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L'armata Brancaleone

Regia di Mario Monicelli vedi scheda film

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La recensione su L'armata Brancaleone

di Decks
9 stelle

L'impegno scenografico e la divertentissima narrazione di un viaggio nell'Italia alto Medievale, fatto di divertimento, teatralità e audacia compongono un film indimenticabile. Un cavaliere e un armata lontani dagli stereotipi che non accennano a invecchiare rendendolo una pietra miliare del cinema italiano e del cinema internazionale.

Siamo nel 1966: ad Hollywood le pellicole cavalleresche si sprecano e salvo Orson Welles e Laurence Olivier entrambi più legati ad un'ottica teatrale e shakesperiana del medioevo, tutto il resto non era altro che l'ennesimo racconto di battaglie eroiche, regali dimore e nobili cavalieri. Ma ecco che in lontananza si sente un grido! Riecheggia dal Lazio, dalla Toscana per risalire viuzze e rimbalzando su muri, porticati (e soprattutto cartelloni) di tutta l'Italia. "BRANCA BRANCA BRANCA! LEON LEON LEON!" . Ed eccolo! Il 7 Aprile 1966 esce nelle sale "L'Armata Brancaleone" del maestro Mario Monicelli dando una sonora batosta a tutti quei ritratti medioevali statunitensi mostrando il Medioevo per ciò che era realmente e con una profondità, che solo uno come Monicelli ed i suoi collaboratori Age e Scarpelli potevano saper dare.

 

Il paragone col cinema fantasy o storico hollywoodiano è obbligatorio, dato che tutt'oggi pochi o quasi nessun regista hanno saputo discostarsi da quell'ideale pomposo ed epico del millennio passato (basti guardare i vari "King Arthur"...). Monicelli invece realizza il Medioevo che la faceva da padrone e non quello all'interno delle varie reggie di Caserta e Versailles, ma il mondo esterno: un luogo di straccioni, disperati ed appestati buttati in mezzo a fede, carne, eros e morte. Questo era il vero XI° secolo, un'epoca buia e piena d'ignoranti, crudele se guardiamo la prima sequenza in cui viene brutalmente sterminato un villaggetto e soprattutto reale vedendo lo scontro di spade tra il nostro eroe e Teofilatto in cui non vi è alcuna coreografia, ma armature e spade pesanti che non permettevano le acrobazie a cui ci hanno abituato i noti (ed irreali) film d'azione.

Alle brutture Monicelli accompagna un aspetto tragicomico che brilla e diverte attraverso le numerose peripezie del suo Brancaleone da Norcia, un guerriero straccione dotato di una indiscussa nobiltà d'animo; un novello Don Chisciotte che sembra uscito direttamente dai testi letterari a cui Monicelli ha fatto riferimento. Difatti, se dobbiamo descrivere con un aggettivo le avventure di Brancaleone, esso sarebbe senz'altro picaresco, dato il suo folle (e allo stesso tempo inutile) nobile cuore simile al personaggio di Chervantes, riprendendo anche la comicità di Rabelais e la ruralità di Calvino.

 

 

Altro colpo di genio è il linguaggio aulico conferito a quest'opera, ricercatissimo grazie a vari studi su San Francesco e Jacopone da Todi aggiungendovi qualche sfumatura dialettale. Non solo riesce nell'impresa di creare vocaboli a volte così astrusi da far scompisciare dal ridere:

 

"Oh, gioveni! Quando vi dico "sequitemi miei pugnaci", dovete sequire et pugnare! Poche fotte! Se no qui stiamo a prenderci per le natiche"

 

ma è anche utilissimo in termini cinematografici per dare l'impressione di lontananza storica e render così ancora più suggestivo il prodotto finito: un plauso dunque a Monicelli, Age e Scarpelli che hanno saputo creare quasi un linguaggio nuovo così apprezzato che ancora oggi alcuni estimatori ne fanno uso corrente per espressione colloquiale.

Il merito però non va tutto ad una perfetta sceneggiatura quanto anche ad un Vittorio Gassman strepitoso il quale sembra essere nato apposta per questo protagonista e lo fa totalmente suo grazie ad un'interpretazione teatrale e volutamente sopra le righe, merito di una voce squillante e profonda che ci fa quasi da accompagnatrice narrante nelle sue "superbe" imprese; Gassman che riguardo al suo personaggio ebbe a dire:

"[...] una specie di samurai che ormai tutti conoscono e che è stato, credo, il personaggio che mi ha dato più popolarità". Non sbaglia nel riconoscerne la buona fattura, ma non dimentichiamoci pure del resto del cast: Enrico Maria Salerno in un fanatico predicatore che conquista folle di disagiati a suon di paroloni e promesse paradisiache, un Carlo Pisacane che sembra esser un lontanissimo parente del suo corrispettivo in "I Soliti Ignoti", la bella Catherine Spaak e Gian Maria Volonté nel suo risibile cavaliere bizantino che più volte gareggia con Gassman per bravura, come nella scena dell'impalamento:

 

B. "Sempre viveste da foemine, cercate lo meno di morire da omeni."

T. "E lo chiami morire da ommeni questo?"

 

Tutti grottescamente divertenti, ma in grado di far riflettere più volte e persino di emozionare come ci dimostra la fine del buon Abacuc, in cui Monicelli inscena un bellissimo dialogo indiretto con la morte (ben più diretto lo sarà nel secondo capitolo), un aldilà preferibile ai dolori della vita terrena, poi chi se ne importa, come dice il buon vecchio Branca "se andrai al paradiso di noi cristianucci, o quello della gente tua".

 

 

Altro gran risultato sono i costumi di Piero Gherardi, storico collaboratore di Fellini, qui dà spazio a tutta la sua bravura nel confezionare abiti molto attinenti al secolo medievale, tutti coloratissimi, variegati e spiccatamente teatrali, un lavorone che non va senza dubbio dimenticato, unito alla già citata e giocosa colonna sonora di Carlo Rustichelli più un bel lavoro nelle illustrazioni datoci da Enrico Luzzati che non disdegna neppure qui il suo stile, ma anzi, è molto utile a sottolineare la fattura di provenienza di questo bellissimo prodotto, cioè la nostra Tuscia... Ehm volevo dire Italia!

 

Magari a molti storici può far storcere il naso a causa di alcuni anacronismi; ma sono certo che persino i compianti Jacques Le Goff e Umberto Eco hanno apprezzato l'impegno scenografico e la divertentissima narrazione di un viaggio nell'Italia alto Medievale, fatta di divertimento, teatralità e audacia nel volerci raccontare un cavaliere lontano dai soliti stereotipi, ma proprio per questo, più vicino alla vera concezione di paladino.

"L'Armata Brancaleone" non accenna a invecchiare e non a caso, il termine è entrato di forza nei vocabolari italiani per definire un'accozzaglia di pezzenti confusi riuniti volontariamente, perché esso, oltre a essere uno dei capolavori del cinema italiano è anche un film indimenticabile.

 

P.S. Si meriterebbe il voto massimo, ma per motivi personali sono convinto che il buon Mario abbia saputo far di meglio col secondo capitolo.

 

Bene la recensione è conclusa e per dirla con le parole del pavido Brancaleone da Norcia:

"Bene, miei duri, bando agli scoramenti. Fora i petti, dritte l'armi, alte le insegne, baldanza!" 

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