Espandi menu
cerca
Fuori orario, certo, ma a volte vale la pena passare una notte in bianco per guardare “cose (mai) viste)” e da vedere.
di spopola ultimo aggiornamento
Playlist
creata il 3 film
Segui Playlist Stai seguendo questa playlist.   Non seguire più

L'autore

spopola

spopola

Iscritto dal 20 settembre 2004 Vai al suo profilo
  • Seguaci 507
  • Post 97
  • Recensioni 1197
  • Playlist 179
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi
Fuori orario, certo, ma a volte vale la pena passare una notte in bianco per guardare “cose (mai) viste)” e da vedere.

Pre-fine anno col botto per ciò che Enrico Ghezzi ci offre in visione nel suo programma notturno esattamente domenica  30 dicembre…  tutte cose… davvero (ancora) mai viste in Tv e credo nemmeno girovagando in rete (e di conseguenza assolutamente da non perdere per chi ama ovviamente lo sperimentalismo e non ha paura a confrontarsi con le nuove “forme” cinematografiche di Apichatpong Weerasethakul).
Domenica 30 dicembre 2012 dunque a partire dalle ore 2,10, prima con tre “corti” che nemmeno io ho mai visionato e sui quali non posso dire nulla ma mi sento comunque di consigliarli assolutamente, vista la straordinaria statura artistica del suo autore (Josè Val del Omar)  come si può ben apprendere semplicemente verificando on-line:
“A José Val del Omer (Granata, 27 ottobre 1904 – Madrid 4 agosto 1982) viene riconosciuto uno straordinario talento artistico e tecnologico applicato anche all’arte cinematografica. Oltre ad essere contemporaneo e compagno di Lorca, Cernuda, Renau, Zambiano e di altre figure di primaria importanza della “Silver Age” della cultura spagnola a cui si deve un fluire  di idee e di innovazioni bruscamente interrotto dalla guerra civile, Val del Omer è stato autore di una serie di interessanti e folgoranti cortometraggi che oltre a quelli programmati da Ghezzi in questa circostanza:
 
Vibrazioni di Granada (1935) – Domenica 30 dicembre 2012 ore 2,20 – Rai3
Variazioni su Granada (1935) – Domenica 30 dicembre 2012 ore 2,40 – Rai3
Film familiare (1935/1938) – Domenica 30 dicembre 2012 ore 2,45 – Rai3
 
comprende anche:
 
Estampes (1932)
Feste Cristianes/Feste Profanes (1934)
Gimnasia (1937)
Natación (1937)
Fuego en Castilla (1961)
Acariño Galaico (1961)

e che già dal 1928 aveva anticipato alcune delle più singolari tecniche poi da lui utilizzate nella sua produzione (fra cui “l’overflow” - espansione delle immagini oltre i limiti dello schermo -,  il concetto di “visione tattile” e molte delle tante esplorazioni da lui fatte nel campo dell’elettro–acustica applicate poi  nel suo “Trittico Elemental de España iniziato nel 1953, ma terminato solo dopo la sua morte.
Per lungo tempo dimenticato, è stato “riscoperto” e rivalutato per il suo tenace lavoro di ricerca contro ogni tendenza codificata, solo poco prima della sua morte”.
 
A seguire (ore 2,50) il pezzo forte della serata, ovvero il documentario sperimentale del regista thailandese vincitore di molti riconoscimenti importanti, e al momento sua ultima produzione in campo cinematografico:

Mekong Hotel (2012)
 
a cui dedico questa playlist:
 
un film che - come ho già scritto a suo tempo proprio qui sul sito - è opera da vedere soltanto se si è riusciti ad apprezzare il valore (anche della ricerca formale) delle precedenti pellicole di Apichatpong Weerasethakul, o se si ha interesse ad esplorare inedite strade percettive persino molto divergenti rispetto a ciò che normalmente passa sullo schermo, altrimenti consiglio di astenersi perché anche in questo caso siamo di fronte a un’opera di difficilissima fruizione che non può e non deve essere valutata con il metro di giudizio che si riserva a un semplice film inteso come tale, poiché il lavoro che il regista fa sulla pellicola e intorno ad essa, è davvero molto più trasversale, di quelli che “travalicano” i campi e le definizioni certe:
 
“(…) ci troviamo infatti di fronte a un’opera multimediale molto complessa nelle sue valenze anche strutturali che è un ibrido di forte presa immaginifica che appunto, come prova a sintetizzare Simone Emiliani su Cineforum,  non è soltanto un film, ma anche qualcos’altro, forse più videoarte, ma anche questo termine, questa classificazione, sono molto riduttivi, nel senso che non riescono proprio a dare un’idea precisa e definitiva di ciò che ci troviamo di fronte.
Il prodotto è dunque indubbiamente “anomalo” soprattutto rispetto ai canoni correnti, dai quali si diversifica per più di una ragione (anche di approccio al mezzo) ma rappresenta a mio avviso una personale e inedita “visione” delle cose, magari di difficile inquadramento in uno schema come si è visto, ma che probabilmente racchiude proprio in questo il fascino e l’interesse che stimola se si ha la voglia e il coraggio di provare a penetrarlo, perché in qualunque modo si cerchi di interpretarlo o si tenti di esprimere un giudizio anche di merito, ci rendiamo alla fine conto che siamo stati abbastanza riduttivi, ne stiamo considerando solo un aspetto e non per cattiva volontà, ma proprio perché dobbiamo ammettere a noi stessi (anche con un certo disagio) che forse non abbiamo una sufficiente preparazione per vagliarne tutte le implicazioni teoriche, culturali e antropologiche che si porta appresso e che cerca di “condensare” a suo modo in immagini, sulle quali comunque lavora di cesello al fine di trasmettere (e spesso ci riesce) forti emozioni al di là della “conoscenza” e della “comprensione”. Si potrebbe allora ribadire proprio che le classificazioni  per il cinema di Apichatpong Weerasethakul  sono davvero “improponibili” ed è allora molto meglio, almeno per noi occidentali,  non provarci nemmeno a farlo, visto che sarebbe uno sforzo inutile perché ci mancano molte conoscenze (gli usi ed i costumi, oltre che le leggende, i riti ed il passato di un paese a noi così distante) che ci consentano di inscatolarlo come vorremmo, in un qualcosa di “certo” e di rassicurante (e non è sicuramente un male lasciarsi trasportare una volta tanto solo dal pensiero e dalla fantasia).
Per tornare a questa sua ultima fatica e provare a rendere più chiaro il concetto, sarebbe sufficiente infatti soffermarci su una scena, o per meglio dire, sull’immagine  lunghissima e quasi insostenibile allo sguardo, del fiume, immobile e immutabile nel suo corso che “attraversa” il film: lì la “trasformazione” (se così la vogliamo definire) è a vista, e si avverte non nel movimento che non c’è, ma proprio nella fissità più o meno totale della cinepresa, che sembra identificarsi quasi nella fissità dell’occhio di chi osserva (quello dello spettatore) perché è proprio da questa staticità visiva che si avverte a un certo punto come uno scarto, quasi un subbuglio, che ci porta a considerare che qualcosa forse si è mosso, o che si è percepito come movimento inconscio di una impercettibilissima “variazione visiva” che probabilmente non c’è nemmeno stata:  ci rendiamo conto insomma che stiamo ancora vedendo la stessa, inamovibile immagine, ma che è proprio in tale fissità che molto si è modificato invece nel nostro immaginario nell’intervallo di tempo trascorso  da quando si è iniziato a guardare l’immagine a quando si finisce (ancora Simone Emiliani), esattamente come se quasi magicamente, la nostra retina avesse trattenuto e trasferito nel cervello qualcosa delle immagini che avevamo percepito in precedenza, ed è un qualcosa di così inquietante che resta e quasi si travasa persino in quelle che vedremo dopo, proprio come se subissimo un sorprendente choc che potremmo definire simile a un cortocircuito del pensiero, un processo straordinario che va ben oltre la  più o meno mutevole durata  di una inquadratura fissa, attraverso il quale il regista prova ad alterare progressivamente (e a mio avviso ci riesce benissimo)  ogni altro soggettivo livello percettivo dello spettatore con la suggestione dello sguardo. (…)
Un’altra sfida dunque e per più di una ragione, che tenta di fornirci un qualcosa che è soprattutto una percezione “sensoriale” (perché è poi questo l’aspetto che viene sempre privilegiato dal cinema di Apichatpong Weerasethakul), che probabilmente non raggiunge la coinvolgente intensità della sua precedente opera, ma sufficiente comunque al regista per riproporci ancora e sempre, tutte le matrici (anche di un genere come l’horror qui perfettamente sublimato) di un cinema davvero molto speciale come quello thailandese che vorremmo imparare a conoscere meglio e più a fondo, e che probabilmente trova in lui la sua massima espressine artistica proprio in quel provare a mostrarci (mai in maniera del tutto scoperta) le figure spettrali che si agitano nella mente (e nelle tradizioni) di una terra a noi lontana e sconosciuta, per trasformarle in entità quasi reali e farle diventare presenze inquiete che convivono con gli umani (e forse ne condizionano l’esistenza) che sono così fortemente e “consistentemente carnali” pur nella la loro quasi impalpabile presenza, da risultare eterne ed immutabili nel tempo (nel senso che si percepiscono come preesistenti nella storia e nelle leggende di quel paese, figure che al momento sembrano persino impossibili da debellare o semplicemente da “sospendere” e che per questo resteranno ancora a lungo a condizionare vite ed esistenze, immutabili proprio per il  loro essere una emanazione tramandata di memorie condivise).
Difficile allora persino raccontare (per quel che sembra voler essere) la storia effettiva di una pellicola dove Apichatpong Weerasethakul e la sua truppe tornano a ripercorrere i sentieri – seguendone le tracce – di una storia  (Ecstasy Garden) che lo stesso cineasta aveva concepito e scritto per un altro film, e dove forse e già dal titolo si avverte – proprio come avviene spesso nella sua opera – la predisposizione a far vedere altro oltre ciò che si rappresenta, almeno a chi è capace di sondare e scoprire nel profondo quello che le immagini sembrano voler nascondere e camuffare in superficie per oltrepassare così – o per meglio dire ancora “travalicare” -  non solo il senso di quel film, ma anche degli spazi scenici,  precisi e documentati – e come tali reali - in cui l’opera è ambientata. E’ ancora Emiliani a illuminarci al riguardo quando scrive che in Apichatpong Weerasethakul il cinema – o meglio la sua macchina da presa - rivela soltanto l’illusione di una realtà che è evanescente e come tale, sfuggente ai più.
Tutto è dunque anche qui molto al di là di ciò che ci sta passando davanti sullo schermo, ben oltre quell’albergo affacciato sul largo e lento fiume Mekong in Thailandia al confine col Laos, ricordato nei titoli di coda come "Sam Oar Guest House.": cos’è dunque veramente il Mekong Hotel? una realistica presenza come l’ospedale di Syndromes at a Century o è una casa abitata da fantasmi , o addirittura e solo una “illusione sensoriale”? Domande che rimangono senza risposte, partendo però dal concetto che anche qui la reincarnazione è un tema molto importante e centrale per il regista, tanto che gli spiriti del passato spaventosamente soprannaturali nella loro essenza fantasmatica, diventano di nuovo una materia realisticamente corporea, oltre che residui immaginariamente irreali ma ancora percepiti nel presente come verità inoppugnabili dalla memoria individuale della gente di quel paese, due differenti dimensioni che si intrecciano fra loro inestricabilmente con una rete infinita di rimandi e di sollecitazioni tutte percettive. (…)
Questa volta il regista ci ha  calati dentro un universo quasi circolare dove nulla comincia e nulla arriva ad una conclusione  davvero definitiva, e che contiene al suo interno tantissimi elementi anche simbolici da  interpretare (oltre l’acqua magmatica di quel fiume che si snoda tortuoso fra la Thailandia e il Laos, qui abbiamo a che fare con una madre-vampiro, la sua figliola, e una giovane coppia di amanti, ma non ci è dato di sapere - o di comprendere davvero - se anche queste figure sono fantasmi ectoplasmatici di persone morte molti secoli prima, che popolano però ancora attivamente quel luogo e lo “contaminano”, se li dobbiamo considerare insomma come inquietanti proiezioni risorte all’improvviso dalle tragedie del passato, o se al contrario sono soltanto fittizie  presenze materializzate da una macchina da presa tanto creativa che, nell’estensione della durata quasi “spasmodica” di inquadrature che sembrano davvero “interminabili”, alla fine ce le fa avvertire come presenze che in realtà non ci sono, né sono state mostrate per davvero (probabilmente solo “suggerite”), ma che lo spettatore crede di aver visto per l’illusione ottica di una suggestione che vive e prende forma attraverso le impalpabili sembianze disegnate sul telone bianco finchè rimane attiva la luce del proiettore che ce le rimanda come angoscianti presenze del reale ma che si dissolvono e si frantumano quando si spenge il riflettore.
Gli elementi ricorrenti del cinema di questo anomalo artista (nascita/morte/rinascita; acqua/sangue/rigogliosa presenza di una natura incontaminata e minacciosa) sono dunque tutti qui, di nuovo  presenti e “fondamentali”,  perfettamente scanditi, quasi distillati alla vista di “chi vuol vedere” (o riesce a farlo) e si lascia affascinare dalle suggestioni, perché non è solo lo sguardo questa volta ad essere inebriato: in Mekong Hotel un ruolo preponderante ce l’ha anche il suono invasivamente persistente di una chitarra che rende altrettanto ripetitivamente interminabili i suoi suggestivi accordi di accompagnamento musicale, che partono da una terrazza (all’inizio del film) e si stemperano poi fino quasi a “smarrirsi” dentro a una atmosfera decadente dove ciò che è filmato (e mi scuso se mi ripeto un poco) serve a fissare le inquietanti zone d’ombra piene di allarmanti, ancestrali segreti, un qualcosa insomma che da un momento all’altro la mano crudele di un sprovveduta presunta civiltà in espansione e distruttivamente irreversibile che lascia ampio spazio alle tragedie che si pretende di definire naturali (che è poi l’opera imbecille del genere umano a renderle tanto terribili quanto ineluttabili) può decidere di far scomparire definitivamente da un momento all’altro in un territorio troppo fragile e vulnerabile come quello (il film è stato girato proprio nel periodo in cui la Thailandia  è stata martoriata una devastante inondazione).
Ma questo è ovviamente solo un lato della medaglia (che riguarda l’aspetto quasi antropologico di conoscenza divulgativa che tutti possono e devono riconoscere ai lavori di questo immaginifico creatore di “eventi artistici”)  perché il vero valore aggiunto, il piccolo miracolo che si produce, è che poi alla fine anche lo spettatore meno avveduto avverte (e spero apprezzi) la spaccatura evidente che si crea durante la visione fra quello che probabilmente era il “più semplicistico” progetto di partenza (la storia nuda e cruda) e il risultato finale che il film riesce invece a veicolare con la sua capacità di “reinventarsi” e rinascere  in differenti forme proprio nel corso della divulgazione pratica delle immagini, così da diventare soprattutto un magma cangiantemente sfuggente e in costante evoluzione, che si divide e si moltiplica a piacimento, assume prospettive e valenze differenti a seconda del punto di vista di chi osserva fino quasi a sfaldarsi completamente nel finale, un qualcosa insomma che diventa davvero e in tutti i sensi un cinema che non va solo atteso, ma vissuto fino in fondo con tutti i sensi insieme, mettendo cioè in movimento l’intero nostro “immaginario percettivo”, quasi che si trattasse di un oggetto che cerchiamo di “trattenere” e di fare nostro, ma che si sta demolendo nel suo stesso mostrarsi perchè anche la stessa pellicola è matericamente soggetta a un inevitabile logorio, e quindi da apprezzare per la sua provvisorietà simile a quella dei fantasmi (forse) solo evocati (Simone Emiliani spero che non me ne vorrà se ricorro ancora a lui per tentare di rendere più esplicito il mio discorso). Non sempre si riesce a compierlo questo processo “identificativo” e ne devo dare atto: è tutt’altro che facile infatti lasciarsi “tramortire” dalle sensazioni forti che si celano dietro quelle conturbanti sequenze fissate im una inamovibilità  persino un po’ deconcentrante , ma all’occorrenza ci si può provare a farlo e se si riesce a raggiungere davvero quel grado di astrazione che ci fa volare tanto in alto, persino oltre il senso concreto delle cose, vi assicuro che se ne esce fuori sicuramente disturbati e scossi, ma appagati, e con qualcosa in più proprio per quel che riguarda il nostro personale bagaglio empatico delle emozioni”.

Playlist film

Tropical Malady

  • Drammatico
  • Thailandia, Francia, Italia, Germania
  • durata 115'

Titolo originale Sud pralad

Regia di Apichatpong Weerasethakul

Con Sakda Kaewbuadee, Banlop Lomnoi

Tropical Malady

In teoria la storia di un amore omosessuale che lega  un giovane soldato, Keng,  al contadino Tong, ma nella pratica del risultato, un misterioso, affascinante sconosciuto “oggetto”  pieno di ermetismi, visivamente magnetico ma di difficile lettura, che nella seconda parte si trasforma in una indecifrabile quanto suggestiva avventura nella giungla tropicale, dove anche il mito può diventare realtà, e le leggende prendere vita. Un film insomma dove davvero, come scrive il Morandini, nel buio della foresta, cioè nella natura, i rumori, le vibrazioni sonore contano molto di più delle immagini che ci  sposta su un livello antinarrativo, quasi sciamanico, affidato al montaggio onirico e creativo di Jacopo Quadri.

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

  • Fantasy
  • Spagna, Thailandia, Germania, Gran Bretagna, Francia
  • durata 114'

Titolo originale Lung Boonmee Raluek Chat

Regia di Apichatpong Weerasethakul

Con Thanapat Saisaymar, Jenjira Pongpas, Sakda Kaewbuadee, Natthakarn Aphaiwonk

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

In streaming su Chili

vedi tutti

Uno struggente racconto (e un percorso) di riconciliazione con il passato e le anime dei morti che ci hanno preceduto, esteticamente affascinante a partire dalla forma, ma è  anche una meditazione  su un paese silente come la Thailandia (la sua storia e i suoi costumi)  che trasforma l’antropologia in  creazione artistica. E’ soprattutto  una personalissima rivisitazione di vicende familiari fatta incrociando la tradizione orale dei racconti con la mitologia arcaica delle leggende di quella terra, ma intrecciando il tutto con i sentimenti e i desideri ancestrali di serenità che nascono  dalla trasmissione diretta di memorie tramandate che hanno radici profonde nell’immaginario collettivo che rievoca e ricorda antichi episodi di “abusi di potere” . Il film in fondo è allora un racconto “semplice”, si potrebbe dire, ma così denso di rimandi ad altre storie e ad altre vite, che si trasforma di conseguenza in una vicenda tutt’altro che lineare,  traboccante di elementi raccolti in un  complesso “viaggio esperienziale” che  ricompone e amalgama una concatenazione di eventi, per farli diventare il luogo di approdo del cammino (ma anche  quello di una  ripartenza, come ci insegnano tutte le teorie sulla  reincarnazione).

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Mekong Hotel

  • Documentario
  • Thailandia
  • durata 61'

Titolo originale Mekong Hotel

Regia di Apichatpong Weerasethakul

Mekong Hotel

In streaming su MUBI

vedi tutti

“Le riflessioni sull’ambiente hanno la potenza del cinema verità, ma si sposano alla perfezione con una storia di fantasmi raccontata con la nonchalance tipica di questo regista. Attraverso una ricerca, mai stanca di nuove forme espressive e un approccio che punta a conciliare il mondo del reale con l’immaginario, Apichatpong Weerasethakul torna sui luoghi di un film mai realizzato (e mai abbandonato) e ripropone temi che gli sono cari al punto forse, di sfiorare l’autocelebrazione. Vincitore, tra il resto, di Filmmaker 2012 (FilmTv cartaceo).

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No
Ti è stata utile questa playlist? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati