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Distretto 13: le brigate della morte

Regia di John Carpenter vedi scheda film

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La recensione su Distretto 13: le brigate della morte

di Dom Cobb
10 stelle

Un classico del genere western. No, non è uno sbaglio, perchè "Distretto 13" è uno degli omaggi più dichiarati di Carpenter al genere cinematografico americano per antonomasia. Al suo secondo film dopo "Dark Star", Carpenter infarcisce l'opera con quelle che saranno da sempre le linee guida del suo cinema, le sue "ossessioni d'autore". Girato a basso budget e con un cast composto da attori amici e/o vicini di casa del regista, "Distretto 13" deve innanzitutto il suo retaggio al cinema (western) di Howard Hawks ed, in particolare, ad uno dei suoi classici: "Un Dollaro d'Onore", con John Wayne e Dean Martin. Carpenter, infatti, è sempre stato un appassionato di storie aventi una "trama alla rovescia", dove, cioè, i protagonisti, per salvarsi, devono fuoriuscire da un luogo pericoloso: nel caso del film di Hawks l'ufficio dello sceriffo, per Carpenter si tratta del distretto di polizia di un quartiere di L.A.. Insomma, Carpenter riprende le basi del film di Hawks riproponendole in salsa poliziesco-urbana. Tutto nasce quando il 13° Distretto viene chiuso, perchè la criminalità del quartiere dove è dislocato è diventata ingestibile (una situazione ormai ben poco "cinematografica"); al suo interno sono presenti il Tenente Bishop (Austin Stoker), comandante del distretto solo per quell'ultimo giorno, un paio di segretarie, tra cui l'atttrice Laurie Zimmer ed un paio di detenuti, giunti con un furgone cellulare al distretto, di cui uno dei due è il famigerato Napoleone Wilson (Darwin Joston). Wilson è un criminale conosciuto per la sua ferocia e destinato alla camera a gas, ma dotato di una certa dose di personalità che lo rende quasi simpatico. Durante il film appare quasi indolente al suo destino o al suo passato criminale, come se la violenza fosse parte integrante del proprio DNA. Carpenter, con il personaggio di Napoleone, sembra voglia fare le "prove generali" per quelli che saranno gli eroi (o anti-eroi) dei suoi film successivi: uomini al di fuori della legge ma "tutti d'un pezzo", perchè dotati di un proprio codice etico che li rende eroici. Insomma, Napoleone Wilson, come Jena Plissken, è il reietto di turno che si dimostra essere l'uomo giusto nel posto giusto. Wilson ottiene il rispetto del Tenente Bishop (che, uscendo dal distretto, lo accompagnerà al furgone cellulare alla fine del film) e tra lui ed il personaggio di Laurie Zimmer nasce un feeling "impossibile". Carpenter dimostra di essere un grande regista, perchè quando scatta il momento di difendersi contro le "brigate della morte", non perde tempo con inutili filosofismi retorici sul fatto che il Tenente Bishop dia le armi anche ai detenuti (compreso il pericolosissimo Wilson), ma lascia la parola alle sparatorie, all'azione e alla tensione. Il quartiere di Anderson, dove il film è ambientato ("Los Angeles Ghetto" riporta una scritta che appare all'inizio del film) sembra una zona di guerra, dove vige la legge del più forte, l'anarchia. Le "brigate della morte" (ma nel film vengono identificate come "Gang Voodoo") vengono mostrate come una presenza costante e mortale per le strade del quartiere: delle ombre che si muovono nella notte, sbucando all'improvviso dal buio pronte ad assalire in massa il 13° Distretto, aprendosi un varco tra le porte e le finestre come gli zombie di Romero. All'interno della gang sono giusto un paio i volti che spiccano: il "capo", vestito alla Che Guevara (che ricorda, nel look, un altro cattivo carpenteriano: il Cuervo Jones di "Fuga Da Los Angeles") ed il teppista che uccide la bambina (una scena che è un pugno nello stomaco per lo spettatore), interpretato dall'attore Frank Doubleday, che in "Fuga Da N.Y." sarebbe portato in un altro ruolo iconico, quello di Romero, il braccio destro del Duca. Risulta tesa e riuscita tutta la parte dove i membri della gang "firmano" il loro patto di sangue, pronti a vendicare i compagni morti durante un raid della Polizia, per poi andarsene in giro in auto a puntare con il mitra gli ignari passanti, fino ad arrivare al famigerato furgoncino dei gelati. Le musiche sono firmate dallo stesso Carpenter, che predilige delle sonorità elettroniche cupe e minimaliste; unica eccezione è il pezzo cantato da Kenny Lynch "You Can't Fight It", che apre e chiude un film memorabile, secco, "frontale", privo di orpelli, così lucido e allo stesso tempo visionario nello sprofondare nelle tenebre e nella violenza più sordida. Un "survival movie" dove la distanza tra "buoni" e "cattivi" viene azzerata, in quanto uniti per sopravvivere. Un film cupo e claustrofobico. Un Carpenter magistrale. 

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