I personaggi di Danny Boyle corrono, sempre. Anche quando sono fermi a massacrarsi vicendevolmente tra amici dentro un appartamento, sembra che corrano. Hanno quella luce negli occhi che si può ammirare nei ralenty dei centometristi, ripresi in impietose inquadrature frontali mentre sbuffano e tirano i nervi allo spasimo, mentre fissano la linea del traguardo. Linea immaginaria, sempre più lontana di quanto si desideri ma talmente vicina in realtà da cogliere di sorpresa quando la si attraversa vittoriosi. Vitali e protesi verso il futuro, così sono i suoi personaggi. Costantemente attirati dalla possibilità di una svolta, un sorpasso, un passo avanti al rivale, uno sgambetto innocente che li favorisca e li conduca alla fonte di quella luce che si riflette nei loro occhi. Così è Trainspotting, una folle corsa ad anello verso l’autodistruzione semplicemente per vedere l’effetto che fa la vita, una volta che non c’è più, mentre la luce che si dilata nelle pupille di Spud, Sick Boy e Tommy può generarsi anche da il più lercio buco sulla terra, un cesso: “il più sporco della Scozia”. Ciò che rende speciali i film di Boyle è il coraggio di questi protagonisti, pronti a gettarsi a capofitto nelle situazioni più improbabili per coronare il sogno di vita che li muove. Mai un tentennamento, una riflessione a scopo precauzionale. La corsa e la luce, queste due cose e gli occhi che ne scandiscono i tempi. L’identificazione è sempre totale perché non si ha mai il tempo di concedersi una razionale disamina delle cause che muovono i personaggi disposti casualmente su scacchiere mobili irte di ostacoli, usciti da una bizzarria della realtà che di tanto in tanto si mette a giocare, come gli dei della Grecia Classica, con i destini dei piccoli umani. Boyle realizza sogni, nei quali si comincia a cadere senza una causa precisa e non si conosce il fondo fino a che non si è svegli e la parola fine campeggia sullo schermo, solo allora ci si rende conto di avere corso, e tanto, e che il traguardo era tre, quattro falcate più indietro. Andare oltre le proprie aspettative; cose che si devono fare, nonostante tutto; la necessità che diventa virtù; l’occasione di una vita che diventa malattia; la passione è il carburante che muove le gambe a mulinello tra le strade di Edimburgo prima di essere investiti da un’auto o a Londra in fuga da umani trasmutati in mostri o ancora nello spazio verso quel sole che brucia gli occhi ma che regala la trascendenza della verità più remota; il buttarsi qualsiasi cosa succeda in qualsiasi schifoso buco nero, tutto questo è metafora di una intensa e mai soffocata necessità di vita. E di cinema. Latrine, di Trainspotting si è già detto, ma di Slumdog Millionaire no. La latrina sta diventando una caratteristica
fondamentale del cinema di Boyle, simbolo di qualcosa da cui riemergere, diversi, più forti. Il piccolo personaggio di Slumdog Millionaire che si butta nella latrina piena di merda con in mano la foto del suo eroe cinematografico è la scena madre di un film straordinario, costruito a strati di piani temporali, flashback su flashback a caricare la storia all’indietro come una rincorsa di uno scatto che si presume, sarà potentissimo. Passione e coraggio, solo lui, il bambino-merda grazie al suo coraggio potrà avere il privilegio di ricevere, tra tutta la folla, un autografo che ne segnerà il destino. Tempo. Nei film di Boyle, la corsa è scandita dal tempo. Poiché il tempo è qualcosa che prima o poi finisce, essendo una misura inventata dall’uomo, allora bisogna affrettarsi, accorciare la pista e avvicinare quella linea del traguardo per beffare il tempo e vincere. Bisogna buttarsi nel sole per riaccenderlo prima che sia troppo tardi, correre verso il sacrificio supremo confortati dalle vite future che brilleranno nella sua nuova luce prima che il tempo inventato dall’uomo condanni la Terra al suo tragico destino. Sunshine è il capriccio di un Dio sublime come starter.
Bisogna rispondere alle domande in Slumdog Millionaire prima che il tempo finisca perché il destino non ha riguardo per nessuno, impegnato com’è a scandire le vite di tutti e il fottere il tempo, fare in modo che la sincronia di destini diversi determini il nostro, è prerogativa di chi ha corso per tutta la vita per ottenere ciò che desidera di più al mondo: l’amore. E ancora soldi in Millions, il tempo condiziona la vita dei due ragazzini che devono spendere il denaro trovato per caso prima che la scadenza fissata dall’uomo non renda quei soldi carta straccia, prima che il futuro finisca. Ed è così poco il tempo che separa l’infezione dalla manifestazione della follia che la corsa diventa elemento narrativo, caratteristica di sceneggiatura, 28 giorni dopo è l’esasperazione della poetica boyleiana. Nel montaggio frenetico e nella fotografia satura e virata nella dominante verde, fredda di morte, la corsa è calore ed energia, esigenza di vita. La corsa di Boyle, nel suo cinema o meglio, tutto il suo cinema è un urlo contro l’ottusità delle regole sociali, precostituite e mai a misura d’uomo ma solo e limitatamente a misura della maggior parte degli uomini, cosa che esclude gli esseri speciali, quelli che nella percezione della vita che sfugge, rincorrendo quella luce che si riflette nei loro occhi come manifestazione fisica del futuro, trovano la forza per correre cercando di starle dietro, qualsiasi sia l’esito finale poiché è nella corsa che si realizza l’intimo sogno di Danny Boyle: l’utopia dell’uomo libero.
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