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E la critica saluta Lietta Tornabuoni
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E la critica saluta Lietta Tornabuoni

Se ne è andata stanotte una delle voci critiche (femminili e non) più autorevoli in Italia: Lietta Tornabuoni.  Da "La Stampa": "E’ mancata questa notte al Policlinico di Roma la nostra collega e grande critico cinematografico de La Stampa Lietta Tornabuoni. Era stata ricoverata in ospedale poco prima di Natale, dopo che si era sentita male a una proiezione cinematografica, ma le sue condizioni non avevano mai destato preoccupazione fino a un improvviso aggravarsi ieri. 


Il suo vero nome era Giulietta, e avrebbe fra qualche mese compiuto ottant’anni: era infatti nata a Pisa il 24 marzo 1931 sotto il segno dell’Ariete da un’antica famiglia aristocratica, figlia di un militare e sorella di Lorenzo, noto pittore. Si era sposata giovanissima e trasferita a Roma, dove aveva intrapreso appena diciottenne la carriera giornalistica, che è stato sempre il suo vero grande amore. E' stata testimone dei fatti nazionali e internazionali più importanti degli ultimi cinquant’anni. Aveva cominciato la professione nel 1949 a «Noi Donne», il settimanale dell'Udi, passando nel 1956 a «Novella», poi all’«Espresso»e all’«Europeo».


Alla Stampa era arrivata nel 1970, dove ha continuato a lavorare fino a oggi, tranne un breve intervallo dal 1975 al 1978 al «Corriere della sera». Tra i suoi libri: «Sorelle d’Italia», «Album di famiglia della tv», «Era Cinecittà» e l’annuale appuntamento di «Al cinema», il volume che periodicamente raccoglieva le sue recensioni. Era critico cinematografico del nostro giornale dai primi Anni 90, aveva raccolto il testimone dal grande amico Stefano Reggiani: le sue recensioni asciutte e puntuali coglievano sempre il senso profondo dei film. Indimenticabili i suoi ritratti dei grandi del cinema che aveva conosciuto, come quello, tra gli ultimi, della grande sceneggiatrice Suso Cecchi d'Amico scomparsa in agosto."

Tra le ultime recensioni quella del film di Eastwood; l' "Espresso" pubblicherà nel prossimo numero la sua visione del film "Kill Me Please", mentre nel numero in edicola è presente quella relativa a "Vallanzasca"

Playlist film

Kill Me Please

  • Commedia
  • Francia, Belgio
  • durata 95'

Titolo originale Kill Me Please

Regia di Olias Barco

Con Saul Rubinek, Benoît Poelvoorde, Aurélien Recoing, Virginie Efira, Bouli Lanners

Kill Me Please

In streaming su Rakuten TV

Eutanasia Pulp Tra i monti del Belgio, in un luogo appartato, il dottor Kruger gestisce una clinica privata che offre un’eutanasia assistita a individui affetti da malattie incurabili o, semplicemente, stanchi di vivere. Durante il loro breve periodo di permanenza, i pazienti vengono dapprima dissuasi dal porre fine ai propri giorni e, nel caso ribadiscano la scelta iniziale, posti nella condizione di compierla con dignità. L’intolleranza degli abitanti del villaggio vicino sfocia nell’aggressione compiuta da alcuni facinorosi: quando una delle aule della struttura d’improvviso brucia, portando alla distruzione delle provviste, cominciano i guai. Opera seconda del francese Olias Barco, espatriato a Bruxelles per realizzarla, “Kill Me Please” affronta l’argomento rimosso per eccellenza della nostra epoca, la morte. Era successo già in vari altri titoli, da “Harold e Maude” (1971) a “Non è mai troppo tardi” (2008): la differenza, in questo film premiato al Festival di Roma, sta nel tono, a metà fra il Marco Ferreri degli esordi e i Monty Python più urticanti. Il film parte su un registro di humour nero (la sfilata di personaggi, dal depresso con l’ossessione del Vietnam alla soprano con un cancro alla gola) per poi virare verso il pulp, verso registri in cui la morte non è certo “dolce”.  Girato in un bianco e nero sgranato, vivificato da ottimi attori, “Kill Me Please” è una pellicola ricca di riflessioni per nulla banali: l’ossessione per la dipartita “inscenata” - c’è chi si congeda facendo sesso, chi cantando la “Marsigliese”, chi in una posa plastica - speculare a un’esistenza trasformata in una recita narcisistica. Tutti alla ricerca di un pubblico, anche per l’ultimo spettacolo: anche chi siede in platea, complice agghiacciato e divertito. Voyeur, suo malgrado.

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Vallanzasca. Gli angeli del male

  • Biografico
  • Italia, Francia, Romania
  • durata 125'

Regia di Michele Placido

Con Kim Rossi Stuart, Filippo Timi, Valeria Solarino, Paz Vega, Moritz Bleibtreu

Vallanzasca. Gli angeli del male

In streaming su Plex

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Non è nuova, l’operazione fatta da Michele Placido con il suo “Vallanzasca - Gli angeli del male”: ad evocare le gesta di noti criminali, c’erano già stati Florestano Vancini (“La banda Casaroli”,1962) e Carlo Lizzani (nel ’66 col Luciano Lutring di “Svegliati e uccidi”, nel ’68 con la banda Cavallero di “Banditi a Milano”). Si trattava di film debitori al noir francese, capaci di delineare ritratti d’ambiente e figure convincenti senza rinunciare a scene d’azione. Tra le pellicole citate e l’oggi c’è stato però, negli anni Settanta, il fenomeno del poliziesco italiano: spiccio nei modi, semplificato nelle psicologie, estremamente crudele (ma capace di produrre gioiellini come certi titoli di Fernando Di Leo). Placido si è incamminato su queste strade firmando un’opera tutta ritmo e frenesia, scandita dal basso continuo delle morti, dal crepitio degli spari, dalla fisicità della violenza.  Fedele all’antico detto di John Ford, («Se la leggenda diventa realtà, stampa la leggenda»), Placido ha stampato la leggenda, enfatizzando il lato avventuroso del protagonista, la sua fama di sciupafemmine e il codice d’onore cui si sarebbe attenuto. Ne risulta un poliziesco di gran professionalità: forse meno azzeccato di “Romanzo popolare”, ma non privo di finezze antropologiche. Basti vedere quando, nel carcere, Vallanzasca mostra all’allibito ex compagno di scorrerie Francis Turatello le lettere, le poesie sdilinquite oppure oscene che riceve dalle donne ogni giorno, concludendo con sarcasmo: «Sai, sono le perversioni della casalinga italiana media».
Kim Rossi Stuart, nei panni del “bel René”, è magnifico nell’evidenziare ombre e ossessioni del personaggio, arrivando a ricalcare persino la parlata milanese dell’epoca. Filippo Timi, gregario strafatto e incline al tradimento, fornisce ancora una volta una prova superlativa.

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Hereafter

  • Drammatico
  • USA
  • durata 129'

Titolo originale Hereafter

Regia di Clint Eastwood

Con Matt Damon, Bryce Dallas Howard, Richard Kind, Jay Mohr, Jenifer Lewis

Hereafter

In streaming su Now TV

vedi tutti

Questo Clint è da non perdere 

"Hereafter", nell'aldilà. Pattina su ghiaccio sottile, stavolta, Clint Eastwood. È vero che il suo cinema ha avuto sempre a che fare con le tenebre: da certe figure di pistoleri o di ruvidi poliziotti, sino a quel senso di lutto, d'ineluttabilità proprio dei suoi film più recenti. Ma mai il regista s'è spinto nella zona ipotetica che segue il trapasso. Lo fa ora, raccontando tre storie che - come già è stato fatto di recente in altre pellicole, da "Babel" a "Crash" - fanno incontrare, nel finale, i tre diversi protagonisti. 

A Parigi, una giornalista scampata per miracolo allo tsunami del 2004 in Indonesia, vede sconvolte le proprie certezze di laica; a San Francisco, un giovane operaio che ha un tempo ricavato danaro dalle proprie doti di rabdomante del passato, vorrebbe solo esser normale; a Londra, un ragazzino che ha perso il fratello gemello in un incidente, desidera a ogni costo entrare in contatto con lui. Il regista non sposa nessuna tesi e si concentra su dettagli, visi, luce; suggerisce la possibilità di immagini prodotte dalla coscienza che si spegne, ma non va oltre. Sottolinea che l'aldilà è terreno di caccia per ciarlatani, invita a vivere la vita che abbiamo.
Eastwood mostra tutta la propria maestria nelle trame laterali. Come l'incontro, in una scuola di cucina, tra il sensitivo e una ragazza delusa in amore. Si piacciono, stanno bene assieme. Poi la ragazza, apprese le doti di lui, vuole metterlo alla prova: e viene alla luce un segreto straziante di lei. Lei se ne va ferita, promette che si rivedranno. Ma il dolore la spezza, si accascia piangente, poi si rialza, piano. Come in un racconto di Raymond Carver, nulla sarà più come prima.


Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

La dolce vita

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 178'

Regia di Federico Fellini

Con Marcello Mastroianni, Anita Ekberg, Anouk Aimée, Yvonne Furneaux, Magali Noël

La dolce vita

In streaming su Plex

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Il primo a celebrare La dolce vita, film bellissimo e famosissimo che ora compie cinquant’anni, è stato Federico Fellini, l’autore. Nel suo Intervista (1987) Marcello Mastroianni, vestito e truccato da Mandrake, con la bacchetta magica tocca un lenzuolo steso e comanda: «Bacchetta di Mandrake/il mio ordine è immediato/fai tornare i bei tempi del passato»: così sullo schermo precario riappare la stupenda scena madre, l’attore e Anita Ekberg, la musica irresistibile di Nino Rota, Fontana di Trevi, l’acqua trasparente e la grande bellezza bionda che vi si immerge: «Marcello... Marcello, come here!».

A Milano, la sera della prima al cinema Capitol, 5 febbraio 1960, succede un parapiglia: l’elegante pubblico di invitati accompagna il film con fischi, proteste, casino crescente, urla di «Basta! Schifo! Vergogna!». All’uscita uno grida a Mastroianni «Vigliacco, vagabondo, comunista», un altro sputa addosso al regista. 

Ma il successo del film è poi enorme, sorprendente: anche se Rossellini è rimasto scontento e i cineasti in genere sono contrari, La dolce vita ha il primato degli incassi in Europa (in Olanda viene censurato, con tagli alla sequenza pre-finale dell’orgia e a quella della seduta spiritica alla festa dei nobili); anche se gli attacchi del quotidiano vaticano L’Osservatore Romano sono furibondi e i sostenitori gesuiti del film passano guai seri; anche se il produttore Angelo Rizzoli rivendica l’opportunità della sua inapplicata idea, colorare di rosa le scene di sogno perché il pubblico possa riconoscerle con sicurezza. 

Oltre le polemiche, restano nel vocabolario italiano «paparazzi», ossia fotografi, e «dolcevita», un tipo di pullover.A Roma, da marzo a settembre 1959 (Fellini ha 38 anni, i suoi sceneggiatori sono Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Brunello Rondi), non si parlava che de La dolce vita: si fa, non si fa, quale produttore ha il coraggio di farlo? E’ vero che prendono un divo americano, che ci saranno orge, travestiti, prostitute, fotografi, un balenottero che fa innamorare di sé una minorenne, Celentano-rock, sei principesse romane, Maurice Chevalier, Lili Palmer?

Ma davvero il titolo porta male? La lavorazione del film, specie a Fontana di Trevi, con la forza di una calamita attirava le folle del dopocena e del dopo teatro, che restavano per ore immobili nell’umidità notturna, a guardare. Le fotografie della lavorazione, su tutti i giornali, stimolavano ogni curiosità. Il critico Tullio Kezich diventava l’esemplare cronista del film: il suo bellissimo diario ripubblicato ora da Sellerio in una edizione arricchita e completata, Noi che abbiamo fattoLa dolce vita, è la fonte migliore di ogni informazione e ha la caratteristica di raccontare (molto bene) la verità, il che succede raramente quando si parla di una leggenda.

La dolce vita risulterà alla fine simile a un viaggio con tante tappe del protagonista, un giornalista di mondanità e pettegolezzi in movimento nella cosiddetta café society, nel carnevale perenne che nasconde un vuoto drammatico. Dura tre ore. All’inizio (primo ciak, 16 marzo 1959) una statua di Cristo Lavoratore volteggia nel cielo, i piloti dell’elicottero che la trasportano a San Pietro si abbassano per salutare le ragazze. Si passa in un locale notturno: ballerini asiatici, insulti a Mastroianni, poi l’attore uscendo segue Anouk Aimée, una giovane donna elegante. Caricano in auto una prostituta, vanno a casa di lei dove fanno l’amore. Tornando nella propria casa, Marcello trova l’amante avvelenata dai barbiturici, la porta all’ospedale, la cura. L’indomani il giornalista assiste all’arrivo della star Anita Ekberg, alla relativa conferenza stampa, alla visita in abito e cappello talare alla cupola di San Pietro; la accompagna in un locale notturno dove Celentano e la sua band suonano rock, è testimone di una sua danza e di un suo litigio col marito, la accompagna a Fontana di Trevi dove lei entra nell’acqua. 

Un altro giorno Marcello vede in chiesa, intento a suonare l’organo, il suo amico Steiner, che più tardi ucciderà i propri figli bambini e si ucciderà. In campagna, vicino a Roma, in mezzo alla grande folla della credulità popolare aspetta l’apparizione della Madonna a due bambini bugiardi. Riceve poi tra molti rimorsi una visita del padre. Partecipa a una festa di nobili nel castello di Bassano di Sutri. Litiga con l’amante. Assiste a Fregene a un’orgia con spogliarello della padrona di casa Nadia Gray al ritmo di «Patricia». 

All’alba esce sulla spiaggia dove è stato portato in secco un misterioso, grosso, gelatinoso pesce bianco; saluta con commozione una ragazzina.Per la sua carica liberatoria, la sua assenza di moralismo, la sua struttura narrativa, il suo splendore figurativo, la sua linea antimetafisica, La dolce vita è nel cinema una rivoluzione. Sembrava che, dopo, non si potessero più fare i film consueti. 

Non è andata così: come càpita a tutti i maestri davvero grandi, il regista non ha allievi, non ha fatto scuola. Solo, non c’è più, come tanti altri. Sono morti Marcello Mastroianni, Laura Betti, Nino Rota, la bellissima Nico Otzak. E’ morto Fellini al Policlinico di Roma, il 31 ottobre 1993. Da La dolce vita è passato mezzo secolo.

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni

  • Commedia
  • USA, Spagna
  • durata 98'

Titolo originale You Will Meet a Tall Dark Stranger

Regia di Woody Allen

Con Naomi Watts, Anthony Hopkins, Josh Brolin, Antonio Banderas, Freida Pinto, Anna Friel

Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni

IN TV Sky Cinema Romance

canale 307 vedi tutti

Woody Incontra Buddha

Come un Buddha sereno, dall'alto dell'età e dell'esperienza Woody Allen guarda donne e uomini quasi fossero formiche frenetiche che sul terreno s'incontrano, si scontrano, si incrociano, si mettono in fila, senza alcun motivo: e meno male che il carattere non cattivo gli fa preferire la benevolenza al disprezzo. Il tema di fondo del suo nuovo film, "Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni" è l'illusione, succedaneo della speranza, che aiuta i personaggi-formiche a sopravvivere: "A volte le illusioni funzionano meglio delle medicine". 

Film brillante, arricchito da un'aria leggermente antiquata, da musiche dolci, dal chiarore grigioperla di Londra. Eleganza. Manhattan spostata sul Tamigi. Attori ammirevoli. Anthony Hopkins, finalmente bravo in un periodo per lui molto poco felice, è un uomo anziano deciso a sconfiggere la vecchiaia e la morte: lascia la moglie coetanea, si risposa con una giovane puttana esibizionista e traditrice, va a correre, va in palestra, prende il Viagra, guida una decappottabile, veste sempre di bianco o di colori pastello. Sua moglie Gemma Jones s'affida all'alcol, alla chiromante, all'incontro con un vedovo bibliofilo quasi pazzo. La loro figlia Naomi Watts s'interessa troppo al proprietario della galleria d'arte in cui lavora, Antonio Banderas. Il marito di lei Josh Brolin è attanagliato dall'ansia: dopo un primo romanzo di successo s'è bloccato, il nuovo libro gli viene rifiutato, l'unica soluzione per non confessarsi fallito a se stesso e agli altri sta nel compiere un'azione indegna per la quale verrà forse punito. Altri personaggi circondano questo quartetto sconclusionato: nessuno ottiene quanto desidera, tutti si consolano con l'illusione che ci riusciranno. Prima o poi.

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Noi credevamo

  • Storico
  • Italia, Francia
  • durata 170'

Regia di Mario Martone

Con Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Luca Zingaretti, Luca Barbareschi, Toni Servillo

Noi credevamo

La meglio gioventù 

Opera piena di energia, di ardita gente giovane, di ragazzi rivoltosi; e insieme storia di una sconfitta, film tragico. "Noi credevamo" (il titolo è di Anna Banti) di Mario Martone, realizzato per la Rai nel molto celebrato centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, arriva a compiere un'impresa molto difficile, intellettualmente onesta: raccontare il Risorgimento senza esaltazioni d'occasione ma per quanto fu per i protagonisti: una delusione profonda. Ancora oggi resistono i conflitti mai superati di allora: conflitto tra Nord e Sud del Paese, tra conservatorismo autoritario e democrazia libertaria, tra padronato e proletariato. La fine del potere temporale dei papi e la nascita della Repubblica, unici sostanziosi mutamenti istituzionali, hanno preteso molto tempo e restano imperfetti. Il lavoro culturale compiuto da Martone è daIl film, basato su tre personaggi e diviso in quattro periodi, parlato in molti dialetti e diverse lingue, mutilato di circa mezz'ora rispetto alla versione originale, di stile ineguale, non ha nulla di scolastico né di esaustivo (mancano gli austriaci e l'Austria, mancano il 1848 e il 1860 delle Cinque Giornate di Milano e dell'impresa dei Mille). Analizza il 1828 -1834 della carboneria meridionale; il 1852-1855 degli anni di detenzione subìti dai patrioti; il 1856-1858 degli attentati dinamitardi a Parigi; l'alba della Nazione. Non mancano gli opportunisti voltagabbana Francesco Crispi e Antonio Gallenga (Luca Zingaretti, Luca Barbareschi). Giuseppe Mazzini, consumato dal fuoco della politica, interpretato da Toni Servillo in una versione quasi terroristica, dopo il lungo esilio morì clandestino in patria nel 1872, a Pisa, sotto lo pseudonimo di dottor Brown.vvero ammirevole.

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Il responsabile delle risorse umane

  • Drammatico
  • Israele, Germania, Francia
  • durata 103'

Titolo originale The Human Resources Manager

Regia di Eran Riklis

Con Mark Ivanir, Gila Almagor, Reymond Amsalem, Guri Alfi, Rosina Kambus, Noah Silver

Il responsabile delle risorse umane

In streaming su Rai Play

Dolore Senza Frontiere

Parlato in ebraico, inglese e rumeno, un film israeliano del tutto fuori del comune, calmo e malinconico, di sapore locale e insieme internazionale, sempre sul confine del grottesco senza mai oltrepassarlo, recitato benissimo. Il protagonista, "Il responsabile delle risorse umane" di un panificio industriale governato da una vedova suscettibile, viene incaricato di rimediare a un guaio d'immagine: una donna è morta in un attentato a Gerusalemme, nessun sa chi sia, da giorni è abbandonata all'obitorio; in assenza di documenti c'è solo il cedolino della paga del panificio, e un giornalista denuncia la mancanza d'umanità dell'azienda. Comincia così un viaggio tra Israele e Mitteleuropa: confuso, dolente e ridicolo. 

Per salvarsi la faccia, il panificio intende pagare funerale e sepoltura, ma come capita nella vita tutto si rivela difficile: nessuno può autorizzare l'inumazione (il marito della donna è divorziato, il figlio è minorenne, la madre è in Romania), la defunta era un'immigrata clandestina in Israele. A volte in furgone, a volte issata su un carro armato, la bara percorre infiniti chilometri, sino a una falsa soluzione: la donna viene sepolta nel suo villaggio rurale in Romania ma, dice sua madre, è un errore, a quel paese era del tutto estranea. Intanto il responsabile delle risorse umane, a contatto con gente diversa, con altri Paesi e con differente dolore, è cambiato; e gli spettatori si sono resi conto di cosa voglia dire cosmopolitismo dei poveri. L'aneddoto (con molte variazioni) è tratto dal romanzo di Abraham B.Yehoshua (Einaudi): ma la qualità del regista Riklis ("Il giardino di limoni") e del film sta soprattutto nel tono, nello scoramento rassegnato che l'esistenza impone ai personaggi. 

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