoco con la polizia, venuta ad arrestarlo per aver pianificato una rapina nella propria banca. Il senso della sua vita, ora che non ha più nulla al mondo, è evadere e colpire la moglie del poliziotto che ha ucciso la sua. E’ il film più inquietante della sua carriera: è un pazzo, lucido, ormai scatenato, perché ha perso i vincoli morali, la soggezione e la timidezza, caratteristiche della sua personalità monca, incompiuta, inespressa. Il film è chiaramente L’ASSASSINO E’ PERDUTO (1956) di Budd Boetticher. Il suo aspetto esterno è ormai solo un involucro a perdere. In lui è cambiato tutto: è un mutante passato da una fase letargica durata decenni a una esplosiva che lo condurrà in breve alla morte.

Nel 1954, Hitchcock scelse lui per il ruolo del tenente Thomas Doyle in LA FINESTRA SUL CORTILE. Aveva bisogno di un poliziotto poco incline alle fantasie, ancorato alla dura quotidianità, intelligente, ma non troppo sveglio, metodico e poco propenso agli scatti di genio, familiare quel tanto da prendersi un incarico extra non troppo sul serio. Insomma, un uomo alla Wendell Corey.

Come dicevo prima, i suoi occhi di un azzurro intenso inducono a credere che quest’uomo alberghi sentimenti e passionalità tali da sedurre chiunque. Ad uno sguardo più severo, quegli occhi sono freddi come una lastra da obitorio e lo sguardo che ne deriva sono promesse di morte.

Era nato a  Dracut, Massachusets, nel 1914 e suo padre era un pastore congregazionista. Studia a Springfield e comincia a lavorare in teatro fino ad essere notato, nel 1945, da Hal Wallis (allora produttore alla Paramount, dopo essere stato il geniale producer che tutti sappiamo alla Warner Bros.)

Wallis gli propone un contratto e una carriera nel cinema e Corey accetta. Il suo primo film è FURIA NEL DESERTO(1947) di Lewis Allen. Non sarà mai un attore protagonista, ma la sua maschera inquietante intriga produttori e registi e per lui si aprirà una carriera densa di soddisfazioni ma anche di buchi neri, segnati dalla sua caduta nell’alcolismo che lo porterà, nel 1968, all’età di 54 anni, a morire di cirrosi epatica.

Wendell Corey Picture

Perché Wendell Corey? Perché il cinema americano deve molto ad attori come lui, onesti mestieranti, con qualche scintilla di talento, confinati troppo spesso nella cantina degli oggetti non di pregio, salvo poi, in certe occasioni, essere rispolverati e tirati a lucido per risplendere di luce propria.

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