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La battaglia dei sessi

Regia di Jonathan Dayton, Valerie Faris vedi scheda film

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La recensione su La battaglia dei sessi

di Ascasubi
7 stelle

Billie Jean King (Emma Stone) è una tennista, la migliore all'inizio degli anni 70. Il suo valore è misurato parimenti a un pugile: la sommatoria del montepremi conseguiti (total prize); invero quando il presidente Nixon la chiama per complimentarsi - nel film lo apprendiamo attraverso la radio - lo fa celebrando i suoi primi centomila dollari vinti. Centomila dollari, un bel marito e una vita forse diversa da quelle comuni, ma tuttavia non troppo distante dalla normalità. Non c’è nessun olimpo di semidei ad accoglierla e a mantenerla distante dal mondo reale, si sposta con un piccolo plotone di colleghe e con una spigolosa berlina di quegli anni, con loro divide amenità e soprattutto aspirazioni. Non è una questione di avidità perché i dollari misurano anche le differenze: il rapporto con le borse dei colleghi dell’altro sesso risulta umiliante, e nulla viene fatto per ridurre il divario, anzi, proprio all’indomani di una nuova vittoria della King, la stessa viene a sapere che la forbice si divaricherà ulteriormente.

Bobbie Riggs (Steve Carell) è un ex numero uno del tennis maschile che, forse per via di un carattere infantile, non ha perso il gusto della sfida. Pare muoversi faticosamente sul rettangolo di gioco, ma è solo un sapiente gioco della fotografia perché poi l’immagine si allarga: se si sposta con lentezza è perché tiene al guinzaglio un terzetto di grandi cani di razza, così, tanto per colmare un gap, sfida il suo facoltoso contendente. La sua vita è una scommessa, lo sport è un circo. Perciò, in un’America che pare colpita a schiaffi dagli slanci femministi di quegli anni, decide di sfidare la numero uno del tennis, che nel frattempo, assieme alle sue colleghe riottose, ha dato vita ad un circuito tennistico parallelo.

 

Una storia vera nell’infinito ripostiglio dei ricordi americani. La mascherata storica ci riporta negli anni 70, pluriaffrescati, plurisviscerati nelle loro problematiche. Vicende drammatiche o eroiche, o tutte e due insieme, come nel caso di questo film. Stante l’enorme mole filmica, televisiva e documentaria di quegli anni, non è difficile riprodurre la giusta atmosfera, ma ognuno la cesella a suo modo.

Sulle note del brano hippie Crimson and Clover, sul tappeto musicale fornito dal cambio di registro sonoro, Jean guarda una sua amica recentemente conosciuta, una parrucchiera e capisce non solo di esserne innamorata ma di dover dare un cambio alla sua vita anche in questo senso. Erano anni in cui si aprivano porte, nuovi sentieri che tuttavia non sempre venivano percorsi perché l’incomprensione e la disapprovazione erano sempre dietro l’angolo. La posta in gioco era alta, tutto diventa giocato su un filo: il rischio di essere percepiti come ribelli non per ragioni di giustizia e parità tra i sessi, ma solo in quanto omosessuale e nemica del genere opposto. Per questo Billie Jean cerca sempre di mantenersi sul binario della serietà, anche di fronte agli slanci clowneschi del rivale maschile. 

Steve Carell ha buon gioco ad interpretare questo bambinone e campione del passato dominato dal gusto delle sfide e delle scommesse che viene cacciato di casa da una moglie innamorata ma stanca e che trova rifugio nel piccolo appartamento del figlio maggiore, ma, opportunamente, non carica di troppa enfasi il suo personaggio. In effetti la maggior maestria del regista è quella di condurre il pubblico nel medesimo stato d’animo: si tifa per la ragazza, per la sua vicenda esistenziale finanche per il tennis femminile; si vede Bobbie come un rivale, ma non come un perfido nemico; si bocciano gli stereotipi e chi ne è portatore come chi vive ancora in un mondo dove uomo e donna sono posti su gradini differenti; si ha fiducia nel futuro, cioè nel presente. Il risultato è un buon affresco dove è tutto ben concepito, caratteristica delle cose che funzionano sempre ma che infondo emozionano poco.

 

 

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