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Alice nelle città

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Alice nelle città

di ed wood
9 stelle

Questo film merita l’appellativo paradossale di “classico del cinema moderno”. Infatti, da una parte costituisce un caposaldo della cosiddetta modernità cinematografica, ossia quell’estetica del filmare aperta, episodica, sdrammatizzata e anti-narrativa suggerita da alcuni autori italiani a partire dai tardi anni 40 (Rossellini, Antonioni) e messa in atto radicalmente e sistematicamente da tutta una serie di nuove leve, in giro per il mondo (dalla Francia al Brasile, dal Giappone alla Cecoslovacchia) nei primi anni 60; dall’altra, tuttavia, questo di Wenders è un film talmente nitido e risoluto nel distendere il suo tappeto tematico che, a differenza di tante “imperfette” opere moderne, può contare su quella chiarezza di intenti propria del cinema classico. E’ curioso (e un pochino sconfortante) constatare come lo stesso Wenders sarebbe stato, nei decenni successivi, fautore di un cinema spesso prolisso e ridondante, agghindato di futili orpelli poetici per coprire quella che è stata (e continua ad essere, vista la sua valenza profetica) una delle grandi conquiste della cinematografia contemporanea: la riflessione sul rapporto fra realtà e rappresentazione (filmica, fotografica, scritta). Un tema trattato da tanti autori, ma nessuno con la sagacia e l’acume di Wenders. Sagacia ed acume che, sfortunatamente, si accompagnano ad una leggerezza di sguardo solamente in alcune sue opere, specialmente quelle dei primi anni 70. In “Alice nelle città” c’è tutto ciò che Wenders aveva di dire e avrebbe detto nelle sue (troppe) opere successive, nonostante certa critica lo faccia passare per eclettico ed ambizioso. In realtà, il messaggio che si rinviene, chiaro ed evidente, in questo capolavoro “on the road”, si ritrova anche nel “Cielo sopra Berlino”: basta togliere quelli orpelli di cui si diceva poco sopra. E il messaggio è un sereno, ma pregnante invito a vivere attivamente la vita, anziché limitarsi a contemplarla (scattando inutili fotografie o commentando dal cielo gli affanni umani). Prima di incontrare Alice, Winter era morto dentro. Era emotivamente fermo, privo di identità in un mondo che non cambiava mai, ingessato in una moltitudine di immagini (fotografiche, ma anche televisive) che cristallizzavano il senso dell’esistenza e impedivano ogni sviluppo. Sarà l’incontro con l’anima pura, ma non ingenua, anzi intelligente e curiosa, di Alice a far rinascere Winter: per mezzo del rapporto umano, dell’esperienza, del movimento, del viaggio verso una meta (non importa se introvabile, men che meno con una foto: la casa della nonna), Winter abbandonerà la macchina fotografica e avrà finalmente una storia da raccontare. La sua. Winter riacquista un’identità ed una Storia: torna ad esistere. E ciò è causa/effetto del cambiamento del mondo circostante, che finalmente si muove, torna a vivere, torna a significare. La stessa cosa che accade all’angelo Bruno Ganz nel “Cielo sopra Berlino” (ma con quanta retorica in più!). La critica considera Wenders uno dei predicatori della “morte del cinema”, ma a me pare che in questo suo film sia la fotografia semmai ad essere dichiarata morta, o meglio mortifera, con la sua staticità e la sua incapacità di farsi strumento di comprensione della realtà e dei suoi cambiamenti. Il cinema, viceversa, col suo movimento (carrelli, panoramiche, soggettive) permette di uscire dall’empasse e di abbracciare il cambiamento, favorire l’esperienza, immettere carburante alle esistenze. Parallelamente, Wenders pare condannare gli USA al ruolo di sterile società mediatica, nata morta, mentre ripone ancora fiducia in uno sguardo europeo forse (all’epoca) non ancora del tutto corrotto, non ancora globalizzato, non ancora schiavo dell’immagine livellatrice.

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