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Alien: Covenant

Regia di Ridley Scott vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Alien: Covenant

di Byrne
6 stelle

ALIEN : COVENANT

 

Nel 1979, quando diede inizio alla saga di Alien, Ridley Scott attraversava un periodo di ispirazione mai più eguagliato; aveva Giger, Rambaldi, Goldsmith, 'O Bannon e un cast che andava tranquillamente bene per Shakespeare. Troppo da replicare ma anche tanto di cui far tesoro, questa la consapevolezza di fondo che ha reso il canone di quattro film, usciti nell'arco di quasi venti anni e su carta tutti molto simili, uno dei più inossidabili e sorprendenti di sempre. Cameron, Fincher, Jeunet, ognuno con un piede ben saldo nella lunga ombra gotico-espressionista del capostipite e l'altro su strade inesplorate. Vestire via via di action, di misticismo e di grottesco uno stesso infallibile modello (“un perfetto organismo..”). Fra i tratti immutabili il design biomeccanico del pittore svizzero Hans Ruedi Giger e l'incontrastato protagonismo femminile della Ripley di Sigourney Weaver, ma anche qualcosa di più sottile che a lei fa capo direttamente: siccome la base resta un fantahorror dal banale intreccio slasher, la saga cerca (e trova sempre) nuova linfa dove non ci si aspetterebbe di trovarla, nel character design; Ripley è fondamentale non tanto in sé quanto perché la sua presenza familiare ci guida di mondo in mondo, come una chiave emozionale che agisce in almeno due sensi; sul versante horror innamorarsi con lei dei personaggi in scena significa sentire visceralmente la loro morte, parcellizzare il suo impatto sullo spettatore e mascherare l'effetto deja-vu; ma ancor più importante, sentirli vicini significa accettare con meno difficoltà le loro connotazioni specifiche, il “nuovo”, il tono del film. Per colmo di camaleontismo e di empatia, Ripley cambia con loro: Aliens-Marines-Ripley guerriera; Alien3-detenuti convertiti alla fede-Ripley “monaco” rapata a zero; La Clonazione-mutanti e androidi-Ripley semiumana e clonata. Non che sia una novità (un piede nell'ombra..). Alien, il primo, con la scusa di guasti al motore e misteriose richieste di aiuto, intanto si prendeva una quarantina buona di minuti per presentare a dovere l'equipaggio della Nostromo. Non ci si copre gli occhi per la morte di una comparsa.

Alien:Covenant prosegue il discorso di Prometheus (2012), che pur inscrivendosi nello stesso universo rivendicava una precisa autonomi, e malgrado alcune (furbe e superficiali) affinità aveva poco a che fare con la (corale) quadrilogia e invece tantissimo con la ricerca personale del regista Ridley Scott. Appaiati, i due film tirano le somme di un'intera carriera, sia sul piano tematico (il doppio ne I Duellanti, il divino e la creazione fra Blade Runner e Exodus, la fascinazione un po' facile per la classicità del Gladiatore) che stilistico (la tensione claustrofobica di Alien, l'azione frastornante di Black Hawk Down, la grandeur “leaniana” de Le Crociate e così via). Minacciato come il suo predecessore dal pericolo di sovraccarico di una simile mole di spunti, Covenant ci aggiunge l'intenzione stavolta molto più decisa di apparentarsi alle atmosfere presentate nel '79; mentre non molto tempo fa gli sviluppatori ribadivano di voler percorrere altre strade. Colpa della ricezione non entusiastica di Prometheus - “solo” 400 milioni di incasso a fronte di un budget di 130 e discontinua accoglienza da parte di critica e pubblico? Probabile. In ogni caso c'è proprio tutto: nome in locandina, mostri, violenza splatter. Per un buon film di Alien manca solo Scott, disposto sì a scendere a patti con la necessità basilare di girare un fantahorror che ricalchi l'intreccio del primo capitolo, ma non ad anteporre al proprio discorso la formula vincente della saga. Interessato com'è soltanto alla parabola “prometeica” del David 8 di Michael Fassbender, il regista inglese tralascia completamente di avvicinare allo spettatore i personaggi umani, così che tifare per loro diventa un'impresa disperata. Più che dimenticarsene lo fa programmaticamente, proprio come in Prometheus. Prova ne siano le protagoniste femminili di entrambi i film, cloni di Ripley che soddisfino il gusto nostalgico del pubblico nell'ottica della produzione, in quella del regista strumento migliore per disinnescarne le aspettative; quindi appena sbozzate, più anonime possibile, fino allo snodo addirittura sadico che emerge a tre quarti di Covenant.

Non che sia tutto da buttare, intendiamoci. Regia e comparto tecnico sono una garanzia, due o tre scene di tensione funzionano alla grande (il piccolo capolavoro di videoart ottantina che è quella ambientata nelle docce merita una menzione a se'); ma dell'artista che Ridley Scott sa (ancora) essere mostra solo il formidabile mestiere, con quel surplus di disinteresse e risentimento che gli impedisce di svilupparsi serenamente in una sola direzione. Il cuore di Sir Ridley batte per David e la sua sfida a Dio, ma per riuscire così centrale questo cyber-Lawrence d'Arabia avrebbe bisogno di ben altro che non un banale ruolo da mad doctor, unica nicchia ecologia disponibile per lui nel sistema Alien. Perfino il magnetico Ian Holm nei panni di Ash – di cui David è chiaramente l'erede, citandone anche il celebre monologo finale – avrebbe faticato a mantenere carisma dopo un'ora di delirio di onnipotenza. Forse liberare l'afflato mistico di Scott non avrebbe garantito un film migliore (Exodus..) ma così ne abbiamo uno spaccato in due, più godibile di Prometheus e insieme meno compatto. Stavolta è il “perfetto organismo” a fare da veste per qualcos'altro, qualcosa che non vede l'ora di scrollarselo di dosso. “Nello spazio nessuno può sentirti urlare”. Nemmeno tu.

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