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Bianca

Regia di Nanni Moretti vedi scheda film

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La recensione su Bianca

di Aquilant
8 stelle

Insegnante ideale per un tipo di scuola che non deve “formare” ma “informare”. Conoscitore del linguaggio delle piante, pervaso da fisime esistenziali, irrequieto, possessivo, irascibile, invadente, collezionista di ossessioni, paranoie, fobie, fissazioni, turbe psichiche, al di fuori di qualsiasi schema logico. Catalizzatore degli eventi che si susseguono davanti ai suoi occhi, destinato ad incarnare la solitudine dell’individuo racchiuso in un ambiente refrattario ad ogni tipo di contatto umano, con una caratteristica di imprevedibilità nelle sue azioni quotidiane che mirano a volgere la solitudine tipica dell’uomo moderno in una sorta di spaesamento senza frontiere. Sempre pronto a sparare a zero al grido di “continuiamo così, facciamoci del male!” contro l’ottusità borghese e contro coloro che si accontentano di vivacchiare in sordina, all’oscuro di tutte le potenzialità che la sopravvivenza è in grado di offrire (Sachertorte compresa). Mina vagante votata ad un’attenta osservazione dell’inquieta ed anonima umanità circostante, sorta di redivivo Jeff Jefferies immobilizzato non da una gamba rotta ma da un cervello bacato, con la sua Lisa tramutata in Bianca (senza perdere granché nel cambio). Indigesta presenza in malinconiche spiagge popolate di idilli estivi da condividere a proprio rischio e pericolo ed in squallidi laghetti metropolitani dove neppure la lettura di Proust riesce a strapparlo all’indifferenza generale. Avviato non ad uno scalo a Grado ma ad una vera e propria reclusione forzata in un’isola svuotata di calore umano che riecheggia stereotipi di un’esistenza votata alla solita recita di un quotidiano mestiere di vivere dove l’individuo è costretto a reggersi in un equilibrio delicato, alla maniera di un Mont Blanc, coadiuvato da una implacabile voglia di delicatezze sotto forma di Sachertorte e di barattoloni di Nutella, panacee momentanee contro i momenti di naufragio nel tormentato mare della sopravvivenza (e guai a chi “gli scava sotto e gli toglie la panna”). Condannato a vivere da protagonista scandendo ogni momento della vicenda con un’imprevedibilità di umore accompagnata da tocchi grotteschi ed irrorata da una spruzzatina di grandguignolesco nel monologo finale. Questo in breve il ritratto di Michele Apicella, protagonista di una pellicola dallo svolgimento ondivago, costituita da sequenze brevi e nervose talvolta lasciate decantare a mezz’aria, dominata dalla volontà di mettere a punto una scrittura alternativa agli stereotipi della tradizionale commedia all’italiana tramite una serie di sequenze in successione che non sempre concedono pieno sviluppo all’azione ma che talvolta si richiudono in sé stesse lasciando trapelare delle involuzioni narrative con una conseguente disarmonia e col venir meno di quell’organicità semantica che costituisce la base della cinematografia tradizionale. Ma forse questo è uno dei motivi per cui il cinema morettiano tende ad avvolgersi di una patina di mistero che perdura anche dopo ripetute visioni della sua opera. La macchina da presa con inquadrature fisse è letteralmente incollata al protagonista nella sua tragicomica peregrinazione in un mondo privo di fermenti, cosparso di una malsana aria di riflusso. Quello che emerge è di conseguenza un deciso apologo contro ogni tipo di convenzione borghese, contro ogni facile conformismo e falso moralismo. Un desiderio di sentimenti profondi e duraturi in grado di sfociare in un atto di coerenza individuale che non sia tale soltanto a parole.

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