La strada, a due corsie di marcia, taglia di netto il centro cittadino. Che è fatto di catene di ristorazione: Pizza Hut, McDonald, Ryan, Subway etc; shopping malls, supermercati, qualche hotels: Holiday Inn, Holiday Inn Express. Parcheggi ovunque, niente marciapiedi, niente mezzi di trasporto pubblico, niente case. "Where do people live?" la domanda è forse un po' troppo diretta, ma mi sorge spontanea. La risposta è cortese e naturale, anche se non del tutto comprensibile: esiste un nucleo abitativo, potremmo definirlo "centro storico", ma realmente è il modello "community" ad imperare. Non capisco. La domenica mattina sono invitata ad uno Baby Shower e tutto diventa chiaro: il taxi entra sicuro in una zona delimitata, nel bel mezzo del nulla. Case, case, case, si susseguono nella via. Tutte uguali. Quella di F. e B. si contraddistingue per la scelta di certi fiori violetti piantati nella aiuola di ingresso. Mi spiegano poi: "A noi piace vivere in tranquillità e riservatezza: nella community il prezzo delle abitazioni è costante. Così, presumibilmente, il reddito dei nostri vicini è paragonabile al nostro. Ergo: apparteniamo tutti alla stessa classe sociale! Probabilmente i nostri figli frequenteranno le stesse scuole (private) e in genere facciamo tutti riferimento alla stessa parrocchia: ma questo non è importante, perchè noi americani abbiamo una società multiculturale, multietnica e multireligiosa. Non come voi, in Italia". "Non solo, ma devi sapere che anche in città i quartieri ricchi non sono raggiunti da mezzi pubblici. Altrimenti, chiunque potrebbe arrivarci: e quindi per strada potresti incontrare sconosciuti malintenzionati". Sussurro: "Ma New York? San Francisco?". "Ma quella non è America. That's America!". Sono agghiacciata. Non ci sono altre parole. Il Baby Shower è la festa più stupida che possa esistere: sono ammesse sole donne (che noia!) e non si parla altro che di "argomenti da donna": bambini, vestiti, parrucchieri, casa e naturalmente mariti. Ahhhh: non posso scappare!!! Sono nella community!!! Vengono servite tartine, rigorosamente acquistate: perchè le cucine, negli Stati Uniti, sono oggetti di arredo come altri: nessune le usa! I cibi sono precotti, prefatti o semplicemente prelevati da uno scaffale qualsiasi già pronti. Sopravvivo al pomeriggio e la sera i colleghi optano per un pasto veloce al vicino "Ryan's": qualche rimostranza ("è sporco, junk-food, che schifo!") ma è deciso. Mi sorprende la percentuale (altissima) della gente di colore presente. E la stazza. "Qui mangi a buffet quello che vuoi e spendi pochissimo!" mi spiegano. Il banco della verdura fresca è fantastico: ci sono dei peperoni piccoli e dolcissimi che in Italia non ho mai neppure visto. Fagiolini, insalate di tutte le foggie. Ma gli altri avventori si accalcano sui fritti. Si ingozzano di dolci gommosi, gelati grassi e caramello puro. Mi vengono in mente i "quartieri" di L.: non case ma caravans scassati, con allacciamenti elettrici di fortuna, acqua corrente esterna: un campo profughi da Terzo Mondo. Ma qui, qui, siamo nel Primo. O dovremmo esserlo: anche se la povertà è ovunque ed ha i mille volti, tutti uguali, degli afro-americani che si trascinano in giro senza meta e senza fine; ha l'odore di plastica bruciata emanata dalla multinazionale laggiù; ha i suoni di una lingua maltrattata dall'ignoranza, tra slangs e pronunce disarticolate in questo sud, che più sud non si può. O forse sì, lungo le sponde del Mississipi e del Missouri, più giù ancora. Seguendo le parole ed i pensieri che hanno dato ad esso anima e corpo. Tutti, guarda caso, bianchi: Twain e Faulkner, Harper Lee e Caldwell fino al citatissimo (dal cinema) T. Williams.
Quanto sta succedendo a Ferguson non mi stupisce. Mi incupisce, al di là di fatti oggettivi colpe o ragioni, ma non mi stupisce. Perché a volte leggere e studiare non basta: bisogna vedere, e toccare e odorare, e sentire e assaporare. E là, sui grandi delta e nelle foreste secolari, tra le piantagioni che un tempo furono ricchezza e scandalo, ed ora solo desolazione; là, nel 2012 e nel 2013, un negro diventa afro-americano. Ma resta negro. Americano ma negro. Ed è chiaro che "La liberazione non è la libertà; si esce dal carcere, ma non dalla condanna" (Victor Hugo)
Premi e consensi per questo film che si avvale di grandi capitali, del talento di McQueen, di interpreti convincenti. Ma ha veramente senso insistere sulle nefandezze passate, comunque irrecuperabili, glissando poi sui problemi irrisolti del presente? Spettacolarizzando il dolore, limitando nel sadismo personale le responsabilità pesanti di un sistema politico ed economico, rinchiudendo la denuncia di una piaga sociale collettiva nella "straordinarietà" di un singolo? Questo mi chiedo scorrendo i nomi dei produttori, e riportandomi alla memoria i dati del regista, londinese di nascita e formazione (con un breve soggiorno di studi a New York). In testa le parole oculate e politiche, troppo politiche, del primo presidente afro-americano. Che si possono profondamente comprendere solo guardandosi o meglio riguardandosi la sua biografia. Di questo piacente signore hawaiano di mezza età, con indubbie qualità comunicative ed una ingombrante (perchè intelligente) moglie. Afro-americana. Lei.
Consenso di pubblico in patria (assai meno all'estero) per questo prodotto studiato a tavolino per incassare e commuovere. Zeppo di volti noti e con una indubbia propensione alla narrazione, narrazione, narrazione …. Lungo ma non noioso, Whitaker fuori parte ma con una sorprendente Winfrey. Uno dei peggiori film della scorsa stagione: falso, melenso, limitato nella analisi storica (non perchè manchi il tempo! Solo, non si ha il coraggio delle idee!), portato a termine con correttezza (odio la correttezza!) da Daniels, che svolge il compito come uno studente in vacanza: bisogna riempire la pagina: non ha importanza come.
Difficile inquadrare in un discorso politico Tarantino. Forse è così bravo da riuscirci apposta, forse gli "viene naturale", fatto sta che dove c'è Tarantino non c'è politica, perchè il suo cinema è assolutamente, totalmente, meravigliosamente, "entertainment". Come un bianco (anche se di origini italiane) di Knoxville-Tennesse possa narrare la storia di uno schiavo senza parlare della schiavitù è impossibile a credersi. Ma possibile a vedersi.
Se ne parlò molto. Più che altro, perché grande nuovo lavoro di uno degli uomini più potenti di Hollywood, quel celeberrimo Steven Spielberg. Poi, lo videro in pochi, più in USA, assai meno in Europa. Io stessa, solo a sprazzi. Ed i premi ricevuti, minori. Eppure, almeno da quel poco che ho sbirciato qua e là, un buon film. Solo, forse, troppo didascalisco (ma è difficile non esserlo, alle prese con una biografia. E di Lincoln-Padre della Patria per di più!) e lento. Un film "di testa" e da guardare "con la testa": se il passato è irrecuperabile, conoscerlo resta basilare. E sviluppare una interpretazione storica essenziale. Questo "Lincoln" fa: ci mostra la necessità, pubblica e privata, nazionale e storica (appunto) della abolizione della schiavitù. Principio di liberazione, se non di libertà. Un percorso anche personale: da "Il colore viola" ad "Amistad".
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