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Vi presento Toni Erdmann

Regia di Maren Ade vedi scheda film

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La recensione su Vi presento Toni Erdmann

di Kurtisonic
6 stelle

Fare della propria vita una finta commedia surreale, basterà per sopravvivere? Più che qualche risata forzata Vi presento Toni Erdmann incupisce e fa riflettere sul tempo perduto. L’attualità corre troppo per essere fermata.

Peter Simonischek

Vi presento Toni Erdmann (2016): Peter Simonischek

Il nuovo cinema tedesco sembra avanzare a strappi. Nonostante il processo di riunificazione delle Germanie abbia occupato uno spazio di condivisione nell’immaginario comune con  quello onnipresente riguardante l’elaborazione dell’olocausto, sembra che la rappresentazione della società moderna non riesca a varcare i confini nazionali come se le tematiche presenti nel suo tessuto siano ancora embrioni da decifrare, mentre il cinema fatica più del previsto ad appropriarsene completamente. La lezione innovativa e acuta di R.W. Fassbinder non ha trovato almeno nel novero degli autori che frequentano i festival troppo seguito, dunque se il terzo film della giovane regista Maren Ade viene percepito come un’opera dissacrante e provocatoria ci sarebbe da guardare ad essa con una buona dose di curiosità. Un vecchio insegnante di musica in pensione, Winfried, cerca di ricostruire il suo rapporto con la figlia Ines, che inserita in un contesto di moderno e cinico management  si trova in Romania per una complessa operazione di lavoro. L’approccio comunicativo dell’uomo è basato su travestimenti, gags comiche di cattivo gusto e battute folgoranti, arriva anche ad assumere una falsa identità, quella di Toni Erdmann, una specie di mental coach per uomini d’affari. La regista inserisce una serie di bipolarità figurate che dovrebbero  indurci a ricreare al nostro interno quel ”mondo non scritto” che permetterà di dare un senso compiuto all’azione di Winfried e di avvalorarne l’autenticità sentimentale. I suoi tentativi appaiono maldestri, le sue sortite piuttosto grevi sono apparentemente e comprensibilmente mal accolte da Ines, alle prese con l’ingombrante presenza più fisica che di  vicinanza affettiva del padre. Lo strumento emotivo a sua disposizione dunque è lo scherzo, lo sberleffo con il quale il volenteroso Winfried smaschera lentamente il mondo spietato in cui Ines è immersa senza capire che è però il suo mondo, e anche qui si staglia il confronto con la vita ordinata e borghese della Germania con una Romania colonizzata da affarismi e innovazioni che ne stravolgono cultura e identità. La connotazione del film definito come una commedia, nonostante qualche passaggio piuttosto surreale è forse troppo indirizzata, più funzionale per accoglierne la matrice leggera  di facile accettazione senza evidenziare quel conflitto comunicativo che permea tutto il racconto a livelli diversi.  Mondi che non si parlano, che non si riconoscono, che se non si riesce a blandirne le aspirazioni entrano inesorabilmente in conflitto con i loro stessi metodi operativi, Ines è un ingranaggio, una risorsa al servizio di tutto ciò. Che siano  la semplificazione, la banalizzazione degli eventi per culminare con un paternalistico abbraccio, la chiave dei rapporti umani? Non credo, la storia ci offre diversificazioni e complessità che però il vecchio insegnante tra una grossolana, finta scoreggia e l’occhietto brillo sembra poter diluire.  Il dualismo affettivo e pseudo ideologico non sfiora per drammaticità precedenti illustri sulla disgregazione generazionale del lavoro visti in film quali Risorse umane (1999), e per l’uso del tono forzatamente surreale, quello al limite della demenzialità che dovrebbe sorprendere fino a produrre uno sconcerto reale, se pensiamo a Idioterne (1998) di Von Trier ci troveremmo nei risultati emotivamente e spiritualmente lontanissimi. Restano ben descritti i meccanismi e i rapporti che regolano corporation,  lobby di potere e di denaro nei quali la componente umana è considerata a livello zero se non produce performance e guadagni. Ines ne fa parte e ha una posizione rilevante, per quanto possa trovare un terreno di confronto con il padre eterno ribelle fuori tempo massimo saprà trarne qualche insegnamento? Piuttosto enigmatica ma significativa apparirà l’unica scena in cui la donna stringe sentitamente a sé il corpulento padre, con quest’ultimo travestito da scimmione peloso e col volto totalmente mascherato dal pelo. Denota forse il bisogno della presenza di un genitore col quale scambiare affetto ma che per poterlo fare egli dovrebbe allontanarsi da sé stesso,  cioè essere completamente diverso da come si pone.  Nella sua disperata solitudine e caparbietà Winfried resta un personaggio (visto dall’esterno) amabile e umanamente comprensibile, appartenente ad una razza sempre più rara, ma la sua azione destabilizzante rimane tutto sommato ai margini di quel mondo che vorrebbe vedere diversamente.    Resta l’impressione (e l’inquadratura finale è tutt’altro che riconciliante) che il film sia stato travolto da una “voglia di tenerezza” che sminuisce la costruzione di quei dualismi che mostra, ma che nella corposa lunghezza del racconto avrebbero meritato più spazio senza cadere per forza in un inevitabile effetto denuncia alla Dardenne contro modernità e globalizzazione.  

 

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