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La tenerezza

Regia di Gianni Amelio vedi scheda film

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Fabrizio Dividi

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La recensione su La tenerezza

di Fabrizio Dividi
8 stelle

La tenerezza è fondamentalmente un viaggio in se stessi guidato, come spesso capita nei film di Gianni Amelio, da un’ossessione conradiana attraverso stazioni allegoriche, dolorose ma evolutive. E in questo percorso si dipana l’ennesima, lucidissima, analisi entomologica di ciò che la famiglia è, e di come si manifesta...

La tenerezza è ciò che non hai mai detto. La sorpresa di avere ancora un cuore. La tenerezza, soprattutto, è nella sottile arte del racconto e nella sapienza dei movimenti di macchina da parte di un regista abituato a trattare le tematiche della famiglia con delicatezza rara.
La tenerezza è fondamentalmente un viaggio in se stessi guidato, come spesso capita nei film di Gianni Amelio, da un’ossessione conradiana attraverso stazioni allegoriche, dolorose ma evolutive. E in questo percorso si dipana l’ennesima, lucidissima, analisi entomologica di ciò che la famiglia è, e di come si manifesta, con i suoi rapporti di sostituzione affettiva tra padri, figli, nipoti e persone della porta accanto.
Un grande Renato Carpentieri inscena tutto ciò con una interpretazione empatica, per lunghi tratti ipnotica, ma tutto il cast è in stato di grazia e sembra aver colto profondamente il senso del racconto: uno sguardo tenero ma spietato sui rapporti umani, sulle incomprensioni calcificate dal tempo, sui silenzi e sui rimpianti, raccontato con esplosioni narrative da grande cinema e con stilemi orientaleggianti (l’analisi della famiglia disfunzionale in Hirokazu Koreeda, le visioni soprannaturali in Kurosawa Kiyoshi, la scarnificazione e la struttura del racconto morale tipica del grande cinema classico del Sol Levante) che si adattano sorprendentemente alla poetica di “transizione” di Gianni Amelio.
Il film è impreziosito da abili accorgimenti scenografici e narrativi che arricchiscono ulteriormente la ricercatezza delle inquadrature: come la scelta di ambientazioni simboliche e funzionali (lo studio, l’autobus, le scale, l’ospedale ecc.) e, soprattutto, la presenza di “feticci” (giocattoli premonitori, chiavi, oggetti personali) che rimandano al privato dei personaggi denotandone caratteri, nevrosi e persino il destino. Anche i temi dell’immigrazione e delle “Babilonie” linguistiche che ci separano dal “diverso” sono affrontati per l’ennesima volta dal regista, anche se solo a supporto alla vicenda principale. E la Napoli rappresentata è ben lontana dagli abusati luoghi comuni, e per una volta scevra da facili letture ideologiche.
Insomma, le ossessioni ricorrenti di Gianni Amelio ci sono tutte, quasi a ricordarci che ogni film del regista è una tappa di un lungo, coerente, strepitoso viaggio nella storia del nostro Paese e in quella del suo meraviglioso cinema.

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