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JACQUES TATI DIRECTEUR D’OBJECTS
di Marcello del Campo ultimo aggiornamento
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Marcello del Campo

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JACQUES TATI DIRECTEUR D’OBJECTS

Appartato come Robert Bresson ma da questo lontano per diversità di temi, Jacques Tati riprende e aggiorna la comicità di Buster Keaton dal quale eredita l’impaccio fisico e la goffaggine nei confronti degli oggetti della realtà che lo circonda. Come il pettine ingrandito nel dipinto Les Valeurs Personnelles o l’ambiguità di Ceci n’est pas une pipe di Magritte, Tati opera uno spostamento degli oggetti e una modificazione dello spazio, mettendone in luce l’illogicità e l’estraneità col semplice porsi in posizioni fisiche dei tutto anormali rispetto al presunto ordine del reale.
Uno dei caratteri dello stile di Tati è proprio questa facoltà di determinare la natura del personaggio dagli oggetti che lo circondano, con i quali viene a contatto, tanto che la sua goffaggine come parzialmente quella di Keaton, ma ancora più accentuata ed emblematica, nasce dall’incapacità di stabilire con le cose e con gli ambienti in cui si trova, un rapporto normale. La sua stessa presenza fisica crea una situazione anormale, provoca spesso una serie di fatti che si ripercuotono, a catena per germinazione spontanea sulla realtà circostante, modificandola o rilevandone la fragile struttura. (Gianni Rondolino.)
 Così, l’arte del mimo difende l’uomo dall’aggressività degli oggetti: la moderna tecnologia ne ha creati di spaventosi e incomprensibili. Tati, attonito, si adegua ad essi, piegando, torcendo, roteando il corpo, quasi adeguandolo alla realtà oggettuale come parte inanimata di questa.
Sembrerebbe una difesa passiva ma non lo è: Tati è invece attivo e lucido nel riflettere i mali della società industriale e i riti di massa.
Questa riflessione ci fa venire in mente quanto Walter Benjamin ha detto di Baudelaire:
Quanto maggiore è la parte dello choc nelle singole impressioni, quanto più la coscienza deve essere completamente all’erta nell’interesse della difesa degli stimoli… tanto più [egli] si è assunto il compito di parlare di chocs da qualunque parte provenissero, con la propria persona intellettuale e fisica.
Non tutti sono d’accordo sulla critica radicale di Tati nei confronti della contemporaneità, c’è chi la trova tollerante e benevola e riportano come prova l’affermazione del comico:
Il mio lavoro non è di criticare ma di portare un piccolo sorriso.
Oppure, mettendone in risalto l’atteggiamento rinunciatario, affermano:
Per la verità, rinunciato a un attivo ripensamento critico della realtà, l’autore non può che vedere se stesso confuso tra gli altri; magari un po’ più muto e impacciato, identificato da un’andatura rigida e burattinesca, irreale che ben ci ricorda il tragico girovagare solitario di Buster Keaton, dall’integrazione più completa del personaggio con il mondo che lo circonda. (Gianfranco Corbucci).
A dire il vero, oggi Tati è considerato un geniale autore, ma negli anni del cosiddetto ‘impegno’ non tutta la critica era d’accordo nel considerarlo tale. Tati era un cineasta contrario a fare cinema ideologicamente impegnato. La miopia dei critici non permetteva loro di cogliere quanto ‘rivoluzionario’ fosse il regista funambolo, ma dei suoi film non coglievano la critica alla società dei consumi, il dominio delle ‘cose’ sugli uomini.
Una critica che non eleggeva a paradiso terrestre ‘i vecchi tempi’, ma coinvolgeva anche il mondo umile consuetudinario: in Jour de fête del 1949, un postino di un paesello non riesce a comprendere il senso di ciò che gli si muove intorno. Si muove a scatti, allampanato, grottesco, parlando un linguaggio incomprensibile, su una bicicletta. Intorno a lui perdono il loro significato normale gli eventi e dalla festa germina l’assurdo e illogico mondo degli uomini e dei loro gesti.
Nelle Vacanze del signor Hulot e Mon oncle, Tati sviluppa questo senso di estraniamento all’habitat e agli usi; anche le nuove tecnologie sul funzionamento degli oggetti di una moderna cucina gli si rivoltano contro, come se lo spazio umano, contratto al minimo indispensabile, per vivere stando a stento in piedi, siano di impaccio al libero dinamismo del corpo umano, costretto ad adeguare la naturale mobilità entro strettoie e impedimenti insormontabili, a meno di una messa in atto di movimenti elastici di caricaturale flessibilità circense. Il risultato è solo apparentemente comico: le ‘cose’, in realtà, hanno serrato l’individuo in una camicia di forza.
Nei film successivi, Tati amplierà l’orizzonte all’ambiente esterno: la strada, il traffico, gli stand, il tempo libero della metropoli[1], senza rinunciare alla parsimonia della parola e all’esagitata segnaletica del gesto.
Erano tempi in cui la critica prevalente predicava la supremazia del messaggio.
Jacques Tati non era regista della parola. Il suo corpo parlava in vece di quella.
Ma non fu capito. 
Alle accuse di poujadismo, di nostalgia per il passato, di disprezzo per gli uomini [Jacques Tati est le meilleur directeur d’objects que je connaise. Il demandes plus à ses accessoires que à ses interpretes (“Cahiers du Cinéma”. N. 65, 1956), rispose Angelo Libertini (“Cinema Sessanta”. N. 140, 1981): “Tati non predica un ritorno al passato. È questo un punto sul quale è stato ampiamente frainteso. Tutte le sue preoccupazioni e la sua satira sono incentrate sul presente, perché è quello che richiede più il nostro impegno. L’antitesi che l’artista ha scelto per la sua denuncia della spersonalizzazione riguarda l’aspetto umano, i contatti umani, la libertà d’espressione che egli vede in pericolo nel passaggio, inevitabile, da un tipo di organizzazione sociale a un altro. Tati propone una soluzione positiva che modifichi la vita del mondo moderno e la indica… venti anni dopo la critica definirà questa posizione con nome di ecologista, ricerca di armonia tra l’uomo e l’ambiente.”.

[1] Per la realizzazione di Playtime, Tati costruì una vera e propria città ex novo, chiamata ‘Tativille’. Questa città “virtuale” non era fatta solo di fondali o teatri di posa, ma aveva fondamenta vere e proprie; furono costruiti palazzi in vetro, cemento e acciaio e alcune di queste strutture furono rese realmente abitabili nonché riscaldate; venne costruito addirittura un aeroporto simile a quello di Orly. Tati pagò cara la sua visionarietà sulla modernità degli ambienti e degli oggetti e, complice lo scarso successo al botteghino del film, la sua casa di produzione fallì miseramente, causando un anticipato abbandono del regista dal grande schermo. [kikisan]
 
 
 
 
 
 
 
 

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