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Gli spietati

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Gli spietati

di montelaura
10 stelle

Con quest’opera, Clint Eastwood non raggiunge soltanto la vetta del proprio cinema western (a voler essere relativistici), ma approda soprattutto alla tappa finale del genere: l’evoluzione del mitico West in disillusione della Frontiera cominciata con Leone e proseguita per Peckinpah e Siegel, raggiunge con Eastwood la sua conclusione ideale. Questo Western, anziano, crepuscolare, autunnale, lento come i suoi personaggi e i suoi paesaggi, è l’ultimo dei Western: non ci si aspetta di vederne più, dopo. La parabola del mito è giunta alla sua desolante conclusione con uno stile puro, semplice ed elegante quanto la sua trama e i suoi protagonisti.
Non vi sono più eroi, in questo West invecchiato di Eastwood. I protagonisti sono due anziani agricoltori, ex delinquenti dal passato oscuro e violento, e un giovane mezzo orbo, spacconcello e ansioso di ‘darsi da fare’. A ingaggiarli sono un branco di prostitute assetate di vendetta e senso di rivincita che (obiettivamente) ingigantiscono un ‘incidente sul lavoro’, portate all’esasperazione da un mondo squallido e maschilista per cui la dignità di una donna vale quanto un cavallo, se non meno.
Il vero ‘buono’ della storia dovrebbe essere Little Bill, lo sceriffo di Big Whiskey interpretato dall’impressionante Gene Hackman. Dopotutto il suo personaggio è il tutore della legge, che ‘dirige il traffico’ con mano ferma e saggia. Le sue azioni sono forse un po’ tiranniche ma non appaiono mai eccessivamente crudeli; le persone su cui infierisce sono, in definitiva, dei delinquenti, dei sedicenti bounty killer (strepitoso cammeo di Richard Harris nel ruolo del gradasso Bob l’Inglese). E’, tutto sommato, un uomo mediocre, che pensa con scrupolo al proprio lavoro, impegnato a costruirsi (male) una casa con veranda, e attorniato da vice che lo rispettano.
Paradossalmente, è proprio LUI a diventare il ‘cattivo’ della storia. I nostri tre aspiranti killer (i due vecchi amici Eastwood e Freeman e il giovane e nevrotico Jaimz Woolvet) diventano dei simpatici vendicatori per cui finiamo inesorabilmente per tifare.
Com’è possibile tutto ciò?
Eastwood semplicemente demitizza il west, presentandoci dei bounty killer con delle debolezze tutte umane, alle prese con la senilità e i problemi economici, senza più il sangue freddo di una volta, ma soprattutto con tanti, tantissimi scrupoli. Sono persone spinte ad ammazzare per necessità, una necessità imposta da una Frontiera che non è più sinonimo di sparatorie epiche e tesori favolosi (come viene rappresentato nei libretti pamphlettistici dello scrittorucolo al seguito di Richard Harris) ma che si è rivelata essere ciò che è: squallore della sopravvivenza.
L’assassinio non vuol più dire ‘non avere nemici vivi’, non vuol più dire farsi un gruzzolo e vivere felici. Improvvisamente, ammazzare significa “privare un essere umano di tutto ciò che ha e che potrebbe mai avere”.
Ma soprattutto, Eastwood ci pone davanti all’innegabile evidenza dei fatti: non esiste il cambiamento, non esiste la redenzione. Il suo William Munny s’illudeva d’essere diventato “un uomo normale”, ma in realtà è rimasto lo stesso assassino in cerca di prede di sempre. Con l’unica differenza che forse ora riesce a controllarsi, forse ora riesce a capire che la morte non porta alla soluzione dei problemi, ma comunque sempre, inesorabilmente ‘costretto ad uccidere’.
Quando gli ammazzano impunemente (l’unico assassinio effettivamente ingiusto di tutto il film) l’amico Morgan Freeman, Munny piglia la bottiglia e ricomincia a bere dopo anni e anni di astinenza (ma non si ubriaca: Eastwood non è in cerca di nessun tipo di assoluzione), e decide di tornare indietro a vendicarlo. In nome dell’amicizia? Può essere, ma il risultato è comunque un’empia carneficina che ci lascia esterrefatti ma anche incredibilmente soddisfatti.
William Munny è tornato.
Il mito del West è definitivamente morto.

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