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Le mani sulla città

Regia di Francesco Rosi vedi scheda film

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La recensione su Le mani sulla città

di Texano98
9 stelle

"La borghesia, con il costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, si è impadronita in modo esclusivo del potere politico nel moderno Stato rappresentativo. L’attuale potere politico dello Stato moderno non è altro se non una giunta amministrativa degli affari comuni di tutta la classe borghese."

Queste parole di Marx, più che mai attuali, sembrano essere il punto di riferimento per Rosi nella costruzione di questo film. Ciò che egli mostra è una popolazione costretta in case fatiscenti, perennemente in bilico fra costruzioni dalla dubbia solidità; il potere politico è mandante di diverse esigenze finanziarie, acquistando col voto del popolo il potere di influenzare la vita dei suoi sottoposti. La classe dei lavoratori viene lasciata vegetare nel suo piccolo ruolo produttivo e consumistico, messa su un piedistallo in un'unica occasione: quando è tempo di elezioni e bisogna ricordargli chi è che ha fatto di più per loro. Tragedia: un condominio in demolizione crolla all'improvviso, rendendo incapace di camminare un bambino e indignando la popolazione del posto. Tale avvenimento mobilita la coscienza della massa, che rischia di produrre un effetto imprevedibile sull'esito delle elezioni, la cosa più grave che potesse accadere. Allora ecco che Rosi sposta il suo sguardo dietro le quinte del consiglio comunale, dove si incontrano politici e uomini d'affari per scardinare la realtà grazie al proprio potere e tornare a condurre la gente nella direzione voluta. La scena più amara del film è forse quella in cui i cittadini vengono sfollati dalle loro case con un movente fittizio, e additati da un consigliere comunale vengono accusati di essere loro stessi la causa del proprio male, continuando a dare il voto a quelle forze conservatrici che ne hanno oppresso i diritti. A dire il vero, in alcuni momenti la retorica del suddetto politico (palesemente del PCI) risulta un po' inverosimile, soprattutto quando nel privato continua a parlare con lo stesso tono e la stessa morale con cui interpella i lavoratori; nobile, l'ideale di ogni politico, ma inverosimile addirittura per gli anni del boom economico. La dura realtà viene quindi in parte creata dagli stessi cittadini, che virtualmente collocano i rispettivi rappresentanti dentro il comune, dando vita a maggioranze che si autoconservano e che partoriscono sempre lo stesso assetto: una ragnatela di accordi per permettere a chi detiene il capitale di allargare il proprio impero, allungando quelle metaforiche mani sulla città stritolandola, muovendo costruzioni e persone come tante pedine senza alcun nome. La minoranza, come sempre, ha solamente la capacità di esprimere un monito, ricordando che le persone, i tanti, stanno acquisendo maggiore consapevolezza. Questo cinque anni prima del sessantotto e a quindici dal rapimento Moro, che simbolicamente mise fine a questo periodo di lotte, ormai lontane e vanificate. Purtroppo guardare questo film a cinquant'anni di distanza mette una certa amarezza, perché si fa strada la consapevolezza che queste mani sulla città sono più sottili e inafferrabili che mai. Il potere ha trovato sponde in tutti i rappresentanti che il popolo abbia avuto la forza di eleggere, continuando ad agire sempre più indisturbato. Forse, la cosa più mostruosa innestata dal film, è far pensare che la perdita di gambe d'un ragazzino sarebbe oggi vista come uno scherzo, davanti alla quale è troppo anche provare indignazione; nel mondo del dolore l'asticella per ciò è alzata sempre più in alto.

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